Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Non capita spesso di avere buone sorprese dal web e in specie dal mondo dei blog ma mi piace scoprire grazie alla mia amica lontana ma sempre presente nelle letture e negli scambi epistolari - Rima - questo piccolo spazio di racconti fuori dal Continente. Lo scrive una ragazza italiana, Viviana, con una grazia leggera che rafforza lo stridore di certi contrasti che racconta. Aveva ragione la mia amica: "si legge come un romanzo, un pezzo di seguito all'altro senza pausa, come se si volesse andare avanti in una lettura seriale". Mi domando come mai si dia e si sia dato tanto spazio editoriale a quei campionari un po' veloci di sessopratica e non abbia trovato luce nella stessa onda "esperienziale" una generazione di cooperatori, sostenitori del diverso, aiutanti nella lotta alla emarginazione, scopritori e raccontatori di altri mondi. Qui vi segnalo un post recente. Il resto lo trovate qui. Dimenticavo: Il titolo del blog è You still have the waves in your eyes
Qui, a scuola picchiano i bambini. L'ho scoperto mesi fa, in una serata qualunque nel sottobosco con qualche amico di Orisha. Parlavano di quando erano alle elementari, di quando la maestra tirava fuori la riga. Non potevo credere a quelo che stavo sentendo, mi sembrava una cosa da Medio Evo. E da quel momento ho cominciato a sollevare l'argomento con frequenza, per capire quanto questa pratica fosse diffusa, ma soprattutto per sentire le opinioni della gente. "Ma certo, tutti le prendono, prima o poi", mi diceva una ragazza con una scrollatina di spalle. L'ho chiesto a molti, tutti hanno confermato, nessuno e' stato risparmiato. Chi piu' chi meno, tutti le hanno prese.
"Ma Vivi, devi capire che questa non e' l'Europa", mi diceva Trudy. "Qui i ragazzini non hanno rispetto. Crescono in strada, senza padri, senza figure di riferimento. Non sanno nemmeno cosa sia l'autorita'. Non ascoltano, disturbano, distruggono le sedie, le aule. Come si fa a tenerli sotto controllo senza il pugno di ferro? Come credi di poterli minacciare?", "Con una nota, un brutto voto?" ho azzardato io. Lei e' scoppiata a ridere. "Cosa vuoi che gliene importi ai piccoli delinquenti di un voto o di una nota? Cara grazia se vengono a scuola!". Il ragionamento a suo modo teneva, ma io ero agghiacciata. Semplicemente, non era una soluzione accettabile.
Man mano che proseguivo con le domande mi si formava un quadro piu' completo della situazione. I piu' fortunati venivano colpiti solo sulle palme delle mani. I piu' discoli ricevevano botte sul sedere. La cosa forse piu' scioccante e' stato scoprire che nella maggior parte dei casi non si trattava affatto di colpetti simbolici, ma di vera e propria violenza sui bambini. Un ragazzo grande e grosso con un sorrisone bianco sulla faccia nera ricordava di quando andava a scuola con cinque paia di pantaloni sovrapposti, perche' gia' sapeva che le avrebbe buscate, e cosi' avrebbe fatto meno male. Mi sono chiesta quanti pianti ingoiati stessero dietro alla sua risata indifferente.
Un'altra brutta scoperta e' stata l'arbitrarieta' di questo trattamento. Coloro che hanno frequentato scuole piu' o meno prestigiose hanno vissuto questa esperienza solo come metodo disciplinare, che per quanto aberrante aveva una sua logica. Ad ogni errore corrispondeva un numero preciso di botte, e punto. Era un sistema di giustizia. Ma i ragazzini piu' indisciplinati, o quelli che finivano nelle scuole peggiori, ricevevano un trattamento ben diverso.
Ne parlava anche Mister K in uno dei suoi shows nel cortile di casa, in cui lui regolarmente commenta i piu' delicati argomenti di attaulita' traducandoli in un linguaggio comprensibile ai suoi amici cannaioli. "I bambini vengono picchiati nella piu' assoluta impunita'. Da maestri che non fanno altro che sfogare le loro frustrazioni. Che ci godono. Pieno cosi' di maestri che ci godono". E faceva l'imitazione di una maestra sadica che picchiva, picchiava e godeva, e i suoi amici ridevano a quello spettacolino grottesco. Poi lui si zittiva per un secondo, pieno di rabbia. E su tutti loro passava un'ombra di qualche ricordo fugace a cui non potro' mai avere accesso.
Se vorremo no, non ci perderemo. Magari per un po'. Solo per un po'. Il nostro è un legame che rimane. Il nostro è un sogno che dura, che non si sveglia. Un sogno continuo. In cui ricadi, se lo vuoi. L'importante è che il bene sia ovunque. L'importante è che tutto sta succedendo per la nostra felicità e per la felicità del mondo. Dunque non c'è un dolore che si sta propagando da questo luogo in cui siamo. Forse per un po' ci metteremo distanti. Chi scatta la foto non deve avere l'impressione che esista un nesso tra noi. Perciò ci sediamo a un capo e all'altro ma ci sfioriamo col pensiero. Tu sei di poche parole e timida io no. Io sono di molte parole e la mia timidezza è nascosta, spunta dopo, quando tutto dovrebbe essere già successo. Il giorno non si ricorda. Neppure l'ora. Ma tutto è successo allora. Poi più nulla. Di fatto. Ma senza perdersi. Veramente.
O diventiamo bravi a spiegare quello che non si può spiegare. O rinunciamo a spiegarlo.
Ecco cosa succede ad avvicinarsi troppo alle cose. Se ne vede la grana. Ecco, succede questo. A stare troppo addosso alle cose succede questo. E succede anche ai racconti. Se li rileggi dopo un po'. Tu che pure li hai scritti. Quindi, parte di te. La versione completa di quello che hai fatto si smarrisce. E rimane tutto a vorticare come quelle immagini di superfici roteanti che si sovrappongono e si separano: lo sfondo, il primo piano, il pensiero che tutto tiene, ancora lo sfondo. Il galleggiare delle lettere sul piano geometrico che le trattiene. Tutti pezzi sparsi a cui viene meno il sentimento del completo. Non siamo di questa terra pensi. Di questo sistema di segni.
Sto variamente leggendo, sfogliando, spulciando o curiosando intorno ai libri che vedete sopra. Alcuni sono bottino di una rapina legalizzata su una bancarella, altri sono bottino di rapina a pieno prezzo in libreria. Per molti la lettura sarà un'agonia, per altri una febbre a bollire o bassa e continua. Nascerà qualche amicizia. Qualcuna si chiuderà. Con qualche libro ci si frequenterà ancora e ancora. Come con l'anima sofferta della Pozzi (sotto appongo poesia). Di Snyder mi porterò dietro tanto ancora, il tanto che mi aiuta a stare al mondo o al pianeta, alle cose di sempre, di oggi. Della Varvello riesco a raccontare i racconti come se fossero storie mie (non sono storie mie, neanche in senso lato). Li so raccontare, come se me li avesse detti un amico e lo avessi ascoltato incuriosito. Ogni tanto (per qualcuno) mi piace modificare il finale per far sì che chi mi legge non abbia l'impressione di una storia inventata dopo che tutto fino a quel momento è sembrato il registro della verità. Poi leggo Celati e mi compiaccio della lateralità, della capacità di spezzare sempre il fiato, d'inventare sport nuovi o recuperarne di antichi. Avere da dire: è questa la natura quintessenziale dei libri.
La porta che si chiude
Tu lo vedi, sorella: io sono stanca, stanca, logora, scossa, come il pilastro d'un cancello angusto al limitare d'un immenso cortile; come un vecchio pilastro che per tutta la vita sia stato diga all'irruente fuga d'una folla rinchiusa. Oh, le parole prigioniere che battono battono furiosamente alla porta dell'anima e la porta dell'anima che a palmo a palmo spietatamente si chiude! Ed ogni giorno il varco si stringe ed ogni giorno l'assalto è più duro. E l'ultimo giorno - io lo so - l'ultimo giorno quando un'unica lama di luce pioverà dall'estremo spiraglio dentro la tenebra, allora sarà l'onda mostruosa,
l'urto tremendo, l'urlo mortale delle parole non nate verso l'ultimo sogno di sole. E poi, dietro la porta per sempre chiusa, sarà la notte intera, la frescura, il silenzio. E poi, con le labbra serrate, con gli occhi aperti sull'arcano cielo dell'ombra, sarà - tu lo sai - la pace.
Ieri la sputaDVD - complice la mia voglia di rischiare il nuovo - mi ha rifilato questo film.
i heart huckabees - Le strane coincidenze della vita. Un film del 2004 che mi era passato completamente inosservato. Ma completamente proprio. E con un cast di questa grandezza (e sorprendentemente di questa mescolanza) mi stupisco. Non che vado a vedere film per cast ma... (ma la mescolanza avrebbe potuto attrarmi).
Il film mi ha inaspettatamente divertito, inaspettatamente rasserenato, inaspettatamente fatto pensare (e qui inaspettatamente sta pure per autolesionismo). Una commedia sull'essere se stessi/essere felici. Le coincidenze le ho viste a latere (e sono personali). Il film mi è piuttosto apparso un divertito turbinare di psicologismi con un fronte ironico che sbeffeggia lo scavo interiore a la page e uno tematizzante (per quanto a superficie) che ne semplifica le conclusioni (dello scavo) in un "gli estremi si toccano e si autoannullano o autoapprovano". La frase su cui s'incaglia l'llegra teoria della ripetizione incarnata dai due detective psicologici è questa e mi piace ripetermela e ripetervela. Ad libitum.
COME NON ESSERE ME STESSO
COME NON ESSERE ME STESSO
COME NON ESSERE ME STESSO
COME NON ESSERE ME STESSO
Ieri laRepubblica in prima pagina:
Il Cavaliere "Sì al dialogo o riforme da solo"
Da www.mattatoia.splinder.com
Non accorrerò quando chiamerà
anche se mi dirà ti amo,
specialmente se lo dirà,
anche se giura
e non promette altro
che amore amore.
La luce in questa stanza
copre ogni
cosa nello stesso modo;
neanche il mio braccio fa ombra,
anch'esso
consumato dalla luce.
Ma questa parola amore...
questa parola s'oscura,
s'appesantisce e si scuote, comincia
a farsi strada coi denti, con brividi e convulsioni
su questo foglio
finché anche noi scompariamo quasi
nella sua gola trasparente e siamo ancora
separati, lucidi, fianchi contro coscia, i tuoi
capelli sciolti che non conoscono
esitazioni
R. Carver, Orientarsi con le stelle
Un'intervista a la Repubblica di qualche settimana fa (ricevo e pubblico...questa risposta in particolare che ho riletto più e più volte). La Gallagher racconta la sua vita con Carver (in questo caso è un editor in casa quello di cui si dice, un editing-vita):
«A Ray piaceva svegliarsi presto, verso le 7. Si preparava il caffè, cucinava la colazione, il suo pasto preferito, lavorava un' oretta e mi aspettava, visto che a me invece piace prendere le cose con calma. Facevamo un' altra colazione insieme, discutevamo della giornata. E se avevo fatto qualche sogno voleva che glielo raccontassi, perché lui non sognava quasi mai. Dopo colazione, riprendeva a scrivere e spariva. Quando lavorava alla prima stesura di un racconto, ci dava davvero dentro. Però se era in fase di revisione, mi chiedeva di dare un' occhiata e mi chiedeva un parere. Se c' era un problema andavamo a cercare la soluzione con una passeggiata al fiume. Di solito, la parte più difficile era il finale perché si doveva trovare un opportuno punto fermo a tutto quanto era stato messo in moto. Io potevo solo indicargli le forze in azione nella storia e che pressioni esercitavano sui personaggi principali. La cosa lo aiutava molto perché gli dava un punto di vista esterno, una specie di visione dall' alto. Se non dovevamo scrivere, nel pomeriggio andavamo a pesca di salmoni nello stretto di Juan de Fuca, Dovunque fosse, Ray doveva sempre mangiare alle cinque del pomeriggio perché aveva un calo di zuccheri ed entrava subito in ansia. E' strano ma anche a distanza di vent' anni a quell' ora penso sempre a lui. Penso: Ray avrà fame. Una delle nostre regole era che dopo le sei smettevano di parlare di «affari», cioè di cose riguardanti l' insegnamento, l' organizzazione di viaggi, i rapporti con editori. Ci raccontavamo aneddoti, scambiavamo pettegolezzi su parenti e amici, guardavamo un film o un programma d' informazione. Leggevamo, a volte l' uno all' altro. Per lo più io leggevo poesie a Ray. Alle dieci di sera, lui staccava il telefono, non gli piaceva ricevere telefonate di vecchi amici che a quell' ora avevano bevuto un po' troppo. Andavamo a letto presto. Non so se reso un' idea, alla fine ci divertivamo molto insieme. Sembrava sempre che ognuno di noi sapesse esattamente che cosa avrebbe fatto sorridere l' altro».
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