Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Autobus (sempre leggendo Houellebecq). Mattina. Calca. Mi cade l'occhio sul campanellino della prenotazione della fermata. Tram antico, quindi bottoncino concavo su ovale di plastica (TUTTO MARRONE E NERO) che fa din. Un din preciso, squillante, da vecchio telefono a cornetta. Sotto, a pennarello, una scritta in stampatello:
(EVITIAMO LE DISCUSSIONI)
LA FERMATA E' A RICHIESTA!
Mi hanno fatto sempre simpatia quelli che intercalano le loro deduzioni su di te con questa semplice clausola del gioco: "scommetto che tu". Più leggera dell' "Io penso che tu". Più deduttiva, e probabilistica. Più lenta e incerta, più rimediabile. Più allegra, quasi infantile. Anche se, alle volte, "io penso che io..."
After such pleasures
di Julio Cortazar
Questa notte, cercando la tua bocca in un'altra bocca quasi credendoci, perché così da cieco è questo fiume che attira nella donna e mi sommerge fra le sue palpebre che tristezza nuotare infine verso la riva del sopore sapendo che il sopore è questo schiavo ignobile che accetta le monete false, le fa circolare sorridendo. Scordata purezza, come vorrei riscattare questo dolore di Buenos Aires, questa attesa senza pause né speranza. Solo nella mia casa aperta sul porto un'altra volta incominciare ad amarti un'altra volta incontrarti al cafè la mattina senza che tante cose irrinunciabili fossero accadute e non dovermi accontentare di questo oblio che sale verso il nulla, per cancellare dalla lavagna i tuoi pupazzetti e non ritrovarmi soltanto una finestra senza stelle.
(traduzione: Federico Guerrini) Esta noche, buscando tu boca en otra boca casi creyéndolo, porque así de ciego es este río que me tira en mujer y me sumerge entre sus párpados, qué tristeza es nadar al fin hacia la orilla del sopor sabiendo que el sopor es ese esclavo innoble que acepta las monedas falsas, las circula sonriendo. Olvidada pureza, cómo quisiera rescatar ese dolor de Buenos Aires, esa espera sin pausas ni esperanza. Solo en mi casa abierta sobre el puerto otra vez empezar a quererte, otra vez encontrarte en el café de la mañana sin que tanta cosa irrenunciable hubiera sucedido. Y no tener que acomodarme de este olvido que sube para nada, para borrar del pizarrón tus muñequitos y no dejarme más que una ventana sin estrellas.
Sarà che non fa per me, che non sono uso... Sarà ma non si può rimanere sempre fuori. Fuori dai ristoranti. Eppure il lapidario "è tutto prenotato" mi infastidisce. Qualcosa mi stona, mi irrita. Cosa dovrebbe far pensare tra tavoli vuoti fuori e dentro il locale e ore 14 che tutto sia pieno? Una penuria delle derrate? Una mancanza di sicurezza nel servizio? Ore 14 - capito? 14! - non mezzogiorno né le 13. Bah!? Per quello che penso io un ristorante non dovrebbe lavorare solo su e con le prenotazioni. Un margine di tavoli dovrebbe essere libero, a meno che sia una casa, una famiglia, un luogo piccolo e pochi tavoli, o un vero agriturismo (che è appunto una casa). Ma c'è qualcosa in più. Più autoreferenzialmente. Perché io non prenoto mai? Perché nessuno dei mie amici...perché non ho amici che prenotano? Perché frequento solo avventurieri della tavola? Ieri a Bracciano, località ridens dei dintorni romani con guida slowfood in mano e due no su due. Sabato scorso nel Testaccio romano 4 no su 4 (senza guida). Eppure non mi viene ancora in mente di prenotare. E' un problema di età? O un fatto di temerarietà e infedeltà?
"Le difficoltà degli scrittori con la critica e la storiografia letteraria dipendono forse dall'atteggiamento degli storici e dei critici, che seguitano a spiegare la letteratura come qualcosa d'importante. Così facendo precludono allo scrittore quelle uscite laterali che sono le uniche da cui può passare la letteratura, e che le permettono di fare cose senza importanza". Così Peter Bichsel (in Il lettore, il narrare), uno scrittore svizzero di grande acume e millimetrie poetico-narrative. Spesso i pertugi più angusti sono la premessa di grandi aperture, di slanci, di ampiezze (stringate e omeno non importa) di senso. Perdere per conquistare, rinunciare per avere. Per essere.
Ognuno ha delle parole che sono solo sue (o che forse sono adattamenti dal suo dialetto). Una collega usa SFLAVIDO. Uno che conoscevo diceva SPULCIA (in luogo di SPUNTA=togliere nomi da una lista). Uno SUSTO (per dire di volgare, buffo). Io BUFFO, spesso troppo spesso come altri CARINO. E voi che parole avete solo vostre?
Dall’alto come lucore/ o quanto un fiume in piena/ la notte, la nera, consuma/ quel poco di cielo che trema./ E piega per piega dal cielo/ davanti, dietro il giorno/ nelle foglie di questo acero/ posa la sua mano felpata./ Dire sì, tu sei l’acquaio, la roggia che sgocciola nel nulla/ quel che abbiamo detto o fatto/ da soli, senza sapere/ se dire di essere per perdersi o perdersi per essere.
Da Amôrs (I) di Pierluigi Cappello
Chi racconta ha a che fare col tempo. E coi sentimenti. Lo scrivere è essenzialmente una relazione con la temporalità. Sì. Sui sentimenti (c'è una vena di apologia della tristezza su cui non si può dissentire ma si deve riflettere... quale opera non ha tema nella tristezza?) qualche perplessità, se non altro per definizione o progetto. E' interessante l'idea della non verità di quello che si scrive (ogni scrittore nello scrivere albero dovrebbe fargli seguire il "questo non è un albero" di magrittiano ricavo)... Mi ha colpito la frase, citata, di un induista alla domanda se il Rama fossevero..."Vuoi sapere se la storia è vera o soltanto se è accaduta?" Mi sembra che in quel soltanto ci sia tutta la grandezza della letteratura.
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