Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Mi è accaduto recentemente di ricevere una lettera per la rubrica di segnalazioni librarie di Blue che mi ha suggerito un tema che voglio trattare oggi qui. Esiste una particolare forma di plagio che si chiama eco. Essa si articola in 1 scrivere al modo di 2 scrivere quello che 3 scrivere come se. Il sottinteso (o l'inteso) è come se non si fosse letto... In realtà (accade spesso anche a me) si è letto e non si ricorda di averlo letto. Per cui le cose finiscono per assomigliarsi. Si somigliano gli stili e i temi. Alle volte si somigliano pure le idee di partenza e questo sembra (è) più grave perché mette a repentaglio la nostra originalità. Anche perché sovente la versione 1 va meno bene della versione 1.0. Anni fa avevo dichiarato di voler scrivere una sorta di epica dei precari e mobbizzati (uscirono una intervista sull'Unità a F.De Sanctis e un fondo perplesso sull'Avvenire di Carnero). Il progetto passò in secondo piano (sia con il mio editore con cui ero in parola per realizzarlo come seguito di BEBO E ALTRI RIBELLI che nei miei incipienti impegni a cui poi avrei deciso di dedicarmi in prima battuta). Successivamente la mia idea di CASTING LETTERARIO accantonata diventò (è diventata) reportage di altri ma non per questo ho gridato al plagio. Diciamo che al mondo (il nostro mondo di tamburellanti ripetizioni mediatiche) esistono delle risonanze che suggeriscono a molti le cose che a uno sembrano originali, nuove, personali. Ma ciò non toglie che esista il plagio e a me è capitato più di una volta (2 volte) di spedire progetti poi visti realizzare dagli stessi editori ad altra firma. Sul fatto che invece i romanzi sembrano raccontare le stesse cose, sciorinare gli stessi temi, sviluppare gli stessi ambiziosi plot sembra più effetto di un filo rosso che mette in comune senza farsene accorgere le idee di tutti. L'altro grande pericolo è una forma di master di scrittura replicato a go go. E questo fa parte di un sistema di cose per cui sembra che temi e stili debbano essere gli stessi o che esista una vulgata dello scrivere: lo propongono le case editrici che fanno tendenza, lo approvano i critici, lo rimbalzano i quotidiani e le tivvù, lo scimmiottano i piccoli editori, lo vampirizzano i grandi. Questo eccesso cancella lo sfondo, il secondo piano, il diverso. Che pure serve. Che pure dovrebbe servire.
Di Carvelli (del 03/01/2006 @ 14:05:26, in diario, linkato 1095 volte)
Ognuno ha il freddo che si merita e non è del tempo e non è del gelo. Ognuno ripara come può i suoi pensieri. O come crede. Coi tessuti che ha o che procura. Con lo scarto tra il percepito e i celsius ognuno trema o tentenna al vento. E non è delle stagioni il freddo o delle ore. E' come dire che il giro dei termometri fa il suo lavoro come il corpo fa il suo. E dall'incontro/scontro di queste variabili nasce la totalità dei climi percepiti nell'immutabilità degli eventi umani, della storia, delle epoche. Così non dici "è freddo" ma "ho freddo" né "c'è il sole" dici. Ma "sto bene" o "sto male". Senza guardare al barometro.
E' una scena che so, che ho visto. Lei saluta in punta di dita, lo sguardo fermo sul passato e una breve incognita sul futuro. In mezzo c'è la voragine di una ferrovia. In mezzo c'è l'ineluttabilità di un autobus che passa. In mezzo c'è andare e non restare. O non potere. Dopo - dopo questo precipizio tra le onde che fanno le dita - c'è la serena incertezza del domani. Ma la domanda è l'oggi. Qual è l'oggi? Le dita che ondeggiano come una pezzuola della mano? Lo sguardo che decide di non fermare la corsa delle vetture o il fischio che muove il treno? Ma è una scena che so. nel momento in cui la vedo mi è familiare. Ed è già oltre. Passata. Andata. Verso il dopo che arriva. Oggi.
Di Carvelli (del 05/01/2006 @ 09:05:34, in diario, linkato 1111 volte)
Da Was there a time (Vi fu un tempo) di Dylan Thomas
Sotto i segni del cielo chi non ha braccia
Ha mani più pulite, e dato che lo spettro senza cuore
E' l'unico a non essere ferito, il cieco vede meglio.
Entrare al cinema per vedere un film per la seconda volta, a poca distanza dalla prima. Vedere lo stesso film due volte. Gli stessi titoli di coda, la stessa musica (ma non c'era musica). Le stesse facce (sullo schermo), le stesse smorfie. Gli stessi vestiti (i loro). Chissà se si possono qualificare le temperature, i braccioli, i profumi, il respiro di chi ti è vicino, la seduta più o meno comoda, la posizione (con una testa di donna in più che si mangia ora il centro ora la sinistra del grande schermo). Che ffetto fa non aspettare il dvd o il vhs e seguire per lo stesso tempo della visione la stessa storia con lo stesso sviluppo (chissà se il cervello mette in atto altre procedure di lettura o le stesse come comandata a degli scatti suggerite dalle parole o dal colore biondo dei capelli o...). Che effetto fa ritagliare questo spazio di "ancora una volta" di "rivedere quello che si sa prima che lo si sia dimenticato". Quindi non "per ricordarlo" non "per ritrovarlo" ma per "averlo ancora uguale (uguale?)". Ieri ho rivisto L'enfant.
Di Carvelli (del 09/01/2006 @ 09:32:16, in diario, linkato 1589 volte)
Mangiare metà delle porzioni. Essere d'accordo ma non del tutto. Sentirsi bene, in parte. Male, per metà. Dire di sì ma non a tutto. Dire di no ma lasciare metà di incertezze, di dubbi, di speranze. Essere affettuosi e un po' freddi. Essere felici con un ma. Essere arrabbiati con un però. Coltivare un sogno ma lasciando un pezzo di realtà. Aspettare alla fermata un autobus che non arriva (ma arriva una spicciolata di passi che fanno pensare al ritorno dalla guerra) e quindi farla per metà a piedi. Lasciare un'altra metà di incertezze attorno a sé, una metà di dubbi, una metà di dolori. Non fare altro che metà di quello che andrebbe fatto. Una metà fatta bene, bella, significativa. Tutto questo potrebbe andar bene comunque. Basta non pensare che è metà, basta sapere che non è metà. Ma tutto quello che abbiamo. Ora.
Di Carvelli (del 10/01/2006 @ 09:12:46, in diario, linkato 1550 volte)
La confidenza vince sul riserbo il coraggio vince sulla timidezza la macchina vince sul pedone la moto vince sul pedone la macchina vince sulla moto la moto vince sulla bicicletta il cane vince sul gatto la rabbia vince sul perdono la vendetta vince sul perdono la confusione vince sul silenzio la lamentela vince sul dolore il dolore vince sull'annientamento il negro vince sul bianco il bianco vince sul negro le scarpe vincono sui piedi nudi il maglione vince sul petto nudo il sole vince sulla pioggia e sul freddo l'autobus vince su auto moto e biciclette lo spam vince sulle mail private il clacson sul silenzio la televisione vince sul cinema il cinema vince sul teatro il reality vince sulla televisione la muffa vince sulle pareti il fuoco vince sugli alberi l'acqua vince sulle spiaggie il
Di Carvelli (del 11/01/2006 @ 09:32:46, in diario, linkato 1497 volte)
Ad avere gli occhi tuoi non è mai adesso, non vince mai la morte, non c'è guerra, non c'è dubbio. Piove e non ti bagni, si va avanti. Non ti preoccupare. Dici che è domenica e domenica ci si riposa. Dici che l'Iran fa bene a rifare la bomba e che il mondo sarà più sicuro come lo era quando c'era l'URSS che lì nessuno faceva una mossa né da una parte né dall'altra e dici che la debolezza del fronte antioccidentale ha provocato il formarsi del terrorismo. Ad avere gli occhi tuoi le gonne delle tenniste non sono quelle di una volta e che era più bello sentire il rumore dolce del legno battuto dalla pallina. Dici che un tempo se uno lanciava un giavellotto lanciava un sistema economico, un ideale, una bandiera e che ora si lanciano soldi che non vanno lontani nascosti in una casacca da stilista che lontanamente ricorda un Paese, figurarsi un'idea. E' che, ad avere gli occhi tuoi, il mondo va lento o veloce e non è il fatto questo. Ad avere gli occhi tuoi non c'è metodo, non c'è progetto. Tutto corre verso altro che corre ed è bene che non intruppi. Ché ad avere gli occhi tuoi i disatri aerei e quelle ferroviari e quelli politici... tutto - dici - deriva da questa corsa scomposta.
Di Carvelli (del 12/01/2006 @ 14:17:40, in diario, linkato 1567 volte)
Tutte le bariste del mondo dovrebbero avere qualcuno che gli scaldi le dita. Soprattutto perché è inverno e fa freddo e metti e leva e caldo e freddo alla fine le dita ce le hanno gonfie e rosse come le dita di chi ha il vizio dell'alcol e sempre fredde e umide anche se sono asciutte e con gli anelli che ci rimangono in mezzo sacrificati al dolore dei polpastrelli che premono per ingigantirsi sempre di più. Tutte le bariste del mondo hanno diritto a qualcuno che scaldi loro le dita e non importa chi sia questo qualcuno e se sia un qualcuno buono o bravo ma un'altra mano più calda e paziente che tenga le loro al caldo di una stretta. Ché se devono tornare a casa sole senza passare per niente altro che non sia un televisore sfiatato sul nulla allora quelle bariste sono costrette a mettere una tisana calda o un te in una tazza e starsene fino a che la stanchezza non diventa sonno con le dita aggrappate ad una tazza fumante che cosa non sanno. E non è giusto. Tutte le bariste meritano le mani di qualcuno. Tutte senza eccezioni.
Di Carvelli (del 13/01/2006 @ 09:33:39, in diario, linkato 1613 volte)
“L’Amore e l’Amante vivono davvero in eterno:/ non attaccare il cuore a cose riflesse e prestate!/ Fin quando t’abbraccerai stretto un’amante già morto?/ Abbraccia piuttosto la Vita, che non ha limite mai!”
“Anzi siamo più alti degli Angeli! Perché non passiamo oltre dunque? La nostra meta è l’Eterno!”
Rûmî – Poesie mistiche (traduzione di Alessandro Bausani)
Perché usiamo la parola “intimità” solo in riferimento alle altre persone? A noi con le altre persone, e così raramente a noi in riferimento con noi stessi? “Nel nostro intimo” per estensione sembra esser diventato “nel nostro privato messo in condivisione con gli altri (non sempre il privato degli altri)”. Perché “intimità” non significa il nostro personale rapporto con noi stessi svincolato da qualsiasi altra relazione esterna? Il diario di oggi è a rotaia. Nasce sul tram e ascolta (spia acusticamente) una conversazione in cui una ragazza parlava ad un’amica (un’amica? O una conoscente, una coinquilina – si sale sull’autobus con un’amica alle 8 del mattino? Forse sì) in intimità (ma eravamo trecento e uno addosso all’altro ed era impossibile non violarla, forse voleva essere violata quella intimità? “Io gli ho regalato questo… io gli sono stata vicina quando…. Che poi io glielo avevo detto che lui… invece non mi ha dato retta…” Ogni frase sembrava far scoppiare dei palloncini di plastica come quando ai lunapark se ne rimane un po’ di plastica afflosciata a pendere da una corda. Esplosa. Finita. Ridotta all’insignificante brandello di un’inutilizzabile fibra. In palio non c’era neppure un orsacchiotto di squallido peluche con gli occhi due ellissi disegnate male.
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