Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
C'è un racconto della raccolta di Aimee Bender - La ragazza con la gonna in fiamme (minimum fax), che al punto in cui sono mi è sembrato il migliore, in cui succede qualcosa di pericolosamente bello. Pericoloso è anche forse solo immaginare o provare a spiegare che succede in questo racconto di bello. Come in altri, peraltro, di questa scrittrice americana. Pericoloso sciogliere il legame parossistico tra Jill e Renny, in esaurimento tra Jill e Matthew. La scrittura - nella quale la Bender a suo modo eccelle - qui cede il passo alla costruzione. Così si viene trascinati involontariamente in un gorgo. O, per rimanere al racconto, verso un precipizio. Come noto - se non altro in una visione meno accreditata ma di moda - un precipizio non è spesso una caduta. Ma una sollevazione. Può quanto meno esserlo. Cosa che succede nel punto di intersezione tra due pericoli. Quello di Jill che sembra destinata a un'uscita di scena. Quello di Renny che si sente obbligato ad una analoga presa di distanza dal mondo e anche da sé. Cosa che per entrambi avviene ma non nella forma definitiva che sembrano inconsapevolmente (una strana forma di inconsapevolezza cosciente o rassegnata, quasi sacrificale) raggiungere ma in un'altra che leggerete. E che forse, come me, immaginerete pericolosamente e inconsciamente risolutiva. Vitalistica ma solo per dire che spesso la vita(lità) passa per un abbandono e una caduta. Una caduta, appunto, di un tipo diverso.
Di Carvelli (del 31/10/2012 @ 10:22:49, in diario, linkato 1005 volte)
Ho letto e mi è molto piaciuto il libro di Giorgio Ficara - Riviera (Einaudi). Una riconsegna dei luoghi dopo il bagno del tempo, del ricordo e della storia. Una visione braudeliana che si innesta però sul ricordo personale in una terza via interessante. Terza tra storia, diario e libro di territorio. L'autore parte dalla Liguria della sua infanzia. Dalla sua Liguria. E la mette in relazione con i luoghi della storia e del racconto orale. Nasce e muore nel dialetto come voce definita di uno spazio definito. Gli autori di libri sui luoghi fanno così: si appropriano di spazi non loro e li fanno propri. Questo scambio simbolico tra sé e il mondo - se riesce - trasforma quei luoghi e suggerisce prospettive diverse di osservazione. Lo fanno le guide, in un modo. Lo fanno i libri sui luoghi, altrimenti. La fortuna di questo testo è essere riuscito a essere se stesso senza per questo rinunciare a essere altro. Io e noi si confondono. Qui e ovunque si chiariscono in uno scambio incessante. Che non porta lontano per abbandono ma per verticalizzazione. Si rimane così tra Portofino e Camogli senza lasciarli definitivamente ma solo alzandosi quel tanto da non perderne di vista il contorno. E in questo il gesto di Ficara ricorda quello dei marinai liguri che lasciavano la loro terra pur rimanendone alla vista o ritornandovi e riconoscendo il profilo tenue del colore delle loro case. Amare i luoghi dovrebbe avere questa capacità di fedeltà nella distanza. Anche i libri sui luoghi ne dovrebbero essere informati. Un po' il destino dell'Ulisse che possiamo modernizzare. In un'epoca di passaggi e di abbandoni. E non è casuale che una delle letterature più vivaci e vitali di oggi sia quella dell'emigrazione che - anche in questo caso - attraverso lo scambio simbolico della lingua compie il miracolo semplice dell'eternità e dell'ovunquità (chiedo venia per il termine). Il nome che faccio - quello della Kristof - serve a radicalizzare il ragionamento sui luoghi (luoghi-Universo). Chiudo con una citazione dal libro che ribalta (anche se a specchio riavvalora - trovo io) il troppo dimenticato Sbarbaro di "Perdermi là sognavo, essere un altro,/ dimenticarmi sino del mio nome": "A differenza di Sbarbaro, sarei partito non per un eccesso di pena e disgusto di me stesso, per perdermi; ma per inseguire il vero me stesso altrove, sul mare e al di là del mare, per trovarmi" scrive Ficara. Perdersi e trovarsi spesso finiscono per essere due interruttori per un passaggio di energie contigue. Condizioni diverse ma comunque vitali. In ogni caso definitorie. E di centratura.
Ieri siamo andati a vedere Alla ricerca di Nemo. Era l'ultimo spettacolo. Ci hanno dato gli occhialetti 3D e siamo entrati in una sala vuota. Solo noi due. Abbiamo pulito con la salvietta le lenti e li abbiamo inforcati. Si sono spente le luci e sono partiti i trailer. Che erano in 3D. Poi le luci sono rimaste spente e siamo rimasti nel buio. Dopo cinque minuti abbiamo realizzato che c'era un problema. E siamo andati a capire quale fosse. Il problema era che il tizio stesso che ci aveva dato gli occhialetti pensava che non ci fosse nessuno in sala. "Provvedo" ha detto e sono ripartiti i trailer. Gli stessi di prima. In 3D. C'era un'aria di deja vu ma capita quando una cosa è esattamente quella che hai già visto. Alla fine dei trailer la sala si è fatta di nuovo buia per tre minuti e siamo andati a ricercare il tizio che provvedeva. E ha provveduto. Di nuovo trailer. Di nuovo 3D. Di nuovo la sensazione di deja vu. E' seguito cortometraggio tipo Toy Story - ma eravamo già un po' confusi da quella novità per capire cosa era vero e cosa era animato. Cartone animato. E soprattutto ci siamo chiesti a quel punto se davvero avremmo visto (io rivisto) Nemo. Così è iniziato Nemo e si è fatto tardi. Così. Esattamente così come vi ho scritto.
Ma se poi penso veramente alla tua morte
in quale letto d'ospedale o casa o albergo,
in quale strada, magari in aria
o in una galleria; ai tuoi che cedono
sotto l'invasione, all'estrema terribile bugia
con la quale vorrai respingere l'attacco
o l'infiltrazione, al tuo sangue pulsare indeciso
e forsennato nell'ultima immensa visione
di un insetto di passaggio, di una piega di lenzuolo,
di un sasso o di una ruota
che ti sopravviveranno,
allora come faccio a lasciarti andar via?
"Io millantarmi alquanto/ Voglio qual mi comanda il folle vino,/ Che talvolta i più saggi a cantar mosse/ Più in là d'ogni misura, a mollemente/ Rider, spiccar salti improvvisi, ed anche/ Quello a parlar, ch'era tacere il meglio". (Ulisse: Libro XIV, 548-553; 1961)
|