Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Vuoi un titolo al quadro o alla sua imitazione...? Un consiglio lo accetti...? E' da grande illusione.... "The dragon"..."the dragon"... That's the dragon...
Mi specchio in qualcosa che mai sarei stato, che mai farei. Mi confronto con i gusti degli altri. Senza intermediazioni sono a specchio con un'estetica che discuto, rifiuto. Eppure, per il principio dello specchio sarà la mia. Forse potremmo abitare altrove o forse dovremmo cambiare il colore di questo abitare qui. Piove a dirotto. Un giorno c'è stata carne alla brace. Un altro uno stendino che guardava, coperto, la pioggia. Dice "come una molletta al filo". Finiamo sempre così. Piove. Ancora. Vorrei non avere orecchie (solo certe volte) solo occhi (solo certe volte). Ma non si può sempre scollegare tutto. Scrivo senza un nesso. Cose che aspettano una forma. Un titolo.
Di Carvelli (del 03/06/2008 @ 14:59:38, in diario, linkato 1143 volte)
Questo racconto l'ho scritto un po' di tempo fa per l'Unità-Roma.
Pantoni, Pantani e prosciutti
di Roberto Carvelli
Gli sto dietro da un po’. Più che incuriosito, affascinato: dalle loro mute aderenti e ipercolorate con sigle strane, pubblicità attaccate ai loro dorsali, spot sui glutei o sui flessori. E’ un gruppo di cicloamatori che si dà raccolta a Subaugusta o in cima a via di Capannelle, incrocio con via Tuscolana. Gli ho fatto le poste per giorni. Un po’ saranno state le piogge ma non certo il freddo perché oggi farà qualche linea sullo zero e arrivano alla spicciolata con il loro pantone di tessuti fosforescenti. “Piacere, Fabio” e iniziamo a parlare. Partiamo da questa gloriosa passione: le due ruote. “Io” mi racconta Fabio “per allenarmi prendo ferie e permessi dal lavoro”. Il suo piccolo sacrificio è pedalare: non solo fatica ma pure organizzazione del tempo – quello libero, per capirci. Gli vedo la fede alla mano e mi ricordo di un’amica che mi raccontava la passione maldigerita del marito per le due ruote ma lui andava solo. Qui di sabato o domenica dice Fabio “puoi arrivare a vedere anche duecento di noi”. E,, anche oggi che è un venerdì conto un’ottantina di casacche variopinte. A un certo punto persino un furgone che segue un gruppetto monocolore. “Tra di noi” dice Antonio, qualche anno più dell’amico “c’è chi ha passato i sessanta e qualcuno anche i settanta”. Ma a dispetto di quello che posso pensare mi dice che è gente che come loro “si macina i centoventi chilometri”. Dubitavo e, infatti, tiro le conclusioni errate: “dunque rientrate la sera?” Fabio: “Ma che, per pranzo siamo a casa”. Mi sorprende il senso di inferiorità. Cicloamatori. Che strana festa agonistica. Un andare negli anni e degli anni senza cedimenti fisici. Eppure Antonio mi intima “Scrivilo che razza di strade percorriamo, scrivilo che rischiamo la vita sempre. Tra di noi c’è gente che si è fatta il suo bel coma. Gente tutta rotta. Gente che ha lottato per ritornare in vita e poi sui pedali”. L’ho promesso e l’ho scritto. Ecco fatto: ma non è questione di correttezza è che sono giorni in cui non si può e non si deve non pensare a quanto le macchine – e macchine sempre più grandi, alte e corazzate, macchine spesso clonate sulla misura delle guerre e degli eserciti che le combattono – abbiano reso le nostre strade (non solo extraurbane) un campo di battaglia con caduti e gente che li piange, fiori e lapidi ai bordi delle strade. Mi indicano un signore che, certo, deve suonare sotto i metal detector tutto pieno di ferro e viti. Sono tempi duri per il ciclismo. “Non si sa perché” mi dice Fabio “uno sport così illustre sia finito per essere demonizzato”. Come ovvio finiamo per parlare di doping e “intanto” mi dice Antonio “perché non è successo altrettanto con l’atletica leggera? Anche lì sono scoppiati casi imbarazzanti eppure non c’è stato un attacco così sistematico e radicale”. Su Pantani, ad esempio, la versione è comune: “Mettiamo pure che ci fosse davvero un problema di sostanze perché proprio lui e lui in quel momento. E poi, doping o meno, se lo faceva lui lo facevano anche altri come poi si è visto. Il fatto che vincesse tanto e in quel modo non sta a dire che si dopasse più di altri, era solo che era molto più forte degli altri. Il doping aiuta ma non ti fa diventare un campione”. Affondo: “E tra voi? C’è gente che si dopa (qualcuno mi ha detto che il doping è diffuso anche tra gli amatori)?”. Il silenzio è generale. Poi Fabio rompe l’imbarazzo: “Personalmente io uso solo bistecche” e anche Antonio conferma per sé. Ma nessuno sembra voler mettere la bistecca sul fuoco per tutti gli altri. Passa un gruppetto e ci si saluta. “Questi” dice Fabio “sono veramente forti”. Parliamo delle gare, dei prosciutti e delle coppe (queste ultime non di suino) che si vincono. Magra consolazione? Mica tanto: la vittoria li lusinga nel gesto sportivo, non nel premio. Mi spiegano che esiste un percorso invernale (quello di oggi, ad esempio) verso il mare: Capannelle, Cristoforo Colombo, Ostia e ritorno. E uno estivo: “Con molta più scelta” rimarca Massimo, uno che i sessanta li ha passati (“sessantuno” mi ha detto fiero). “D’estate saliamo di più. Hai presente Tivoli? Più su…San Polo dei Cavalieri e ancora oltre”. Parliamo di attrezzature: bici da 3.500-5 mila euro. “Ma con 1.500” dice Massimo “una bella bici la prendi”. Ripartono. Ancora una volta – stavolta letteralmente – gli sto dietro. Loro tutti compenetrati in una pedalata regolare e imperiosa (“sul lungomare – mi aveva detto Antonio – “si arriva a 45 km/h”) in bici, le mani sulla barra orizzontale del manubrio, e io dietro, in vespa. Ognuno con i suoi problemi: soprattutto quello di rimanere in sella, in questo urban rodeo che è andare per città in bilico su due ruote mentre tutt’intorno piovono bombe e SUV.
In continuazione inseguo le cose. Una sempre davanti e io sempre dietro. Il fastidioso è che cammino discosto. Come se non me ne fregasse nulla poi, all'improvviso, alla prima svolta, al curvare della strada (quando la cosa scompare all'orizzonte) incomincio a correre come un forsennato. Dunque: inseguo le cose. Il punto non è mostrare di non farlo ma stare al passo. La sostanza dell'inseguimento non cambia. E non serve la mia demistificazione, il mio fare il verso del disinteresse. Le cose vanno e io dietro. Perché non vado alla velocità delle cose?
Di Carvelli (del 04/06/2008 @ 14:25:56, in diario, linkato 1230 volte)
Segnalo questo saggio di Giorgio Fontana su Palahniuk. Viene da Primo Amore e precisamente da qui www.ilprimoamore.com/testo_554.html
Palacult
Giorgio Fontana
1. The Cult Cominciamo da un'operazione di mercato: la copertina. Sulla copertina di Soffocare, in alto a destra, è riportato uno strillo di Bret Easton Ellis: «Forse la nostra generazione ha trovato il suo DeLillo.» Questa può anche essere una frase di circostanza. In tempi di recensioni esagerate, non ci si stupisce più di niente. Ma prendiamo per buona l'onestà intellettuale di Ellis. Allora la frase di circostanza si trasforma in un complimento enorme e impegnativo. Se DeLillo è il maestro della narrativa postmoderna americana, allora l'equazione è presto fatta. Palahniuk è il nuovo capo. Il prossimo a doversi prendere la responsabilità di genio, o Sommo Cantore Critico della Civiltà Statunitense, o tutto ciò che volete. Ora: che piaccia o meno, Chuck Palahniuk è davvero uno degli autori di culto degli ultimi quindici anni. Ho usato l'aggettivo credo più esatto, dato che il suo sito internet ha come sottotitolo The Cult. Palahniuk non si ama: lo si venera. La sua aura è paragonabile a quella di una rockstar. Era da tempo che non si assisteva a un fenomeno del genere, per un autore non immediatamente classificabile come thrillerista o «di massa». Per quanto mi concerne, è uno scrittore che ho adorato e continuo ad adorare, ma di recente ho perso un po' d'entusiasmo nei suoi confronti. In genere questo è un segnale: è il momento giusto per parlarne. Inoltre, fra poco uscirà il suo nuovo romanzo, Rabbia. Pare che non sia granché. Pare che sia il terzo flop consecutivo. Questo mi addolererebbe oltre ogni dire. In ogni modo, lo troverete in tutte le librerie e in cima alla pila di libri del mio comodino. Nel frattempo, mi limiterò a parlare del "vecchio" Palahniuk — diciamo quello fino a Diary. In particolare, sosterrò due tesi distinte ma in una certa misura interconnesse: (1) Il nucleo dello stile di Palahniuk sta nell'utilizzo di alcuni ritornelli stilistici, innestati come perni in una forma incisiva e martellante. (2) Le trame di Palahniuk sono essenzialmente cinematografiche, e seguono un pattern ben preciso e identificabile. Ma a differenza di Hollywood, il loro leitmotiv è «l'opposto del Sogno Americano» (C. Palahniuk, La scimmia pensa, la scimmia fa, Mondadori, Milano 2006, p. 9). Forma e contenuto, niente di nuovo. Si parte. 2. Ritornelli stilistici Che cos'è un ritornello stilistico? L'espressione è un po' stramba, ma non mi è venuto in mente nient'altro. Con essa intendo un elemento di uno scritto che ritorna a intervalli più o meno definiti e scandisce il suo tempo narrativo. Può essere una frase singola, uno stilema, una locuzione, un modo di presentare i dialoghi, una preghiera, un'invocazione, e così via. Nella Postfazione a Fight Club, Fernanda Pivano parla di «accettare dunque le ripetizioni che martellano come ritornelli le varie scene [...]; forse il linguaggio del futuro sarà questo revival di ripetizioni nel tentativo di raggiungere una tensione che va al di là perfino del'anarchia fondamentale dell'autore.» (C. Palahniuk, Fight Club, Mondadori, Milano 2000, p. 224). Giuro che l'idea del ritornello mi è venuta prima di leggere questo pezzo. Giuro. In ogni caso, siccome nella critica la medaglia d'argento non esiste, ammetto che la Pivano è stata più brava di me. (Come se ci fossero dubbi al riguardo). Vediamo ora di cosa si tratta. Un ottimo esempio di ritornello stilistico è il «Così va la vita» di Kurt Vonnegut, in Mattatoio n. 5: E così fu trasformata in un pilastro di sale. Così va la vita. (K. Vonnegut, Mattatoio n. 5 o la crociata dei bambini, Mondadori, Milano 1970, p. 26) Morirono tutti tranne Billy. Così va la vita. Mentre Billy stava guarendo in un ospedale del Vermont, sua moglie morì accidentalmente di monossido di carbonio. Così va la vita. (ivi, p. 30) Eccetera. Got the rhythm? Vonnegut riprende costantemente questo mantra, dall'inizio alla fine. Il suo caso è ancora più interessante, perché il contenuto stesso del ritornello porta alla sua vanificazione — lo trasforma in mero sistema formale. (Cosa c'è di più idiota che continuare a ripetere «Così va la vita»? E tale privazione di senso è proprio il senso della frase, se non del romanzo). Nei suoi lavori, almeno fino a Diary, Palahniuk usa ritornelli stilistici in tutto e per tutto simili, anche se più vari. Per un buon terzo di Fight Club è il caso di «Ti svegli a...», oppure «Io sono...»: Ti svegli all'O'Hare. Ti svegli al LaGuardia. Ti svegli al Logan. [...] Ti svegli al Dulles. (C. Palahniuk, Fight Club, op. cit., p. 22) Io sono i denti digrignanti di Tizio. Io sono le narici infocate di Tizio. (ivi, p. 60) In Soffocare, è un registro medico che appare qui e là come una costante, e viene reso ritornello in un'espressione da paper scientifico: «Vedi anche...»: Vedi anche: Ipotermia. Vedi anche: Tifo. (C. Palahniuk, Soffocare, Mondadori, Milano 2002, p. 14) Vedi anche: stecche da biliardo. Vedi anche: topolini di peluche. (ivi, p. 18) In Invisible Monsters è il grido-richiesta del fotografo e il susseguente flash dell'apparecchio: Dammi compassione. Flash. Dammi onestà brutale. Flash. (C. Palahniuk, Invisible Monsters, Mondadori, Milano 2000, p. 11) E così via. Naturalmente questa non è una lista esaustiva, e nei romanzi citati sono presenti anche altri tipi di ritornelli. Ora: a cosa serve tutto questo? Io credo semplicemente a darci un senso di continuità e sicurezza: una sorta di chiodo piantato più o meno sempre nello stesso punto, e che determina il fluire delle pagine. In un certo senso, un ritornello stilistico funziona come il basso continuo nella musica barocca. Le sue caratteristiche principali sembrano essere la brevità (è impensabile un ritornello più lungo di cinque o sei parole), la costanza (ci possono essere variazioni di contenuto, ma la forma del ritornello è sempre la stessa), e l'isolamento grafico (un ritornello in genere è una frase ficcata lì, da sola, con un a capo immediato: così. E così. E così.) Da un punto di vista formale, il capolavoro di Palahniuk è probabilmente Invisible Monsters. Qui assistiamo a una doppia rivoluzione stilistica. In primo luogo, Palahniuk introduce la tecnica del ritornello, facendone un vero e proprio perno del suo sistema formale. (E ne mette in scena il più riuscito, il Flash di cui sopra, che aggiunge al martello stilistico una visività straordinaria — l'idea stessa fatta carne). In secondo luogo, e seguendo lo stesso principio, Palahniuk smonta in modo geniale la continuità della trama, applicando la metafora che egli stesso suggerisce — quella di una rivista di moda: Non vi aspettate che questa sia una di quelle storie che fanno: e poi, e poi, e poi. Quello che succede qui avrà più un sapore da fashion magazine, un caos stile «Vogue» o «Glamour», con una pagina numerata ogni due o cinque o tre. Pagine con cartoncini profumati, e donne nude che spuntano chissà da dove per vendervi cosmetici. Non cercate un indice, seppellito, come nelle riviste, venti pagine dopo la copertina. Non vi aspettate di trovare subito qualcosa. Non c'è nemmeno una struttura organizzata. Cominceranno delle storie, e poi, dopo tre paragrafi Vai a pagina tale. Poi, torna indietro. (C. Palahniuk, Invisible Monsters, cit., p. 14) Questo è un paragrafo programmatico. Una di quelle cose che non andrebbero dimenticate. Trasmette narrativamente e meta-narrativamente una missione: un'idea forse non nuova, ma che lascia a bocca aperta per come è messa in campo. 3. Hollywood, but not for dummies Banalità: leggendo i romanzi di Palahniuk, si ha l'impressione di assistere alla proiezione di un film grottesco. Anche i colpi di scena hanno qualcosa di trito, di volutamente esagerato e kitsch: penso soltanto alle rivelazioni di Invisible Monsters: Brandy Alexander è in realtà il fratello di Shannon, e Shannon non ha avuto un incidente ma si è sparata da sola in auto... Bla bla. O anche il momento clou di Soffocare, quando la dottoressa Paige Marshall si rivela invece una malata di mente nel modo più improbabile — il braccialetto che la identifica le scivola giù da una manica mentre cerca di rianimare la madre del protagonista. Bla bla bla. C'è qualcosa di molto hollywoodiano in tutto questo: ed è forse uno dei più grandi meriti di Palahniuk l'essere riuscito a trasporre, in via sarcastica e totalmente rovesciata, la cheap magic dei film americani. Ora, io di cinema non so nulla. Sono davvero ignorante al riguardo. Mi limito ad evocare dei cliché: il buono, il cattivo, l'avventura, il pathos del momento, il picco del colpo di scena — sempre prevedibile e sempre voluto, ansiosamente, come una necessità. In Palahniuk tutto questo ritorna come un'onda di rifiuti compressi e meravigliosamente riciclati. Pensate solo agli effetti che vi fa. Stringere i pugni. Aprire la bocca. Sentire le labbra che si tirano in un sorriso. Ecco: bentornati a Hollywood. Praticamente in ogni romanzo di Palahniuk c'è una coppia. In ogni romanzo si Palahniuk c'è un viaggio o un'avventura. Non esistono momenti di stasi, così come in un film sono impensabili delle grandi descrizioni, o degli slanci lirici di particolare durata. Tutto procede secondo una legge ineluttabile — quella della trama. (E lo ammette lui stesso: «"My novels are all romantic comedies," said Palahniuk (pronounced Paul-a-nick), attempting further explanation. "But they're just romantic comedies that are done with very dysfunctional, dark characters." – "Actually" added Palahniuk, "my characters are still playing in a very classic sort of boy-gets-girl scenario, or girl-gets-boy scenario."» L'intervista completa la trovate qui). Persino i suoi personaggi hanno una certa bidimensionalità. Sono talmente grotteschi da risultare stereotipati: svaniscono dietro le loro caratteristiche principali — la top model sfigurata e folle, l'assicuratore schizofrenico etc. Un grado di sviluppo del personaggio simile a quello, per esempio, di Franzen o Sharpe, è del tutto impensabile in Palahniuk. L'energia dei suoi lavori giace altrove. Egli sfrutta questo difetto rendendolo, cinematograficamente, un pregio. Una buona dimostrazione di tutto questo si trova appunto nel film di Fight Club. A differenza di molti altri casi, qui il prodotto visivo è alla stessa altezza di quello narrativo. A parte la bravura degli attori e del regista, è facile notare come la trama del romanzo si adatti meravigliosamente alla riproduzione scenica. Questo potrebbe valere allo stesso modo per gli altri romanzi del nostro, credo. Quantomeno, non si fa fatica a immaginarseli così. I dialoghi sono già fatti. Non necessitano di grandi ritocchi. Le descrizioni sono minimali e brucianti, con delle immagini secche e molto belle. Ci vuole poco a renderle su pellicola. Dei profumi si può fare a meno, basta evocarli. Colori sgargianti e netti. Certi spaccati notturni, ma senza nessuna malinconia, senza alcun gioco di chiaroscuro visibile. Bang, bang — e il gioco è fatto. Ma come accennavo, il punto chiave è che Palahniuk rovescia completamente il tipico scenario hollywoodiano. Il suo tema principe resta uno scontro violento, irriducibile e fortemente polarizzato, fra isolamento e società: Casomai non ve ne foste accorti, tutti i miei libri parlano di una persona che cerca un modo per entrare in contatto con gli altri. È un po' l'opposto del Sogno Americano: diventare tanto ricco da poterti tirar fuori dalla marmaglia, da tutta quella gente in autostrada, o, peggio, sull'autobus. [...] Che sia un ranch nel Montana o un appartamento in un seminterrato, con diecimila dvd e accesso a Internet a banda larga, non c'è eccezione: arriviamo lì, e ci ritroviamo soli. Isolati. E, arrivati a un certo grado di alienazione — come il narratore di Fight Club nel suo condominio, o la narratrice di Invisible Monsters, isolata dal suo splendido viso — distruggiamo il nostro delizioso nido e ci autocostringiamo a far ritorno al mondo esterno. (C. Palahniuk, La scimmia pensa, la scimmia fa, op. cit., p. 9) Si poteva essere più chiari? Tutta la meccanica dei suoi romanzi è racchiusa in questa dialettica: da soli — insieme — da soli — insieme e così via. Nello stesso saggio, Palahniuk paragona questo movimento alla scrittura, e non ha torto. Fuori e dentro dalla stanza. Alla ricerca sul campo e poi al microscopio, con una tazza di caffè di fianco e la porta chiusa a chiave. E questo ci porta diritti alla conclusione. 4. Un bombarolo «Forse la nostra generazione ha trovato il suo DeLillo.» Easton Ellis, secondo me, si sbaglia del tutto. Palahniuk ha un talento pazzesco ed è uno scrittore straordinario, ma non è DeLillo né un suo equivalente. DeLillo è un genio a tutto tondo. Ha l'equilibrio di un classico, un modo tutto suo di tenersi pulito e sopra le righe anche quando fa saltare in aria — come in Underworld — cinquant'anni di storia americana. Palahniuk no. Palahniuk è un bombarolo che non conosce mezze misure. In questo, è un prodotto assolutamente coerente con il sistema che sembra attaccare. Il sistema, verrebbe da dire dopo aver letto i suoi romanzi, è sempre più intelligente del singolo — prima o poi lo ricomprende, lo riassorbe, finché qualche altro folle non salta fuori. Perché? Perché questo è lo spirito di ogni corpo, compreso il corpo sociale: assorbire gli urti. Perché in un certo senso è di Palahniuk che si ha bisogno adesso. Comprati la sua maglietta (io ce l'ho). Guardati il film. Cerca i Fight Club nella tua zona. Sostituisci i fotogrammi di un film con immagini pornografiche... La rivoluzione che diventa sistema e poi di nuovo rivoluzione — in un circolo dialettico che non si spezza mai: proprio come nella scrittura, proprio come nelle sue trame. Da soli, e insieme, e poi di nuovo soli, e via così. Cosa di cui Palahniuk è perfettamente cosciente, come abbiamo visto. E della quale ride sotto i baffi, ne sono certo. Per questo lui è un cult: per questo lo si ama o lo si odia: e sempre per questo a volte, dopo aver richiuso un suo libro, ci si può ritrovare con una domanda appesa fra le labbra. Ma è un genio, o mi ha soltanto preso per il culo?
Mentre leggevo così riassumevo agli amici: "e poi lo sai che lei era incinta?" o "allora lui le ha detto che...". Raccontavo questo libro come una soap. Vergogna? Già, Vergogna. Ed era strano ridurre un Nobel all'estensione partecipata delle sue narrazioni. Una pioggia di eventi in cui identificarsi come in una fiction. Non era bello, quantomeno. Però è stato così. Così mi ricorderò di questo libro: la cronaca minuziosa di eventi a cui da una finestra ho preso parte. Una visione partecipata.
Ciao ciao. Ti ricordi? Chi era il più bravo? Boh. Chi si ricorda più. Com'era che giocavamo? A turni? Quel colpo forte sul missiletto. Magari se ci ripensiamo ci vien pure in mente il suono. Quello, per esempio, di quando passava l'astronave... Tutto questo dice la nostra età. Tutto questo e questo.
Te lo ricordi questo? Sono cambiate le cose che ci diciamo attorno a questo rito del turno ai bottoncini ma forse il tono è sempre quello. Quella totale e inspiegabile fiducia che hai avuto e sempre avrai. Io per te e tu per me. Una cosa che non contempla parole come "differenza" a meno che serva a conoscersi meglio ma nient'altro. Solo un moto della conoscenza superiore. Per il resto, confondiamoci pure.
Come viene la poesia
Viene barcollando a Notte fatta sopra i massi stando Spaventata fuori al Lume dove il mio fuoco brucia Vado ad incontrarla al Bordo della luce
Ieri sono passato sotto casa tua e ho provato a contare due piani, una finestra mi sembrava aperta, forse eri a casa? Stavo andando a vedere un film di cui mi avevano parlato – sfiorarsi – bello non bello non conta. Parlava di cose che mi interessavano, di cose che ci sono e che non si vedono, parlava di cose comuni e che mettono in comune (ho deciso di non scrivere una recensione ma una condivisione). Spesso coi libri e coi film si deve fare così, vedere e leggere quello che ci interessa, quello che ci aiuta a. Che ci sollecita. Scrivi “fare lo sborone” ma non lo faccio e non è il clima che mi appartiene...Ci penso un po’ su: in fondo poi incontro, divento amico, di persone davvero belle anche se credo di non fare abbastanza per meritarlo, è tutto inspiegabile, una specie di equivoco. Io che non merito, io che ho, io che non ritorno quello che fortunosamente ottengo. Io che non riottengo, dovrebbe essere il passaggio che segue. Il ciclo dovrebbe essere questo. E invece miracolosamente non va così. Da dove mi arriva questa speciale fortuna? Nessuna caratteristica in me così saliente da... Non parlo per compiacermi. E’ così. La mia autostima non è così disastrosa. C’è una oggettività in quello che dico, un teorema che è questo. Ma io cosa so di teoremi?
Di Carvelli (del 09/06/2008 @ 11:53:03, in diario, linkato 1331 volte)
"A piedi nudi E con cuore leggero Mi avvio Per libera strada. Da oggi non chiedo più buona fortuna da oggi sono io la buona fortuna"
Walt Whitman
«Quando il corpo non è più desiderato, quando la bellezza è ormai svanita, quando il il desiderio di possesso è stato abbandonato, il vero amore mostra il suo volto. Il più delle volte accade in età avanzata, o come conseguenza di un ego assennato. Nasciamo con il desiderio, e passiamo all’amore, ma solo a volte, e solo se siamo fortunati».
Costui è Jeffrey Eugenides. Il libro è Middlesex (che se non l'ho letto lo devo leggere).
|
|
Ci sono 6089 persone collegate
<
|
novembre 2024
|
>
|
L |
M |
M |
G |
V |
S |
D |
| | | | 1 |
2 |
3 |
4 |
5 |
6 |
7 |
8 |
9 |
10 |
11 |
12 |
13 |
14 |
15 |
16 |
17 |
18 |
19 |
20 |
21 |
22 |
23 |
24 |
25 |
26 |
27 |
28 |
29 |
30 |
|
|
|
|
|
|
|
|
|