Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Carvelli (del 17/10/2007 @ 12:07:04, in diario, linkato 1450 volte)
Mentre ringrazio mattatoia (che del libro è stata a tempo debito la promotrice e l'editor) e melpunk per il loro sostegno e le tante persone intervenute nei loro blog (da cui tra l'altro apprendo che le edizioni il foglio lanciano l'originalissima collana "Taccuini di viaggi insoliti e sentimentali" - già "obliqui" già "obliqui e sentimentali" - diretta da Francesca Mazzucato) registro il contributo di Massimiliano Parente sulle pagine di Libero di stamane. In un lungo intervento sul proliferare delle guide d'autore menziona anche la mia piccola questione. Così:
(...) mentre la peggiore (guida d'autore) si prospetta quella di Maurizio Maggiani, in uscita per Feltrinelli, che si intitola "Mi sono perso a Genova", e la cui scheda promozionale annuncia "una città in cui è più facile perdersi che trovare la prospettiva che tutte le contiene", per trovare "le sue fabbriche", "i vicoli che salgono dal porto", il "mare-operaio". Spiccicata a un'altra di Roberto Carvelli intitolata "Perdersi a Roma", uscita nel 2004 per le Edizioni Interculturali, che proponeva il medesimo "invito a perdersi" e a lasciarsi condurre tra "discariche, ospedali, cantieri, piccoli cinema, bar fuori mano, con uno sguardo laterale, con una leggerezza speciale nel passo". E proprio quella di Carvelli è stato un piccolo apripista (in Italia) di guide irregolari, laterali, trasversali, periferiche, marginali (...) Massimiliano Parente - Le guide d'autore han rotto i ciceroni - Libero 17/10/2007
Di Carvelli (del 18/10/2007 @ 15:09:52, in diario, linkato 1415 volte)
E' bella la Mala kruna (Manni) di Franca Mancinelli (sì ne ho già parlato). Una maturità di sguardo che lascia preludere cose. Una voce esatta, un puntiglio. Un dolore calmo che accompagna, che non sposta. La sua piccola corona di spine non lascia, non costringe, non uccide. Se ferisce lo fa con buona pace di tutti i sentimenti. Niente è definitivamente perduto ed è per questo che tutto continua, anche se a strattoni di ricordi non tutti addolorati. E soprattutto senza lapidi. Belle soprattutto le ultime tre sezioni "Il mare nelle tempie", "Nel treno del mio sangue" e "Un rudere la casa".
se oggi avessimo la febbre insieme staremmo come due cucchiai riposti asciutti nel cassetto, c'inventeremmo i piedi avanti e indietro come stracci per le carezze ai pavimenti, o resteremmo nudi come chiodi dimenticati in mezzo alla parete.
Di Carvelli (del 19/10/2007 @ 11:24:52, in diario, linkato 1343 volte)
Ogni tua risposta è questa "sì ma" eccetera eccetera. Ma sempre. Sempre sempre. Dico una cosa e tu "sì ma". Un rimprovero: qualsiasi cosa. Ci sarà una volta che ho ragione e basta? Una volta: mica due o tre. "Sì ma". Forse lo dici in automatico. Boh. Faccio male a domandarmi perché non dici "no"? E a domandartelo?
Di Carvelli (del 22/10/2007 @ 10:01:44, in diario, linkato 1842 volte)
Segnalo questa interessante riflessione di Christian Raimo sull'editoria. Grande editoria, mercato del libro, ipermercato della letteratura. Enfasi da capolavoro et similia.
Antrim, La vita dopo, e l’estetizzazione del dolore
di Christian Raimo
Perché un libro lacerante, divinamente scritto, narrativamente vincolante come La vita dopo di Donald Antrim (Einaudi, pag. 185, euro 17) è passato quasi del tutto inosservato in Italia, tanto che io, il 15 ottobre, in una delle librerie più grandi di Roma, ne ho comprato la seconda e ultima copia dall’inizio dell’anno, dato che delle ventuno che avevano ordinato a febbraio ne avevano già riconsegnate in resa diciannove? È un problema di iperfetazione del mercato editoriale? (Se vi capiterà mai di lavorare in una casa editrice e di leggere i dati di vendita, vedrete che in genere la curva delle vendite è – può essere – ascendente nelle prime due, tre settimane, e poi crolla miseramente) È un problema di iperconsumo del libro come prodotto da spacciare giornalisticamente? (Se mai vi capiterà di lavorare in una redazione cultura di un giornale, vedrete che di un libro dovete parlarne sempre prima che il libro arrivi in libreria, e sempre più prima degli altri giornali, e le recensioni – vedrete – si concentreranno in quel grumo di giorni che sta tra la l’annuncio promozionale dell’uscita e l’uscita vera e propria, perché dal suo arrivo in libreria il prodotto-libro in un certo senso è già scaduto, già vecchio, ingiallito; e per Antrim il caso è veramente emblematico, perché, a posteriori, a parte una breve segnalazione di Tiziano Scarpa, una citazione di Franco Cordelli, e una di Gian Paolo Serino, non c’è stata una recensione di rilievo, un’analisi del testo, un confronto appassionato con il libro) È un problema di Einaudi, di una casa editrice che non sa far valere i libri che pubblica: e dopo averne acquistato i diritti probabilmente a caro prezzo, dopo averlo fatto tradurre impeccabilmente da Matteo Colombo, lascia Antrim a naufragare in libreria da solo? (Se mai vi capiterà di lavorare come ufficio stampa per una grande casa editrice, svilupperete probabilmente una sorta di raggelamento della percezione estetica accompagnato da una specie di entropia della capacità retorica: dovendo ribadire in modo convinto tutto il giorno per tutti i giorni la centralità, la crucialità del libro appena pubblicato dalla vostra casa editrice che pubblica mettiamo trecento titoli all’anno, per cui praticamente uno al giorno, l’unico modo per far conservare un minimo di criterio di verosimiglianza alle parole che pronunciate, è non crederci, togliervi dal dilemma se quello che dite ha senso o meno) È un problema di difficoltà per il pubblico italiano di aver a che fare con questi oggetti narrativi strani che sono i memoir, che negli Stati Uniti hanno invece una loro dimensione, una loro legittimità autonoma di genere, non sono sentiti come libri ibridi? (Se mai vi capiterà di fare lo scrittore, vedrete che sarete colpiti dalla potenza, dalla radicalità della scrittura di memoir come L’opera struggente di un formidabile genio di Dave Eggers, Memorie di un artista della delusione di Jonathan Lethem, Zona disagio di Jonathan Franzen, Il velo nero di Rick Moody, per citare quelli che sono chiaramente i fratelli della Vita dopo) Oppure – e questa è l’ipotesi meno amara – La vita dopo non se l’è filato nessuno perché è un libro che fa male, è un libro sul dolore che taglia le gambe, che fa piangere, che non sa essere consolatorio, ma forse è balsamico, però soltanto alla fine della lettura, soltanto a patto di essersi lasciati ferire, per empatia, da quello che scrive l’autore sulla sua famiglia, a patto di accettare che il solo conforto che può dare la letteratura è lo stesso che ci può dare l’avvicinamento a un qualche tipo di verità.
Cito due pagine, in cui Antrim parla del rapporto con la madre e con il padre, della crescita e dei bilanci della vita. Pag. 167: “La maggior parte delle storie di mia madre – i racconti rabbiosi che mi riferiva, prima e dopo aver smesso di bere – sulla sua vita con mio padre contenevano, trovo, un’idea di miglioramento di sé attraverso la pratica di accumulare intuizioni sugli altri: se diamo un nome alle colpe di coloro che ci hanno fatto soffrire, saremo protetti dal dolore; se riusciamo a raccogliere prove sufficienti a giustificare la nostra rabbia, supereremo la vergogna: se proviamo pena per chi ci ha tradito, allora non saremo stati traditi, maltrattati, fraintesi, o abbandonati. Ma cosa succede quando il calvario dell’abbandono è – come ritengo sia stato per mia madre, e per me insieme a lei – la vita stessa?”. Pag. 161: “Perché non racconto a mio padre cosa faccio? Ma cos’è che faccio? Passo le notti sveglio nel letto, eccitato dalle anfetamine, lottando per respirare. Suono Day Tripper dei Beatles su una batteria immaginaria con il mio amico John Covington che finge di suonare la chitarra. Cerco di racimolare il coraggio per saltare dall’alto trampolino della Florida State University, e pedalo sulla mia bicicletta rossa. Faccio ginnastica artistica con i Tallahassee Tumbling Tots, anche se non riesco ad andare oltre la ruota. Mi piace una bambina bionda di nome Susan che fa la terza elementare con me, però poi si trasferisce. Per anni sognerò di ritrovarla. Solo nella mia stanza, costruisco modellini di navi e aeroplani, dipingendo impaziente gli scafi, le mitragliatrici e le fusoliere dopo aver costruito i modellini, perché non vedo l’ora che siano finiti. Vorrei che la mia sedia, la scrivania e per pareti della stanza fossero dipinte di arancione, ma non succederà mai. Nella casa accanto alla nostra vivono un pompiere, sua moglie e il figlio, e la band del figlio, The Other Side, prova nel loro garage, e io vado lì e mi siedo su un amplificatore. La stanza odora di cavi elettrici bruciati. Uno dopo l’altro, i fratelli che compongono la band scompaiono in Vietnam. Io sono nei lupetti. La nostra capobranco ha i capelli neri e ci permette di lanciare gavettoni dal tetto di casa sua sui passanti che transitano al di là di un’altra siepe. Ha un figlio che non vediamo mai, anche se lo sentiamo suonare il corno in una stanza al piano di sopra. Giù in giardino, noi giochiamo e facciano la lotta, sporcandoci le divise azzurre. Un giorno, gli alti papaveri degli scout licenziano la nostra capobranco, e di lì a poco mi ritrovo in un cortile di periferia senza alberi a imparare a fare il nodo scorsoio, oppure seduto al tavolo di una cucina a dipingere bastoncini di zucchero su una tazza destinata a mia madre. In fondo al cuore so che qualcosa non va. Vorrei che mio padre tornasse da noi per sempre, invece che una volta al mese. Sono uno dei «mostri senza collo» in una Gatta sul tetto che scotta allestita al teatro dell’università. Sulla porta di un bagno dietro le quinte c’è un cartello che proibisce di tirare lo sciacquone durante la rappresentazione, e ciononostante io riesco lo stesso a tirarlo, e il rumore riempie il teatro. L’anno dopo, quando interpreto il giovane Madcuff, sul giornale esce la mia foto, accanto a un trafiletto che parla dello spettacolo. Nella didascalia io sono «il piccolo Donnie Antrim». Il fotografo mi ha chiesto di gridare, ma io sono troppo timido per gridare davanti all’obiettivo, però provo comunque a simulare l’agonia della morte, e sul giornale sembro un bambino che ride come uno psicopatico con un pugnale piantato nella schiena […]”.
Che cos’è che si trova in questo libro che non c’è in altri? Secondo me questo. In un epoca altamente letteraria come la nostra, in un’epoca in cui ogni forma di emozione, di esperienza viene altamente estetizzata, persino pre-estetizzata (ossia: l’estetizzazione viene prima dell’esperienza, l’esperienza è possibile solo se è stata precedentemente estetizzata), il luogo in cui uno scrittore si mette dev’essere proprio un altro. Non quello dunque dell’estetizzazione dell’emozione o del dolore o della verità, ma quello del resoconto di queste due contemporanee, simbotiche, fragilità: la fragilità dell’esperienza e quella della memoria. Ribadire queste fragilità (senza farne per l’eccesso opposto una forma di auto-vittimizzazione) vuol dire praticare un tipo di scrittura il cui stesso tessuto semantico non è certo, non è fondato. Vuol dire esporsi. Ed esporsi per uno scrittore non significa parlare di sé, uscire dal proprio lavoro rilasciando interviste, con la personalizzazione del suo ruolo di scrittore, con la via corta della polemica, o dell’opinionismo. Ma significa: esporre il proprio testo a un continuo, immanente senso di fallimento, di non adesione, di non cogenza con quello che viene raccontato. Dove vuole andare a parare Antrim? Cosa cerca? Come riesce – per dire – a usare uno dei “generi” più in voga della nostra iper-narrazione del dolore, la tumorologia, senza cadere nel ricatto del contenuto, senza attendere alla serialità delle aspettative di quel movimento di “c’era una vita tranquilla / accade un trauma / si ricerca il senso della vita”? Così: smettendo i panni che si tentano ogni giorno di addossare a uno scrittore: quelli del gestore del senso. O qualcuno di voi pensa che uno scrittore dovrebbe avere più profondità, più capacità di qualsiasi altra persona nel dare ordine alle cose?
da http://www.nazioneindiana.com/2007/10/21/antrim-la-vita-dopo/
Di Carvelli (del 29/10/2007 @ 10:37:01, in diario, linkato 1476 volte)
Un sito molto vitale di e su Genova www.mentelocale.it fa conoscere a Maurizio Maggiani il mio disappunto per la somiglianza nei titoli (nei titoli) tra il mio libro uscito nel 2004 e il suo (in uscita) per Feltrinelli. Pubblico il link alla lettera di Maggiani, che in un primo tempo era stata titolata TUTTI GLI SCRITTORI RUBANO e la mia,di risposta, qui di seguito.
Gentile Maurizio Maggiani
alle elementari, ebbi una maestra che abiurò all’improvviso la matematica e si convertì all’insiemistica. Non so cosa le fosse successo e comunque durò solo per un anno ma forse per questo rimasi involontariamente affascinato da quel metodo fatto di cerchi e cerchietti e, pur avendolo successivamente dimenticato, mi sono trovato spesso a farne tesoro. Abbiamo scritto, io e lei, Maggiani, due guide letterarie (INSIEME: GUIDE LETTERARIE) e di un sottoinsieme particolare, un cerchietto nel cerchietto (SOTTOINSIEME: GUIDE LETTERARIE DI CITTA’ ITALIANE SCRITTE DA SCRITTORI ITALIANI), in questi anni particolarmente in voga. Fino a qui, io mi sento ben contento di trovarmi in questi due cerchi al fianco del suo nome più noto e blasonato. Quello che mi infastidisce è trovarmi al suo fianco, in quel sottoinsieme con un nome in codice molto simile. Anzi, per rimanere alle elementari, diciamo a una coniugazione del verbo: PERDERSI (A)/MI SONO PERSO (A) a cui segue solo il nome di una città diversa. Il tutto a una distanza breve di anni dalla pubblicazione del mio libro. Provo a rimettere vicine le parole non senza un brivido: Perdersi a Roma. Guida insolita e sentimentale e Mi sono perso a Genova. Una guida (originariamente, come risulta da tutti i siti dell’acquisto on line di libri, doveva chiamarsi Guida sognante per perdersi a Genova).
Non mi fa lo stesso effetto della parola “strada” nei romanzi arcinoti che cita, talmente noti da far evaporare qualsiasi accusa di somiglianza proprio perché il confronto è sotto gli occhi di tutti. D’altronde “strada” è parola talmente generica, credo, che un uomo della sua profonda cultura non faticherebbe a riscontrare esempi di titoli di romanzi nella sua e in altre lingue della letteratura.
Lei, Maggiani, gigioneggia e ridimensiona riflettendo genericamente su difetti di retina, donne e laghi in cui faremmo pesca comune o sull’utilizzo dello stesso dizionario quando sarebbe bastato evocare lo spettro della “contemporaneità”, quello stesso che, però, fa stridere i due titoli. Poi conclude con un tono muscolare in cui mette avanti il suo editore per titolo e IV di copertina. Già, ha ragione lei: sono cazzatine (uso il suo dizionario) dal punto da cui lei guarda e lo saranno ancor più quando i muscoli del suo grande editore – che ci tengo ribadirlo ha tutta la mia stima – e relativa grande rete distributiva avrà la forza di cancellare un ricordo più piccolo. Dal mio punto di vista non lo sono, cazzatine. Se fossimo nel mondo della pubblicità – e forse ahimè in parte ci siamo – l’eventuale creativo, una volta smascherato, avrebbe fatto la figura che merita. Lei si immagina una marca di pasta con un messaggio di vendita troppo simile ad un altro? “Muitoni: e c’è casa”?
Non sono così naïf da pensare di mettere il copyright ad un verbo (perdersi) ma vedere pubblicare una guida letteraria (una guida letteraria, non un romanzo) con l’espresso invito nel titolo a perdersi in una città come modo conoscitivo, pur dopo eccelsi secoli di flanerie di cui tutti abbiamo fatto e faremo tesoro, non mi aspettavo che accadesse a pochi anni, ad un Premio Strega e ad un grande editore. Scrivo così ma in cuore ho un’altra sgradevole sensazione che mi sforzo di scacciare nonostante molti, del nostro stesso ambiente, Maggiani, mi ricordino in questi giorni quello che lei tra le righe sembra voler dire ovvero che è così...che si sa, che tutti gli scrittori rubano, che i grandi rubano o s’ispirano ai piccoli mentre poi sono molto orgogliosi di non somigliare ai pari loro e compagnia cantando.
Quello che avrei voluto io, invece, in questi giorni, Maggiani, è che si alzasse una riflessione diversa – che non mi aspettavo potesse venire da lei o dal suo editore – sulle sproporzioni tra la piccola editoria e la grande (e non con il solo gusto del “piccolo è bello” che spesso è oleografia che nasconde problematiche serie come mancati pagamenti, scarsa trasparenza nelle rendicontazioni o strozzatura dei distributori, scarsa visibilità commerciale e mediatica ecc.), la mancanza di un codice di comportamento, il ricorso al marketing letterario, gli autori non sostenuti con forza dalla critica e quelli vivamente caldeggiati, il tema sempre vivo delle scuderie et similia, la mancata capacità di dragaggio e di arbitrato della comunicazione letteraria (fu critica letteraria) quella comunicazione letteraria purtroppo spesso presa in “polemiche di successo” e in quel sano e taciturno saper vivere.
Con cordialità per lei e quelli di mentelocale.it che hanno ospitato questo scambio
Roberto Carvelli
Di Carvelli (del 30/10/2007 @ 09:02:04, in diario, linkato 1431 volte)
Fanno che non devono andare a lavoro: le mani indugiano sulle pagine del giornale, il dito suona il bordo della tazza dove fuma il the. Spezzano lentamente un biscotto, lo posano sul piattino, lo rotenano nella bevanda calda e poi fumano e si alzano e si risiedono. Fra venti minuti li prende una scossa da capo a piedi e si vestono. Fuori pestano il marciapiede come un fronte da conquistare e poi con le loro auto aggrediscono tutti i motorini e le altre macchine che incrociano. E' la loro guerra. Se la vincono, dopo, in ufficio, ritorneranno a parlare quieti di licenziamenti e promozioni, di pratiche da sbrigare. Come tutti i giorni.
Di Carvelli (del 30/10/2007 @ 16:29:24, in diario, linkato 1491 volte)
Segnalo l'interessante intervista di Giovanna Zucconi a Silvia Ballestra, uscita su Tuttolibri di sabato scorso. L'inizio. Il resto qui.
Succede tutto prima dei vent'anni, diceva Flannery O'Connor e dice Silvia Ballestra. Sarà forse perché di anni ne ha trentotto che Silvia è così tosta e così d'altri tempi, o anzi una tosta d'antan (visti questi, di tempi, è un complimento massimo). Nelle piccole cose e nelle grandi, quando parla della sua formazione underground, di femminismo, o quando dice che ogni volta che esce per comprarsi un golf, perché li ha tutti a pezzi, torna a casa senza maglioni ma invece carica di saggi e romanzi. «Finisco sempre in libreria, come i cavalli che tornano alla stalla». Quale libreria? «In una Feltrinelli, anche se mi secca dirlo perché non mi piacciono più. Negli anni in cui abitavo a Bologna andavo in quella di piazza Ravegnana, dove Romano Montroni e gli altri erano bravi librai. Non è più così. Una volta le vetrine erano piene di piccoli editori, adesso sono vendute alla monomarca. È un grande dolore». Silvia Ballestra non ama il mainstream. Mai, in nulla. Forse perché prima dei vent'anni, quando tutto è successo, si è formata nella ricerca, nell'underground. «È il mio peccato originale, forse il mio difetto. Nella musica, sono più affezionata agli esordienti che ai grandi cantanti. Nel cinema e nelle letture, idem. Non leggo premi Nobel, sarei più per i piccoli, per la nicchia. Per me conta come arrivi alle cose, quanta fatica fai per scoprirle, è un percorso anche emotivo. Da ragazza ho letto tantissimo, essendo cresciuta in un posto desolato dove c'erano soltanto due librerie... ». San Benedetto del Tronto, nelle Marche. «...i libri andavano cercati, scoperti. Era un piacere in più, come pure parlarne con l'unico amico che leggeva, e che poi è finito anche lui a scrivere, Emidio Clementi. Erano anni di scoperte, in letteratura, nel cinema, nella musica. Adesso tutto è a portata, allora Paris, Texas di Wim Wenders in un cineforum era un'emozione. La difficoltà valorizzava ». Non c'è niente di nostalgico né dimoralistico, nel rilevare la distanza fra allora e oggi. Semmai una sana incazzatura politica. «La televisione ha vinto, Moccia è il Grande Fratello. Nelle case editrici non c'è più progetto, ricerca, catalogo: si spera soltanto nel prossimo bestseller». Qualcuno vince alla lotteria, però. Tamaro, Mazzantini, Moccia... «Le grande aziende funzionano così, e sono loro che contano. La tragedia di questi anni è questa, si restringono gli spazi di libertà e democrazia. Agli inizi degli Anni Novanta io ho fatto in tempo a passare; è passato Tondelli, uno di provincia, non figlio di notabili. Oggi l'editoria è cambiata, governa il marketing, il criterio è l'utile. Ma i libri non sono mocassini o scaldabagni. E in chi legge, e in chi scrive, sarebbe auspicabile una conoscenza della letteratura, non dei prodotti editoriali di mercato».
L'intervista completa.
Di Carvelli (del 31/10/2007 @ 17:10:19, in diario, linkato 1645 volte)
Approfitto di questa bella poesia di una poetessa (di lingua) slovena Vanja Strle per segnalarvi la bella rivista-sito di Alessio Brandolini Fili d'Aquilone (www.filidaquilone.it).
ZAKAJ JAZ BIVAM Veš, jaz bivam zaradi ljubezni. Ta ljubezen, zaradi katere jaz sem, je kot piramida grajena. Njena ploskev je široka kot prostor med svetovi in njen vrh nima konca.
Delam in zidam to ljubezen, ki je moje edino delo. Delam in zidam in bivam - zaradi ljubezni.
PERCHÉ ESISTO
Sai, io esisto per merito dell'amore. Questo amore a cui debbo l'esistenza è costruito come una piramide. La sua base è larga come lo spazio tra i mondi e il suo vertice non ha fine.
Mi applico e costruisco questo amore che è la mia unica opera. Mi applico e costruisco ed esisto - per merito dell'amore.
Di Carvelli (del 31/10/2007 @ 17:16:31, in diario, linkato 1871 volte)
Anche magari per ricordare Genova in un modo migliore e anche perché ho finito una quasidefinitiva stesura di una cosa nuova che nasce da un impulso suo che voglio ricordare una persona a me cara. Fulvia Bardelli. Il nucleo centrale di quello che oggi ho finito di lavorare è una cosa che lei lesse (e che poi uscì in rivista) ben dieci, quindici? anni or sono. Da allora ho continuato a mettere mani a quel corpus di cose famigliari che oggi è più gonfio e tumefatto, più vissuto e sofferto. Fulvia fu una delle persone che mi incoraggio di più alla scrittura. Lesse quel racconto (ma per me era già - nelle intenzioni - il capitolo di qualcosa di più ampio) e mi chiese di leggere altro. Poi ci conoscemmo e più di qualche volta ci siamo visti. Alla fine - non mancavo mai passando per Genova per varie situazioni di cercarla - ci saremmo incontrati quasi cinque volte. Una volta anche a Roma quando lavorava per il Teatro Modena ed era in trasferta. Due cose non voglio dimenticare - la seconda è l'incoraggiamento che ho detto - la prima è il pranzo in un baretto di Sampierdarena. Forse quaranta minuti forse meno. Lì, per l'ultima volta, per la prima volta, conoscevo tutta la sua vita come se fosse un testamento, il rantolo di una disperazione che dovevo mandare a memoria come fossi una spia che dopo deve distruggere le prove e conservare a mente una lezione che forse gli salverà la vita al momento opportuno. Forse non è ancora oggi - oggi che ho finito di scrivere da quel racconto un romanzo breve - ma sentivo di ricordarla così. Oggi. Fulvia Bardelli.
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