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E' probabile che ci siano film belli e brutti, riusciti o meno. Film difficili o facili. In breve, ci sarà anche una categoria "film da vedere" (mentre non immagino, per quanto spesso sono in dissenso con qualche pellicola, esistano "film da non vedere"). A questo gruppo iscrivo L'amore buio di Antonio Capuano. Un film che credo mi rimarrà addosso per un po' con tutta l'involontarietà dei racconti forti, senza forma e senza troppa narratività ma con molta significazione emotiva. Con due attori (non attori?) bravi. Irene De Angelis (qui in foto)
e Gabriele Agrio. Entrambi bravissimi. E' bello (anche se difficile per chi è abituato a consumare tv e cinema di tv) lo sguardo di Capuano. In particolare quello dall'alto su una Nisida raggiungibile e irraggiungibile (sede del carcere minorile del film) e quello in soggettiva (vedi ancora foto) di Irene sui muri dei vicoli. Vivere la vita che viviamo, vivere la vita che non vorremmo vivere. E' in questo scarto la profonda pietas di Capuano che mastica bassi ed emergenza in una pasta con la volontà di liberazione che pare impossibile eppure così naturale. C'è salvezza? C'è la possibilità di salvezza? Capuano pare dire di sì ma senza retorica. Un pericolo sempre incombente quando si analizza "la caduta". Quella altrettanto naturale determinata da contingenze difficili da immaginare per chi ne è distante. Quella chehai addosso senza sapere fin dove ti porterà e quando e quella che senza che tu lo sappia ti sta per intruppare contro. E poi ci sono le conseguenze, la diliera degli effetti, il domino dell'ineluttabilità ripetuta dell cadute. E' un dono raro per un regista avere tanta lievità nel male. Un distacco pietoso, difficile da cercare davanti al male e alla sua rappresentazione.
Approfittando di sconti ho comprato (anche) questi estratti dalle Memorie di Giacomo Casanova che vanno sotto il titolo Le donne e gli amori e dovrebbero antologizzare alcune pagine dedicate va da sé al Casanova amatore. Cito una frase poco "amatoriale" e la faccio mia.
Ho sempre voluto riconoscermi come la causa di tutto il bene e di tutto il male che mi è capitato; e mi ha fatto sempre piacere essere allievo di me stesso, e in dovere di amare il mio precettore.
Di Carvelli (del 27/09/2010 @ 12:25:39, in diario, linkato 1022 volte)
Condòmini
Escono le mattine della domenica dopo che tanto è piovuto e la festa splende nel sole dissepolta; alzano la gaia concitazione delle partenze al mare al giro di ogni nuova mandata e allo scatto del portone corrisponde l’ombra nel fruscío di una tendina; chi rimane è un viso che si sporge sulla rivalsa di chi parte stanno uniti cosí, nei giorni piú luminosi, lo scorto e chi scorge come labbra mai bagnate da un bacio.
Ecco, una domenica di porta portese, orto botanico, librerie, frascati (Roma vista dall'alto è grigia e nebulosa come se fosse lo specchio di un cileo nuvoloso). Segue un venerdì-sabato di sedici ore di sonno (sabato notte eclusa). E' come se tutto funziona solo se tutto ha smesso di funzionare. Per esempio come i cellulari (li continuiamo a chiamare "telefonini" perché quando sono nati erano più piccoli di un telefono normale) che prima si devono scaricare del tutto e solo dopo possono essere ricaricati. Ecco, domenica. Orizzonti di gloria è un bel film di Kubrick. Bello perfino per me che non amo i film di guerra. Bello perché è un film contro la guerra. Mi è ritornato in mente leggendo una frase da Hillman, James Hillman. Lui cita il generale Patton. Ecco ho trovato
"C'è una battuta in una scena del film Patton, generale d'acciaio, che da sola riassume ciò che questo libro si propone di capire. Il generale Patton ispeziona il campo dopo una battaglia. Terra sconvolta, carri armati distrutti dal fuoco, cadaveri. Il generale solleva tra le braccia un ufficiale morente, lo bacia, e, volgendo lo sguardo su quella devastazione, esclama: "Come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti. Lo amo più della mia vita". Se non entriamo in questo amore per la guerra, non riusciremo mai a prevenirla né a parlare in modo sensato di pace e disarmo".
A psicologi e filosofi è permesso tutto. Pure noi dovremmo permetterci qualcosa in più. O in meno. E invece? Noi ci allineiamo, difendiamo a tutti i costi e per preconcetto l'idea della pace. Ma che facciamo in realtà? Difendiamo solo uno status quo delineato da altre guerre a cui noi abbiamo dato, senza saperlo, il nostro appoggio/assenso. E ora appoggiamo una guerra che c'è già stata magari solo per la codardia di non combatterne un'altra. Questa contrapposizione di forze (e guerre) è evidente nel film di Kubrick. E nel mio film di oggi.
Ho letto in breve tempo Acciaio di Silvia Avallone. E questo va a suo onore. Infatti il libro è ben scritto e congegnato nelle scene. Contrariamente a quello che mi era arrivato - tutti parlano male di questo libro e mi riferisco, soprattutto, a gente del mestiere e metto qui una nota* - il libro non è per nulla male. Un buon esordio per la giovanissima età dell'autrice e a prescindere, per la capacità di padroneggiare una struttura così articolata, complessa. Quello che non funziona è a monte e a valle ed è editoriale. A monte c'è un'invariabile e pervicace debolezza della nostra editoria per le storie molto sentimentali, gravemente sentimentali e parlo del tempo recente. A valle la scarsa disponibilità (almeno qui) all'editing compiuto (vorrei dire anche compunto e non mi dite che hanno voluto mantenere degli sporchi, della freschezza giovanile di questo esordio...non attacca!...e non torna col resto!). C'è un problema di registri in questo libro: ad esempio una voce narrante (onnisciente e superiore) non ben distinta da quella delle protagoniste tredicenni. La struttura, come detto, funziona - anche se funziona è una parola che non uso a caso...c'è, vedi sopra, una caccia alla trovata allettante che squalifica certo nitore di base, nell'osservazione, nella calata in periferia e sottoproletariato [ma fanno il classico i sottoproletari?] e via così... - tranne che nel finale "Elba" un po' più debole a riprova che non si può scrivere una letteratura OGM e poi all'improvviso finire in "BIOLOGICO". Comunque nella somma non male.
*Nota "gente del mestiere". Dovete sapere cari lettori che "gente del mestiere" sono quelli che dichiarano successo o insuccesso dei libri. Quelli che sono i libri. Li scrivono, li pubblicano, li fanno pubblicare. Ebbene questi stessi eroi delle Patrie Lettere sono spesso schizofrenicamente presi a rivestire il doppio ruolo - per semplificare: pubblico e privato - di chi lancia o promuove ( e ne decreta il successo) un libro di cui poi in privato parlerà malissimo. E quello che colpisce è che è gente che sta negli stessi gruppi, che si vede in riunioni apparentemente concordi e molto famigliari. Persone che spesso si palesano fratelli, sodali, amici. Per parlare per esempio e rivengo ad Acciaio, di un libro di cui tutti sanno che devono parlare bene (per dovere di scuderia allargata) ma di cui in privato pensano e dicono tutto il male possibile. Ma questo è un vecchio discorso che chi sta nel mondo del lavoro ben conosce. Potrei fare anche esempi più vicini a noi, a voi. Sono sicuro che molti di voi hanno storie a riguardo. Nella mia piccola esperienza - un'esperienza peraltro confortante - nel mondo del lavoro non c'è uno che parli bene di un altro (colleghi di colleghi, capi di colleghi, capi di capi, colleghi di capi). La differenza è solo se il parlar male riesce a svilire definitivamente (ma anche qui il definitivo non esiste) la persona di cui dice male. Perché sempre e comunque si parla male. Il mio motto è sempre: di ognuno di noi si può parlare bene o male con ragione. Il punto è capire se si vuole il meglio da quella persona o ci si accontenta del peggio. In questa scelta c'è il futuro (e il presente) di noi lavoratori. Per le aziende e purtroppo anche per noi. Che bella che è la realtà! Così discorde.
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