Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Carvelli (del 27/03/2008 @ 11:57:46, in diario, linkato 1309 volte)
Delle volte mi scoppiano nella bocca frasi che dovrei trattenere. Delle volte succede tutto troppo velocemente e non faccio in tempo a frenare la lingua o a chiudere la bocca, a mettere silenzio tra pensiero e parole. Ieri ho pensato e fortunatamente non ho detto né scritto a chi mi aveva mandato il suo numero di telefono
"OK, SEI NEL MIO DATA-BASE"
Di Carvelli (del 27/03/2008 @ 14:15:40, in diario, linkato 1641 volte)
Approfitto dell'uscita del 3° numero della rivista internet Il seme sotto la neve www.ilsemesottolaneve.org (bel titolo da un libro di Ignazio Silone) per postare una recensione che spinge curiosità. E' interessante il tema della ipervolubilità degli acquisti e la concentrazione delle uscite editoriali. Un tema che prima toccava i piccoli (autori/editori) e sempre più tocca i grandi (autori/editori/casi in montaggio e smontaggio repentini nonostante "manovrine" varie).
“Le ultime ore dei miei occhiali” di Nino Vetri recensione di Fabrizio Ottaviani
Il successo o l’insuccesso di un romanzo – in questo caso di un racconto lungo; negli Stati Uniti lo chiamerebbero forse novelette – può dipendere da mille ragioni. Può accadere, per esempio, che sia soffocato dai suoi stessi compagni di scuderia. Qualcosa del genere è accaduto con Le ultime ore dei miei occhiali, opera prima del siciliano Nino Vetri, edita da Sellerio. Nelle stesse settimane in cui usciva il romanzo di Vetri comparivano infatti sugli scaffali delle librerie due testi, sempre per i tipi della Sellerio, che gli facevano concorrenza: il romanzo di Pietro Grossi L’acchito, il cui esordio l’anno scorso era stato molto apprezzato dai critici; e un singolare volume, Il correttore di bozze a firma di Francesco Recami, il quale prova ad estrarre da uno dei mestieri più misconosciuti, fra quelli che ruotano attorno alla carta stampata, una sorta di metafisica – ma senza alcun radicalismo cabalistico – della parola o della cifra.
Schiacciati tra Grossi e Recami, Le ultime ore dei miei occhiali hanno finito, quasi per contrasto, con l’essere appiattite e ricondotte agli aspetti più superficiali. In due parole, si è visto in esse l’ennesimo specimen di letteratura adolescenziale, da mettere accanto al celeberrimo e frusto – per le letture che se ne danno, non per il valore intrinseco – Giovane Holden. Quando invece il racconto di Vetri è ad un tempo più esile e più profondo. Anzi forse sta proprio in questo il valore del volumetto del siciliano: nel contrappunto fra un “motivo” adolescenziale virgolettato e ritmico, disteso da un candore compiaciuto e adorabile, da una parte; e quello spesso, greve, composto da due voci, che rimbomba minaccioso dall’altra.
La prima linea narrativa è quella del giovane protagonista, impegnato in un’attività molto comune fra gli adolescenti, la costituzione di una band: «Qualche tempo dopo aver comprato il disco dei Ramones cominciai anch’io ad andare in giro col giubbotto di pelle e i pantaloni strappati alle ginocchia».
L’altra fa capo invece alla figura del nonno defunto: «Mio nonno cambiava spessissimo i connotati. Una volta aveva dei baffetti sottili, un’altra volta il pizzetto, qualche volta la barba. Ma sempre le mani ai fianchi e il mento puntato verso l’alto. Un retaggio. “Non facciamo i mammolini”, diceva».
Ma per comprendere in tutta la sua criminale estensione in cosa consista tale misterioso “retaggio” bisognerà compulsare l’ultima pagina, un explicit che sorprende per incisività. L’espediente geniale di Vetri è stato di inserire, fra il “retaggio” del nonno e il piacevole egocentrismo del nipote, una sorta di filtro, di membrana osmotica in via di saturazione. È il monologo, sempre più vago ed opaco, del padre, la generazione di mezzo. Ed è significativo che si tratti di un malato di Alzheimer il quale, fra la costernazione di tutta la famiglia, comincia a non ricordare più dov’è il frigorifero di casa, ripone il pane nell’armadio e quando esce a comprare qualcosa torna poco dopo a mani vuote perché non sa più la ragione per la quale era uscito.
Snodandosi lungo questi binari – il giovane protagonista impegnato nelle prove di un concerto; il padre perso dietro ricordi così lontani (la guerra, con le incursioni dei bombardieri americani e le fughe sotto l’urlo delle sirene) da essersi messi in salvo dall’Alzheimer; il nonno, del quale emergono a poco a poco le reliquie (un fucile mitragliatore tedesco, o il mucchio di negativi fotografici dai quali, opportunamente stampati, emergerà la lugubre sorpresa finale) – Le ultime ore dei miei occhiali dimostrano che è possibile, con materiali leggeri, costruire piccoli capolavori di narrativa; riuscendo perfino a nascondere, fra le pieghe delle parole, qualcosa che assomiglia a un’indigesta verità: che l’“umanità” di una persona può entrare a regime su piani molto distanti dalle sue azioni; e che la simpatia, il calore o l’affetto non sono necessariamente un rimedio perfetto contro la barbarie.
(L’Autore è critico letterario de “Il Giornale”)
Nino Vetri Le ultime ore dei miei occhiali Sellerio, Palermo 2007 Pag. 80. Euro 10
Di Carvelli (del 27/03/2008 @ 16:36:03, in diario, linkato 1523 volte)
Brunello, Bach, Capossela. Capossela, Brunello, Bach. Bach, Capossela, Brunello. Tutto qui? Tutto qui. Ma non era poco no.
Di Carvelli (del 28/03/2008 @ 09:53:53, in diario, linkato 1655 volte)
Riverbero l'invito alla lettura di Malacarne www.malacarne.splinder.com (a cui devo a suo tempo il rimbalzo della questione-Maggiani, una questione un po' cheap e un po' sgvadevole come si dovrebbe dire in un buon salotto) del libro di Filippo Tuena. Nel suo sito anche una buona dose di commenti.
Les Revenants
Devo ringraziare Gian Paolo Serino (Satisfiction) per avermi fatto scoprire un libro di bellezza strepitosa, Ultimo Parallelo di Filippo Tuena. …ribadisco il concetto, insiste Serino alla fine del suo articolo, leggete questo romanzo perché è un capolavoro. Lo è. È un libro potente e profondo, scritto con una lingua che ha il dono della nettezza allo stesso tempo musicale, immaginifica. È un libro sulla condizione umana. Da tempo, fuori alcuni classici o scrittori come Mari o Moresco, non leggevo qualcosa del genere. Noto poi una tragica coincidenza: il libro di Tuena è passato sotto silenzio quando per qualità e spessore avrebbe meritato ben più attenzione. È una cosa che sottolinea, rabbiosamente, anche Serino. Ed è una cosa che in effetti fa rabbia: come nel caso, ad esempio, di un altro libro altrettanto strepitoso, altro capolavoro, a mio avviso, solo di recente (ri)pubblicato in tutta fretta da Fazi, Necropoli di Boris Pahor (si pronuncia Pachor). Il testo mi fu regalato qualche anno fa (edito dal Consorzio Monfalconese, coraggiosa e meritevole associazione culturale) da un mio amico triestino-sloveno, aggiungendo che si trattava di un grande, grandissimo libro sulla condizione concetrazionaria. Lo è. E finalmente, dopo anni, dopo che in tutta Europa è stato pubblicato questo splendido libro nonché gran parte dell’opera di Pahor (93 anni suonati credo), dopo riconoscimenti e premi internazionali, l’editoria italiana si è accorta che esiste uno scrittore sloveno-triestino (italiano?) di immensa qualità. Ho domandato al mio amico come mai secondo lui scrittori come Pahor siano stati dimenticati così a lungo. Pahor non è l’ultimo arrivato. In Francia e in Germania, per citare due importanti mercati editoriali, i libri e articoli di Pahor sono stati tradotti e pubblicati. È uno scrittore che ha un peso internazionale. È conosciuto, rispettato, celebrato. Perché, perché in Italia, solo adesso, a 93 anni, (eccezion fatta per qualche opera pubblicata dalla coraggiosa e ahimé minuscola casa editrice Nicolodi), sul finire della sua carriera, ci si accorge di Pahor, ci si accorge di uno scrittore che altrove esiste e potentemente esiste? Perché è stato rimosso, mi ha risposto il mio amico. Perché quella parte della storia d’Italia e dunque della nostra cultura è stata rimossa.Verissimo… Casi editoriali a parte, cos’è questo silenzio che coglie con estrema precisione, che ha mira, che sa dove colpire? Come mai, a fronte del gruppo milanese, bolognese, romano, delle conventicole in genere, dei resoconti geo-letterari sulla nuova letteratura italiana su cui si dilettano svariati e noti editor-scrittori-giornalisti c’è un silenzio così ben calibrato, così negligente che ricopre scrittori la cui grandezza appare lampante, fulminate, che parlano dell’Italia, della condizione umana, della storia come pochi oggi, nonostante lo sforzo immenso, energumeno profuso degli addetti ai lavori, sanno fare? Non è un caso dunque che questo silenzio, mi vien da dire, di cui “si macchiano” certi scrittori, sia oggi, tanto più oggi, feroce. Non ho motivo di dubitare del successo, quando viene, se viene e allorché meritato, eppure questo silenzio continua a sgomentarmi, soprattutto quando leggo libri sublimi e spaesanti come quello di Tuena o di Pahor e allorché di contro leggo invece libri mediocri, quantunque ben scritti, di scrittori ben più celebrati. Bazzicando (uso il termine scientemente) nell’editoria noto la cialtroneria, l’approssimazione culturale, l’assenza di gusto e di critica, l’incompetenza trasversale con cui ho a che fare, cosa da metter in relazione all’avvento dell’editore/giornalista, questo mostro di sintesi che determina il peso sempre maggiore che nell’editoria (editoria soccombente in ogni senso) ha assunto oggi la stampa – tutta la catena che va dalla tipografia al misterioso indaffaratissimo giornalista da prima pagina – e quel sordido patteggiamento, quel frenetico tramestio che decide delle ricadute commerciali e dei gusti nonché dell’esistenza stessa di un’opera a prescindere dalla sua riconoscibile qualità (cosa confermata, garantita e ribadita dall’incapacità, soprattutto sul piano delle medio-grandi casi editrici, di premiare o semplicemente notare, accanto ai pur comprensibili “casi editoriali”, coloro che davvero valgono qualcosa anche se a vario titolo inattuali). Ben vengano allora les revenants, questi scrittori/fantasma, queste ombre. Ci sono eppure non si vedono. E hanno altro fiato, altro respiro. Hanno altri orizzonti, ben altre mire. Appetitosi e per questo indigesti. Scrivono cose stupende e spiacevoli. Di sicuro non scrivono per gli editori. O per gli amici.
Si legga Ultimo Parallelo di Tuena. E anche l’articolo di Serino, che ancora ringrazio.
Di Carvelli (del 28/03/2008 @ 16:03:15, in diario, linkato 1371 volte)
Un cartello dice
ZONA STERILE
ALLARMATA
Avrei voluto fotografarlo ma un altro cartello dice
NON FOTOGRAFARE
Di Carvelli (del 28/03/2008 @ 16:09:51, in diario, linkato 1338 volte)
1 Scusa, sono occupato 2 Ti voglio bene 3 Arriverò alle 4 Chiamami per piacere 5 Per piacere dimmi come arrivare. 6 Per piacere Videochiamami. 7 Scusa, sono in ritardo. 8 Scusa sono in ritardo. Arriverò alle 9 Dove sei?
Queste sono le opzioni standard di messaggio che offre il mio (video)telefonino. Sto lì a pensare all'uso delle virgole e dei punti, alle azioni, alle mancanze, alle scelte, all'utilità di questo dire standard.
Di Carvelli (del 31/03/2008 @ 16:35:13, in diario, linkato 1325 volte)
Dovrebbe essere come per un musicista una nota. Per uno scrittore ci dovrebbe essere un suono a cui far seguire altri suoni. Dovrebbe essere uno spunto, potrebbe essere uno spunto. Data una situazione tipo... E sviluppare un seguito. A volte accade proprio così. A volte riesce ma certo la musica è la musica. Le parole le parole. Forse non c'è il corrispettivo di una nota. In letteratura.
Di Carvelli (del 31/03/2008 @ 16:40:31, in diario, linkato 1380 volte)
Dal blog di Mattatoia una poesia non di Mattatoia. Una poesia di Alessandra Palmigiano
Prego solo per questo rimanere
sulle cose che vengono bene
sulla grazia di questa pedalata
animalesca: non mi sfibreranno
i giochi le aperture le chiusure
né mi farò confondere dagli angoli
delle parole che consegnano troppe
cose, insieme troppe ma non vanno
a stanarle, non stanano le cose.
Di Carvelli (del 31/03/2008 @ 16:44:09, in diario, linkato 1181 volte)
Ecco come siamo in acqua. Dei finti pesci, con le gambe a rana, con le gambe a essere umano. Siamo con le unghie lunghe. Siamo coi tatuaggi. Con questi costumi senza concessione al piacere, alla bellezza. Sembriamo degli esseri umani pentiti. Tutti con le nostre cuffiette che dopo non ci riconosceremmo più. Negli spogliatoi: uomini con uomini, donne con donne. Fuori sembriamo normali. C'è un misto di pulizia e disinfezione. Sembra che qualcuno ci ha lasciati in una bagnarola a sciogliere microbi. E l'abbiamo ingannato il tempo e la varechina con il gioco: uno sgambare tutto felice. Ora siamo fuori e sembriamo esseri meno spirituali. Ci piace così, di non esserlo. Non del tutto, almeno. Non fuori dal prelavaggio in quella vasca di cloro. E ora andiamo. Dove ci piacerebbe. Ora, solo ora.
Gestire i conflitti. Che brutta espressione per un bel concetto! Un concetto ammantato di pacifismo ma di smodata illealtà. Alle volte rimango stupito di quanto - a lavoro accade con frequenza abbacinante - si faccia uso smodato ed arte del fraintendimento. Me ne stupisco sempre un po'. Sempre. Ad esempio a me piace usare il cacciavite dell'ironia e dell'autoironia - ma dovrei dire la sega perché oggetto più consono a due mani (di due corpi diversi) - per dirimere questioni a cui una certa immobilità non dà la stura. E serve: aiuta: fa felici: risolve. Ma la gente non se ne accorge. Funziona proprio così: si lavora con piacere, si sega, si svita e senza rendersi conto del tempo che passa, del corpo che suda, del braccio che s'indolenzisce. Tutti felici poi quando quel non rendersi conto della fatica non fa più fatica e si apprezza il raggiunto risultato. Ecco allora farsi avanti, subdolo, il piacere della demistificazione. Dell'utilizzo fuori contesto dell'autoironia (la tua) che diventa (tuo)ironia, ironia verso te. Forse, non è il solo caso nella vita, bisognerebbe mettere sottotitoli. Tipo: stiamo usando l'autoironia come morbido cuscino per sudare con meno sforzo, dopo la metteremo da parte affinché ci serva ancora per altri sforzi. D'accordo? (come tuonava la vecchia Marchi) Forse serve un patto scritto che non ci faccia pentire di aver aiutato la fatica. Ecco: quando sento Gestione dei conflitti penso a queste cose qui, belle parole che nascondono vizi di forma. L'essere umano tende a prevalere e di epoca in epoca, di luogo in luogo trova il modo per farlo. In un secolo lo chiama "capitalismo", in un altro "internazionalismo", in certi anni "guerra", in altri "gestione del conflitto". C'è solo un frantendimento. Ad arte.
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