Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Due delle opere teatrali più note e rappresentate di Samuel Beckett si aprono con la fine. In Aspettando Godot S.B. fa dire a Estragone in apertura "Niente da fare". Clov in Finale di partita principia con "Finita, è finita, sta forse per finire". Mi è rivenuto in mente leggendo l'intro di Antonio Tabucchi al libro su Marilyn Monroe Fragments che esce ora per Feltrinelli. Ecco un estratto che mi ha colpito.
Come sarebbe stata la storia se Marilyn, invece di avere quella straordinaria bellezza che la rese celebre per il cinema, fosse stata una donna dall' aspetto comune? Avrebbe pubblicato in vita quello che noi leggiamo ora e probabilmente si sarebbe suicidata come si è suicidata Sylvia Plath. E forse si sarebbe detto che come Sylvia Plath si era suicidata perché era troppo sensibile e troppo intelligente, e le persone troppo sensibili e troppo intelligenti soffrono di più delle persone poco sensibili e poco intelligenti e tendenzialmente si suicidano (questo lo sostengono gli psichiatri e le statistiche). Se le persone scarsamente sensibili e intelligenti tendono a far del male agli altri, le persone troppo sensibili e troppo intelligenti tendono a fare del male a se stesse: chi è troppo sensibile e intelligente conosce i rischi che comporta la complessità di ciò che la vita sceglie per noi o ci consente di scegliere, è consapevole della pluralità di cui siamo fatti non solo con una natura doppia, ma tripla, quadrupla, con le mille ipotesi dell' esistenza. Questo è il grande problema di coloro che sentono troppo e capiscono troppo: che potremmo essere tante cose, ma la vita è una sola e ci obbliga a essere solo una cosa, quella che gli altri pensano che noi siamo. *** Idolo nel senso etimologico della parola (greco eidolon, il doppio "aereo" di un vero corpo), Marilyn sembra fuori da se stessa, o accanto a se stessa, come se avesse un' aura a lei identica ma imprendibile, e lei coincidesse più con quest' aura che con il suo corpo. Una donna di una carnalità così gioiosa, con un doppio fatto d' aria per la malinconia.
Ho ripensato a un'idea che mi frulla per la mente ogni tanto. Ovvero se il suicidio sia da considerare l'estrema ratio (e uso ratio non a caso) di chi ha l'esatta percezione della fine in anticipo. Altri ci arrivano alla fine. Ma non per tutti i finali delle partite sono alla linea dell'orizzonte. E così anche in quella che chiamiamo vita. Per tutti è già detto tutto, già tutto. Prima (ma chi stabilisce i tempi?) che tutto accada. E anche qui: cosa è tutto? Chi ha la pazienza di aspettare la vera fine?
Venerdì, contrariamente a quanto previsto inizialmente (vedere The road) venerdì ho mangiato una pizza con tre colleghe non mie. A loro ho riferito e qui a voi di uan cosa sentita due minuti prima per radio e che sto inutilmente ricercando in rete. Secondo lo studio di un eminente professore sarebbe più proficuo promuovere casualmente (uno sì uno no o con un altro criterio) che per merito. Infatti promuovendo, per dire, un bravo fattorino e smistandolo ad altro si otterrebbe di perdere il bravo fattorino magari non riuscendolo a sostituire. La serata, espresso questo concetto rivoluzionario (rivoluzionario?) è scivolata con grande allegria e senza trovare fine. Spesso un buon argomento fa più di una buona compagnia.
Aggiornamento: L'obiettivo del capo è migliorare i risultati aziendali? La risposta è distribuire ai sottoposti promozioni assolutamente «a caso», anziché per merito, competenze o conoscenze. Sembra assurdo, ma è tutto testimoniato: la tesi è il cuore della ricerca di Alessandro Pluchino, Andrea Rapisarda e Cesare Garofalo dell'Università di Catania, che hanno dimostrato per la prima volta con un modello matematico il «principio di Peter» enunciato negli anni '60, secondo cui «in ogni gerarchia, un dipendente tende a salire fino al proprio livello di incompetenza». Qualcuno storcerà il naso all'idea, di sicuro apprezzata dagli organizzatori del prestigioso IgNobel, che giovedì sera ha conferito ai tre italiani il premio «per il Management». «Abbiamo anche studiato possibili strategie per evitare gli effetti negativi del fenomeno - da Boston, dove si è tenuta la cerimonia di consegna del premio organizzato dalla rivista Annals of Improbable Research e sponsorizzato dall'Università di Harvard - Per quanto possa sembrare paradossale, una strategia che promuova ai ranghi superiori in maniera casuale sembra dare dei buoni risultati ed aumenta l'efficienza dell'organizzazione». www3.lastampa.it/costume/sezioni/articolo/lstp/347102/
Senza saperlo ho celebrato anch'io la fine della DDR rivedendo Le vite degli altri. Ho pensato che essere parte di un noi collettivo e senza persone sia il grande male di tutte le organizzazioni. Religiose, politiche. Credo che tutti i consessi umani si infrangano sul muro di un noi senza persone. Un noi facile perché indistinto e quindi più cementificabile. Un concetto che non è rimasto al muro ma che si perpetua ovunque e sempre. In qualsiasi organizzazione è più arduo tenere tante preziose unità rinunciando ad avere una malta compatta e indistinta ma è l'unico modo per farle durare nel tempo. Anche se nel breve può sembrare più efficace unime materiali identici o rendere identici materiali dissimili. La bellezza di quel film, credo, è proprio nella celebrazione dell'impossibilità di rendere a forza elementi diversi pasta comune annullandone le differenze.
Iersera sono stato inviato ad una serata x-factor. Sopro da non possessore di tv che c'è gente che si vede per tifare un cantante o un altro. La serata prevedeva un vassoio cadauno (la mia amica uno e io un altro contenente carne e bieda), la possibilità di dire un certo numero imprecisato di parolacce e un cane che cercava di mangiare a turno da uno dei piatti. Superati un paio di ostacoli non è stato per nulla male. E' bello poi andare a vedere la tv a casa d'altri. E i cantanti... beh alcuni sì erano davvero bravi.
Ho intercettato per caso questo saggio molto bello di Emiliano Morreale. L'invenzione della nostalgia (Donzelli).
In realtà ho letto solo il primo capitolo Teorie e pratiche della nostalgia. E mi è sembrato molto interessante. Analizza il sistema di nostalgia creato da cinema e, in tempi più recenti, dai media in genere riflettendo sul come questi ultimi (tv in testa) abbiano creato una acuzie del sentimento. E' un tema bellissimo tout cort e bello in questa osservazione/riflessione. Bella anche l'idea del ciclo di nostalgia col salto di 20 o 30 anni. Ho pensato se noi in fondo abbiamo nostalgia per il senso permeabilissimo che abbiamo nella nostra formazione giovanile (la musica, i film, i cartoni dei nostri anni giovani) o anche (oppure) necessitiamo di un salto epocale, un non voler essere nel tempo in cui siamo ma in uno precedente che non abbiamo potuto attraversare (nell'altro caso che non avremmo voluto abbandonare). Chissà. Alle volte penso che sia una forma più o meno idealistica di dilatazione (rallentamento) del tempo che viviamo (vita/morte cose così). Un modo per fregare il tempo intercettandolo in posticipo.
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