Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Nel poco tempo che mi rimane provo a leggere. Con fatica. Dopo 9 o 10 ore di lavoro, dopo 1 o 2 ore per scrivere cose mie (e ho saltato varie ed eventuali - più eventuali che varie - più saltate che fatte). Dunque leggo (e spero di finire anche perché mi piace come è raccontato) Il caso Vittorio di Francesco Pacifico. Un libro, invero, già un po’ datato (solo nel senso dell’uscita perché attuale anche nella storicizzazione degli anni semi-vicini che racconta). Ci sono autori che conosco senza averli letti. Di cui sento spesso parlare. In qualche caso li incontro, addirittura. Ed è un vero peccato conoscere cosa pensano veramente ma senza contestualizzarlo nel loro mondo. Nei libri degli autori c’è quasi sempre il mondo di quegli autori, un mondo che a volte non coincide o poco con come sono fuori dalle righe. In questo caso, magari, anche superato dai nuovi sviluppi del loro lavoro. Un’evoluzione del loro mondo o dei mondi nei mondi in cui fanno vivere i loro personaggi. Nel caso di Olivier Adam - Passare l’inverno, racconti, sempre minimum fax - il mondo del racconto mi piace ma le chiuse dei tre-quattro che ho letto no. Nessuna. Peccato. I racconti sono belli. Bella la prosa. Bello il mondo in cui ti calano, il senso di sospensione su cui scende decisa l’accetta del basta. E basta quello per cambiarmi la percezione della bellezza. Mentre sono così affaccendato (nelle faccende mie e in quelle di questi due libri presi in biblioteca) mi arriva il nuovo di Carola Susani (Eravamo bambini abbastanza) – e aridanghe sempre minimum fax – e sospendo la lettura degli altri due anche perché di questo ne scriverò. Due pagine e già mi piace. C’è un’atmosfera vonneguttiana e il senso di una catastrofe imminente o appena avvenuta. Lo sento vicino. Vicino a quello che sto scrivendo. Una storia (la mia che scrivo) a cui mi sto appassionando di nuovo dopo averla abbandonata per un po’ di tempo. Un libro di anticipazione totalmente diverso dagli altri che ho scritto finora. Un libro che è fuori e dentro di me. In cui guardo (scrivo vedendo) e racconto. Un mondo in cui uno come me – che non sono io – sta muovendo i suoi passi. In una catastrofe che già c’è stata. Nella speranza di una che ci sarà. Come per cercare un angolo di mondo in cui non lo coglierà. Leggo e scrivo. Strappando tempo al tempo. Quello della lettura (e nella lettura). E della scrittura (nella scrittura e della e nella lettura di quella).
Ciao caro o cara posso essere un po' ipocrita con te? Dirti quel che non penso? Prendere le tue parti davanti e parlarti male dietro? Scusa eh sai cioè... E' che preferisco che tu pensi che io ti stimo. Non è che ci rimani male no? Sai così è tutto più semplice. In fondo siamo fatti tutti così. Vabbè adesso vado.
Racconto a una mia amica un bisticcio con due ragazze consociate contro di me la passata settimana. Lei, amante dei legal thriller, mi ascolta un po' spazientita. Poi con l'assertività del genere che ama chiede: "Ma scusa una non è quella che per ben due volte ti ha proposto quella cosa lì in modo più che esplicito e tu per due volte le hai dato buca?" Sì ma in realtà... "Rispondi: sì o no?" Sì. Ma... "E l'altra non è quella che ti ha detto che le piacevi e che siete usciti un po' di volte e poi tu... nulla?" Ma veramente non so, non credo che c'entri... "Rispondi alla domanda: sì o no?" Sì. "Non ho altre domande vostro onore".
Roberto Roversi da L'Italia sepolta sotto la neve (Parte quarta, Le trenta miserie d'Italia)
XII
La miseria della misera Italia numero dodici la testa in fiamme la sterpaglia della festa dei pensieri paglia che avvampa brucia fra braci di fumo. Si consumano notizie mescolate al ricordo di vecchie età l'armamentario sul carro della vita in corsa è spazio di fresca primavera. Altrove polvere sollevata dall'auto nella strada di campagna odora di mele mentre il merlo s'allontana stride forte a filo dell'erba lungo il mare siepi siepi siepi di oleandri abbandonati e pini scavezzati dai venti secolari camminano a terra. Può la morte ordire il suo acuminato massacro ridurre in cenere il delfino il vascello in fuoco la sovrastante nuvola in ciclone e travolgere la vita? Il fervore trascinato in gorgo l'esistente in un attimo è scomparso giovinezza è il ricordo poi sull'occhio chiuso del cielo interminabile di tetti e alla fine dimenticare la tomba dei vecchi eroi? Quante primavere gli uomini fuggitivi abbandonano alle giovani ali che arrivano portate dal garbino? Si può considerare l'opportunità di non rassegnarsi bruciare il carro del vincitore anche le nostre bandiere. Per favore.
Che si fa del poco tempo che ci rimane? Di quegli istanti in mezzo al tanto che hai da fare e al poco che vorresti? Oggi per essere un blog di servizio vi do i miei buoni consigli. Tosare il prato (lasciando una fascia di erba lunga), condire l'insalata (poco aceto, prego), leggere le scritte sugli autobus (c'è scitto BUDDA BUDDA in mezzo a BREDA), guardare le donne (o gli uomini) dal tavolo del bar (ascoltando i loro discorsi), cucinare torte, mangiare torte, finirne i resti, salutare con la mano, svegliare le papere (per chi le ha) e rincorrerle (per chi se le trova a tiro), carezzare un gatto (se gli va, al gatto). Non voglio essere uno di quei tipi enciclopedici per cui mi fermo qua.
Solitudine
Che vergogna andare al cinema da solo senza un amico, senza un'amica, senza moglie, là dove tutti gli spettacoli sembrano tanto brevi e tanto lunga la loro attesa.
Che vergogna in questa interiore guerra dei nervi davanti alle coppiette beffarde del foyer in un angoletto, tutto rosso, masticare un pasticcino, come se ci fosse di che restar confusi... Noi, fuggendo la solitudine e l'angoscia ci buttiamo in qualsiasi compagnia, e così degli obblighi che fanno schiavi di amicizie senza senso ti perseguiteranno fino alla tomba.
Le amicizie si formano in modo assurdo: gli uni si danno al bere senza una ragione, gli altri non sono interessati che ai fronzoli e alle donnacce, e c'è pure chi sembra occupare il tempo in discussioni astratte, ma di fatto si somigliano tutti tra di loro... Molte son le forme della vanità! O l'una, o l'altra chiassosa compagnia... Non saprei a quante di queste io sia riuscito a sfuggire!
E come caduto in un nuovo tranello, sono riuscito a sfuggire, lasciandovi il pelo, sono sfuggito! Mi sei dinanzi, vuota libertà... Perché diavolo mi sei necessaria! Mi sei cara e insieme odiosa, come una moglie non amata e fedele. E tu, amata mia, come stai tu? Ti sei liberata delle tue vane preoccupazioni? A chi adesso appartengono i tuoi occhi strabici e le tue bianche, splendide spalle? Pensi certo che io mi vendichi, che in qualche parte mi precipiti in taxi, ma se anche lo facessi dove scenderei? Eppure non potrei liberarmi di te! Con me le donne si rinchiudono in sé, perché sentono d'essermi ora del tutto estranee. Abbandono la testa sulle loro ginocchia, ma non a loro, a te appartengo... Or non è molto sono stato da una in una brutta casupola di via Sennàja. Ho appeso il paltò a un misero attaccapanni. Sotto un abete spoglio da un lato, con le lampadine fioche, rilucendo con le sue pantofoline bianche, sedeva una donna, severa come una bambina. Avevo così facilmente ottenuto il permesso di venire, che ero sicuro di me e troppo inebriato, come oggi si usa e le avevo portato non fiori, ma vino. Ma tutto apparve molto più complicato... Ella taceva e modestamente due goccette trasparenti, due orecchini, brillavano sui suoi lobi rosati. E, come sofferente, guardandomi confusa, sollevando il suo corpo di fanciulla, mi disse con voce smorzata: "Vattene... È meglio di no... Lo vedo, non sei mio, ma suo..." Mi amava una ragazzetta dalle maniere rudi, da maschiaccio, con un ciuffetto sbarazzino e gli occhi trasparenti, pallida di paura e tenerezza. Eravamo in Crimea. C'era di notte un temporale e la ragazzina al bagliore dei lampi mi sussurrava: "Mio piccolo! Mio piccolo!" e mi copriva gli occhi col palmo della mano. Intorno tutto era spaventosamente solenne, il tuono e il gemito sordo del mare, quando all'improvviso ella, con una lucidità tutta femminile, mi gridò: "Non sei mio! Non sei mio! » Addio, mia amata! Io sono tuo, cupo e fedele, e la solitudine è la più fedele di tutte le fedeltà. E non importa se sulle mie labbra non fonde più la neve d'addio del tuo monchino. Grazie alle donne belle e infedeli per tutto ciò che è durato un istante, per quell'addio! che non è un "arrivederci!", perché, fiere come regine nella loro menzogna, ci regalano delle dolci sofferenze e i magnifici frutti della solitudine.
Evgenij A. Evtusenko
Rimango in attesa di qualcosa che (so che) non verrà. Ecco la mia particolare forma di evanescenza. Ecco il mio disincanto operativo. Essere per non. Non avere. Non sperare. Così, da tutto questo, il nuovo può arrivare e andare. Senza un permanere di delusioni, di sbadate sviste. Un gioco che so fare, un campionato a cui posso partecipare. Chi è invitato di solito si diverte. Perché questo è uno sport per tutti. E io non sono un campione ma un buon giocatore. Uno che non vuol vincere a tutti i costi. O, peggio, stravincere. Ma solo uno che si vuole divertire insieme a qualcun altro. Rimango in attesa perché so che qualcuno giocherà.
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