Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Tex-Mex
La prima sera che sono usciti, Carlo ha portato Anna in un locale tex-mex. Una scelta curiosa, c’è da convenirne. Forse persino audace. In tutti i casi una scelta un po’ giovanile. Ma Carlo è giovane. Il problema semmai è Anna, il suo disagio, la sua completa impreparazione a una Anna che esce con un ragazzo che in definitiva pensa a lei in un certo modo. Impossibile equivocare. In ogni caso quella sera fortunatamente ha scelto una mise decisamente adatta e l’ingresso in una festa di coppiette trentenni o poco meno non la mette a disagio più di tanto.
Intanto c’è da dire che ci ha pensato un bel po’ prima di dire sì. Ha pensato ovviamente alla differenza di età e ne ha parlato anche a Carlo che con la forza ottusa e sorda della sua età è riuscita a convincerla che non ha poi tutta questa grande importanza. Che è un tema più sociale che vitale (non gli è venuta una parola migliore ma voleva dire reale). Più che convincerla bisognerebbe dire che l’ha stremata di insistenza. Insomma sono usciti: Anna ha detto un suo sì non convinto ma interlocutorio e a scadenza (“una sera tanto per vedere come va” ha detto a una sua amica, una mia amica ovvero Sara).
Quanto ci aveva impiegato a dire di sì? Vediamo: due settimane? Forse tre. Un aperitivo con amici? No, due. Carlo nell’ordine le ha proposto: concerto, cinema, cena a casa sua, cena in una pizzeria molto economica dalle parti di casa sua (anche questo un colpo basso che non va a segno). Anna deve aver pensato che la casa di Giuseppe comparisse un po’ troppo, come se fosse uno sfondo fisso delle varie proposte di uscita. Prefigurando un possibile seguito troppo intimo? Forse sì ma non ne ha fatto un tema di riflessione troppo insistita.
Eppure Anna alla morte del marito a un certo punto ha messo in conto un ritorno a un’epoca aurea della sua vita prima di Augusto – vita tutto sommato di breve corso ma che lei ricorda significativa – fatta di storie veloci e spensierate, con un sesso rapido nell’esecuzione e nell’architettura. Un discorso che tutto sommato mette in relazione con la politica di quegli anni e per questo ora tende a dimenticarlo o a metterlo in una sezione speciale della sua esperienza di vita.
La prima sera, dunque, Anna è con Carlo in un locale messicano. Ai tavolini coppie giovani, comitive che non superano i trentacinque anni. Lei dovrebbe essere a disagio ma, per incoscienza – la stessa con cui ha accettato l’invito –, non lo è. Poco prima di uscire si è guardata attentamente allo specchio a tutta figura della camera da letto e si è data una decina di anni di meno. Giusto è stato non indossare i jeans che spesso alla sua età rischiano di evidenziare una ricerca stucchevole di camuffamento. Sensato è stato non eccedere nel decolleté e nelle trasparenze. Dignitosa la ricerca di un colore, qualcosa che desse un segno di leggerezza, di disinvoltura. Turchese non è il colore di quell’anno. Forse turchese non sarà mai il colore di un anno ma forse proprio per questo non rischia di essere demodé. Il grosso lo aveva fatto: la scelta di dire sì, di accettare e basta l’invito. Una piccola carica di ottimismo e di incoscienza.
Siedono a un tavolino come tutte le altre coppie. Giovani per effetto di quella normalità. Giovani per conseguenza di quell’essere mascherati fra coppie tutte concentrate nel essere a due o nel divertimento di una cena goliardica a celebrazione di un’amicizia cementata attorno a una condivisione. Chi erano quei gruppetti? Universitari? Colleghi? Gente che si conosceva bene, in ogni caso. Familiarità traslata su un tavolo imbandito di esotismo, piatti da spiegare, commentare, riferire a viaggi fatti o da fare. Un piccolo teatro che garantiva a Carlo e, specialmente, ad Anna l’anonimato di cui aveva bisogno un’uscita per certi versi imbarazzante. O almeno questo era il suo punto di vista.
Si può dire che la birra messicana è per lo più imbevibile. Sto parlando dal punto di vista di Anna. “Ti sembro una da fette di limone nel collo di una bottiglia di alcol sciacquettato?” una volta le ho sentito dire e credo che non abbia mancato di ridire cose simili a un Carlo a quel punto disposto a convertirsi a un semplice capsula viola o a un corvo senza nessun imbarazzo ideologico o bisogno di congruità geografica. Eccoli che sorseggiano vino, un’etichetta molto commerciale, e poi enchiladas, burritos, quesadillas (tutta roba yankee mex), carne e peperoni per un conto che non senza fatica pagherà Carlo soprattutto affinché il tema della differenza di età non possa diventare – è una cautela di Anna – una suggestione di ruoli genitoriali. Di cosa parlino a tavola non è dato sapere. Se lo chiedessero a Carlo direbbe “di tutto” mentre Anna riassumerebbe in un bel “niente” il suo “tutto”. E deve essere il solito discorso del bicchiere mezzo pieno o vuoto a seconda del punto di osservazione.
Ora stanno uscendo. Al momento del conto – poco prima, come si conviene – Anna ha chiesto al cameriere dove fosse il bagno per dare la possibilità a Carlo di essere galante e/o adulto e ora Carlo è al tavolo che rimesta nel portafogli per capire se usare una carta o il contante. Sceglie la prima e attende il foglietto per lo scarabocchio della firma.
Escono dal locale con Anna sorridente e Carlo gongolante. Gentilezza contro aspettativa. La conclusione è un viaggio allegro verso casa di Anna che sembra preludere a un seguito ma questo è solo il punto di vista di Carlo. Per Anna la serata può finire così. Con un po’ di risate, cordialità e basta.
- Che begli occhi che hai? – chi parla è Carlo.
- Davvero pensi...?
- Meee (simula un pulsante) risposta sbagliata. Dovresti dire “sono per sedurti meglio”...
- Dovrei dire “per vederti meglio”, la fiaba è così.
- Vedo che, nonostante le scuole cattoliche, Cappuccetto Rosso non fa parte della tua educazione sessuofobica...
- No, in effetti, non ne fa parte. Perché dici sessuofobica?
- Perché finché la leggevo da bambino mi è sembrava una storia organizzata per farci odiare gli animali, poi mi è sempre sembrata una allegoria razzista... la differenza quelle cose lì. Qualche anno fa, mentre la leggevo a un nipotino ho avuto una rivelazione e ho capito che in realtà è una storia che vuole mettere in guardia le bambine inesperte dalle aggressioni di uomini malintenzionati. Che mani grandi? Che bocca spaventosa? Mi sembrano tutte metafore di un pericolo sessuale.
Anna sorride. La macchina si ferma: sono arrivati sotto casa di lei. Anna ringrazia e dice “sono stata bene” che è una frase che forse una donna non dovrebbe mai dire a un uomo la prima sera se non è sicura che ne possa seguire una seconda e, soprattutto, se non vuole rischiare una coda finale. Meglio dire “sono stanca/ ho un gran sonno/ domani mi devo svegliare un po’ prima” frasi che non offendono. Che chiudono con cortesia. Che non mettono in discussione la serata o in dubbio una successiva.
“Sono stata bene” è al limite una frase che va detta fuori dalla macchina, chiudendo lo sportello. Ma Anna l’ha detta ancora in macchina e atteso un po’. Quel minimo che a una persona intraprendente come Carlo venisse alla mente e allo stesso tempo all’esecuzione di un tentativo di bacio che Anna accetta in prima. Ma poi subito interrompe sgusciando dalla macchina.
- Grazie ma vado.
- Spero di non aver sbagliato qualcosa… (Anna che è già fuori e ora sta socchiudendo lo sportello fa per rispondere nella fessura d’aria tra macchina e cielo).
- No, va bene. Vado però.
Terribile, se ci pensate, l’uso di quel “però”. Non poteva farne a meno? A Carlo pesa come uno schiaffo. E deve essere anche il modo in cui è stato pronunciato. La guarda sgattaiolare nel portone e pensa “mai più, non la rivedrò mai più”. Pensa. Ma forse dovrebbe augurarsi piuttosto. Ma siamo così stupidi noi esseri umani (specie se di genere maschile e ancora in attività riproduttiva! Ovvero? Ovvero che stupidi noi maschi di tutte le età).
Ieri ho assistito alla lettura della lezione americana di Calvino dedicata alla leggerezza, la più citata e forse conosciuta. Leggeva Fabrizio Bentivoglio, introduceva Alessandro Piperno. E sono stati entrambi bravi. Interessante l’intervento di Piperno che ha ragionato su vita (e anche morte) e letteratura nei loro reciproci intrecci. A volte paradossali. E il caso di Calvino che ci lascia nell’atto d’ultimare una lezione sulla fine. A ben vedere ognuno ha la vita che si merita. E la morte, pure. A ben vedere il Caso-Calvino (e parlo qui della morte) è corrispettivo sub specie sistematicità del Caso-Balzac o del Caso-Proust. Scrivere è in definitiva uno degli atti di hubrys meno riconosciuti - o più tollerati, se preferite. Ma veder giocare con le cose del mondo, veder creare mondi agli dei non è mai piaciuto. Lo pensiamo anche da atei? Da agnostici? Possiamo confessare anche dal punto di vista delle confessioni meno deistiche che non porta bene tirare i dadi del mondo? Giocare le fish della letteratura sul tavolo della vita?
Sparare su Calvino è diventato negli ultimi tempi uno degli sport più in voga. In voga è il concetto anche di un Calvino disimpegnato (l’ultimo) di contro a un Calvino impegnato (vale la pena approfondire leggendo il libro di Carla Benedetti) e quindi “letterariamente” corretto. Provo a ricordare il perché della mia amicizia con gli ultimi libri di Calvino. In specie Palomar, secondariamente (molto secondariamente) Le città invisibili, più fortunate e felici (e dunque tollerate). E’ finita quella fascinazione? Forse sì. Non li ho più riletti o quasi. Eppure se oggi mi trovo sulla sponda di questo mare frastagliato e incongruo che è la mia visione della letteratura (non sono letterato di mestiere, ho scritto solo dei libri e tutto questo a ben vedere può non avere davvero a che fare con la letteratura – né con l né con L –, dedico la maggior parte del mio tempo ad altro) guardo a Calvino come a un autore che ha impiegato la sua hubrys nella ricerca della difficile ricomposizione delle antitesi scienza-natura, postumità-contemporaneità, mito-storia, passato-presente (si leggano le riflessioni sui classici oltre che le Lezioni di cui sopra). Non nella dicotomia forma-contenuto. O non particolarmente (non più di quanto riguardi chiunque si attrezzi anche ingenuamente a tentare due colonne di superenalotto della creazione letteraria o para-tale). Insomma alla giusta distanza credo che Calvino paghi una tracotanza un po’ fredda anche se interessante. Più di quanto potrebbe pagarla un Moravia maestro di efficace scrittura o immensamente di più (nel frattempo a morte di ideologia e inattualità del barocco) un D’Annunzio di troppo estetizzante scrittura. Non c’è glacialità in Calvino, non c’è formalismo, vuoto. Mi sembra che le Lezioni americane siano il degno testimone – anche nella loro incompletezza – del pensiero coerente di uno scrittore che è nato classico e quindi ha rischiato di per sé e da subito la morte. Che ha messo il camice della sperimentazione e ha quindi accolto su sè il rischio della adulterazione. Ci vogliono controprove prima che un preparato sia una medicina. Ci vogliono anni prima di dire che una moda diventi un fondamentale, un brano uno standard o anche solo un evergreen. E’ quello che spesso rischia la esaltazione o detrazione di un’epoca (sì AnniOttanta, no AnniOttanta e via così). Calvino è nato classico – e non è questo un giudizio di valore (né positivo) – in quanto ha da subito giocato su un tavolo grande e su tanti tavoli. Credo che bisogna aspettare che muoia per rivalutarlo e Calvino, purtroppo per lui, non è ancora morto. Ecco perché è lecito (e provvidenziale per l’autore) che si spari ancora sul suo corpo in caduta come nella barzelletta purtroppo giunta anche all’epica presidenziale e perciò decaduta di veridicità comica.