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 letto di M e G a Lubriano... di Carvelli
 
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Ne avevo viste troppe io di cose non chiare per essere contento. Ne sapevo troppo e non ne sapevo abbastanza.

Louis-Ferdinand Céline
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Carvelli (del 18/10/2010 @ 10:01:20, in diario, linkato 844 volte)
17 aprile 1944 è una data che il quartiere in cui vivo non potrà mai dimenticare per i motivi che trovate qui http://it.wikipedia.org/wiki/Quadraro Punto, a capo.
C'è questa casa editrice faentina, la Moby Dick (www.mobydickeditore.it), per la cui rivista Tratti ho qualche volta collaborato e che merita vicinanza e sostegno come tutti i piccoli editori. Ogni tanto ricevo qualche dono e, curiosamente, in questa antologia-concorso che mi mandano E alla fine Beethoven trovo un racconto di Serena Patrignatelli dal titolo 17 aprile. Il racconto offre un altro punto di vista su quella terribile giornata e sulle conseguenze che ne derivarono. Un finale meno triste di quello ampiamente storicizzato (ci sono molti libri a riguardo). Un finale in cui la morte sta discosta. Ogni casa di questo quartiere fu presa di mira. Esiste addiritttura un elenco della parrocchia (grazie al suo eroico sacerdote) che porta casa per casa, civico per civico, l'elenco dei proscritti destinati al campo di concentramento. Ogni anno la memoria rivive con corone e manifestazioni e il quartiere ha una medaglia d'oro al valore. Ho ripensato a tutto questo leggendo questo breve racconto nell'antologia non so in che misura autobiografico. Ho ripensato a quanto da allora è cambiato e cosa è rimasto di quella brutta alba. Se c'è un legame tra quel quartiere di allora e quello di oggi. 
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Di Carvelli (del 14/10/2010 @ 12:12:20, in diario, linkato 545 volte)
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Di Carvelli (del 14/10/2010 @ 11:55:34, in diario, linkato 606 volte)
Ognuno dovrebbe pensare a sé e agli altri - a un altro o un'altra - come a una piccola orchestra, una nazione, una squadra non importa di quale sport. Ogni volta che qualcuno parla a qualcun'altro davanti dovrebbe avere presente un collettivo. Ognuno potrebbe a ragione darci o darsi del "voi" e stavolta non sarebbe cortesia. Poi, d'accordo, uno parla all'attaccante perché intenda il portiere o al violino perché serva alla tuba. Tutti dovremmo parlarci senza avere la certezza che quello che diciamo raggiunga una sola persona, quella che noi pensiamo. Contro ogni tentazione ho usato il condizionale perché pensavo che non è facile vedere la seconda linea o la terza. Non è semplice guardare un gruppo in una faccia. Ed è vero anche che tutto sommato è più semplice fare una cosa per volta. Anche se è sbagliata.
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Di Carvelli (del 14/10/2010 @ 08:43:39, in diario, linkato 515 volte)
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Di Carvelli (del 14/10/2010 @ 08:35:44, in diario, linkato 587 volte)
Ho visto sabato scorso Inferno/Purgatorio/Paradiso della Raffaello Sanzio Societas. E mi è piaciuto. Specie Inferno di cui questo video è una brevissima sintesi.
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Più angosciante e meno visionario Purgatorio ma, mi verrebbe da dire, nel rispetto del testo. Dove sei tu? Io ti amo. Io ti imploro. In tre invocazioni la sintesi della condizione umana tra ricerca e smarrimento, bisogno di salvezza prima che di redenzione.
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Di Carvelli (del 13/10/2010 @ 13:43:27, in diario, linkato 1160 volte)

Cito e linko intervista di Davide Musso a Franco Stelzer sul cui ultimo bel libro - Matematici nel sole - già ebbi modo di esprimermi tempo fa nel mio sito.

Matematici nel sole - l'ultima fatica di Franco Stelzer che per un pelo non è diventato “Libro dell'anno” di Fahrenheit su Radio3 - è un romanzo poetico e delicato sul matrimonio. D'accordo, lo spunto che muove la storia è la scoperta da parte di Hus, il protagonista, di avere un male incurabile: da lì la decisione di pianificare la cerimonia funebre e il “dopo”, dalla suddivisione del patrimonio tra i figli alla ricerca del nuovo partner per la moglie. Ma la morte resta sullo sfondo, mentre le pagine raccontano la storia d'amore (luminosa, anche se non priva di momenti bui) di una coppia lungo il corso di una vita. Tra l'altro, con questo libro Stelzer è passato da Einaudi (con cui ha pubblicato i due titoli precedenti) alle Edizioni Il Maestrale. Ecco perché.
In un'occasione pubblica ho sentito presentare il suo libro come un libro sulla malattia, mentre lei ha precisato che si tratta piuttosto di un libro sul matrimonio, e in effetti il senso di morte nel libro non c'è, e la malattia di Hus resta per gran parte del tempo sullo sfondo. Come mai quindi ha scelto questo spunto narrativo (il male incurabile del protagonista) per scrivere un romanzo su una storia di coppia?
Ho effettivamente cominciato a scrivere il libro pensando a cercare di rendere sulla pagina quel laborioso, tenace, intelligente lavorio di mediazione, comprensione, critica, auto-critica, ridefinizione ecc... in cui consiste la vita di una coppia. Mi affascina questo modo caracollante eppure efficace di procedere che è insito nella convivenza. Quel lavoro di continuo aggiustamento che, nelle coppie che funzionano, agisce in un certo senso su di una misura di tempo infinito, ha in sé l'elemento chiave dell'infinita perfettibilità, a tutti i livelli. Poi mi è venuto in mente di introdurre la malattia e la possibile morte - per vedere se il sistema continuava a funzionare. Nel caso dei due protagonisti, mi sembra che l'inevitabile accelerazione indotta dall'idea stessa di una possibile fine imminente non abbia comunque scardinato il meccanismo dell'approssimazione positiva. Tra l'altro, quest'ultimo aspetto - un'approssimazione che non si considera un semplice male minore, ma un  continuo processo di levigazione dell'essere - ha qualcosa di molto letterario...   
Il matrimonio che lei racconta è a suo modo saldo, nonostante abbia conosciuto tempi bui. Com'è possibile condividere una vita intera con la stessa persona, a suo avviso?
Non so se sia possibile che questo avvenga in modo veramente soddisfacente - comunque sicuramente non sempre. Certo, una via è proprio quella di una sorta di nobilitazione della normalità. I due protagonisti si salvano continuamente ritualizzando con delicatezza e rispetto il loro quotidiano. La vera morte - sembrano a volte poter dire - non è quella fisica, che inevitabilmente ci travolgerà, ma lo scordarsi della sacralità pura e luminosa dei riti quotidiani, la perdita del senso delle cose più semplici.

Hus è un pianificatore, vuole sempre avere la situazione sotto controllo: non si preoccupa solo di quanto riguarda direttamente la propria morte (la cerimonia d'addio, la suddivisione dei beni), ma anche del "dopo" delle persone che ama e in particolare della moglie, per la quale vorrebbe trovare fin da subito un partner sostitutivo. Perché?
Hus vuole, mi pare, soprattutto esorcizzare. Ma poi, sembra scoprire nella definizione minuziosa (addirittura numerica!) dei particolari anche più intimi del dopo, una sorta di estetica bizzarra e paradossale. Anche questa assume i tratti del rito, anche se proiettato su un tempo che non esiste ancora. 

A questo punto devo chiederle di spiegarmi i nomi, piuttosto insoliti, dei due personaggi principali Hus e Wif, marito e moglie, e dei loro figli, Soh e Toch.
Quelle specie di sigle sono una sorta di nomi/non nomi. Provo sempre un certo fastidio nel dare ai personaggi una veste anagrafica troppo precisa e concreta. E allora mi sono scelto nomi tronchi e per di più derivanti da codici linguistici diversi dal mio (Hus sta per Husband, Wif per Wife; Soh per Sohn, figlio in tedesco, Toch per Tochter, figlia, e così via). Così troncati assumono una sonorità quasi astratta. Potrebbero sembrare in un certo senso nomi di animaletti, o di gnomi, comunque dotati di un che di piccola universalità. So che a qualcuno la cosa ha dato fastidio. Peccato.  
Ad un certo punto del libro scrive che "le storie cacciano il male" e il romanzo è innervato di altri racconti oltre a quello principale. Perché questa necessità dell'uomo di raccontare e raccontarsi?
Il fatto che il racconto principale sia continuamente interrotto da storie parallele ha a che vedere con il mio rapporto con la frammentarietà, nei confronti della quale provo un'attrazione irresistibile. Non so reggere alla tentazione di spezzare, frantumare, creare continuamente nuove aperture. Di fatto poi mi accorgo che, senza che ci abbia pensato più di tanto, le storie secondarie hanno molto più a che vedere con quella principale, di quanto io stesso non avessi pensato, spesso in un modo oscuro, ma che può illuminare. Mi pare accada la stessa cosa anche nella normale vita di noi tutti. Siamo continuamente attraversati da un fascio inesauribile di sensazioni, pensieri ecc..., che continuano a entrare in rapporto. Quando riusciamo ad isolare uno degli elementi di questo fascio e lo trasformiamo in storia, la nostra normalità si illumina e guadagna un senso complessivo che prima forse ci era sfuggito. E in un certo senso diveniamo spettatori della nostra stessa vita.   
Visto che comunque la fine è uno dei temi del libro, mi piacerebbe chiederle qual è il suo rapporto conla morte.
Buono direi, abbastanza simile a quello di Hus. Ma attenzione, lo dico da sano...
Matematici nel sole è il suo terzo libro pubblicato in nove anni: che tipo di scrittore è Franco Stelzer? Come e da quale esigenza nascono le sue storie? Quando e dove scrive, e con che metodo?
La mia scrittura nasce quasi esclusivamente da un'urgenza di natura autobiografica. Sento il bisogno di raccontare - trasfigurandolo - quello che mi succede. Anche per questo sono uno scrittore estremamente irregolare. Scrivo poco, in luoghi anche  diversi - anche se per lo più a casa. E al computer. In genere non faccio scalette o roba simile - lavoro soprattutto su frasi e suoni - a meno che l'urgenza di una consegna non mi costringa a stringere i tempi.  
Negli ultimi anni sono diversi gli autori che hanno cambiato editore, passando da una sigla più grande a una più piccola. Questo romanzo ha segnato il suo passaggio da Einaudi e Il Maestrale: com'è accaduto? E quale bilancio può trarne?
Sono passato al Maestrale (su preziosa indicazione della mia traduttrice francese) perché Einaudi mi stava facendo aspettare troppo. Avevo una promessa di pubblicazione che mi assicurava l'uscita del libro minimo un anno e mezzo dopo il momento in cui è effettivamente stato pubblicato. Non avevo più la forza di aspettare. Volevo assolutamente liberarmene. Il bilancio è estremamente positivo per quando riguarda editing, rapporto con la casa editrice ecc... Molto meno per quanto riguarda il "peso" dell'ufficio stampa e la presenza del libro sugli scaffali. La forza della grande casa editrice si fa, in questo caso, sentire moltissimo. 
Infine: sta lavorando a qualcosa di nuovo?
Sì, ma in modo frammentario. Troppi impegni di altro genere. Troppi pensieri. Aspetto un momento più calmo. 
 
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Di Carvelli (del 13/10/2010 @ 08:45:10, in diario, linkato 868 volte)

Trovo, ancora nel libro di Susanna Basso - Sul tradurre, una frase che mi intriga. E' da Hilary Mantel di cui ignoro tutto. La frase in inglese suona così: But this story can be told only once, and I need to get it right. La Basso la traduce così: Ma questa storia può essere raccontata una volta sola, e ho bisogno che sia la volta buona. Mi sembra che renda perfettamente l'idea che va cercata, o che io cerco, meglio, nella e della lettura nella e della scrittura. Only once - Get it right.

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Di Carvelli (del 12/10/2010 @ 17:05:43, in diario, linkato 590 volte)
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Di Carvelli (del 12/10/2010 @ 16:09:00, in diario, linkato 606 volte)
Fosse stato lunedì tu avresti avuto la faccia di chi non ha dormito. Una faccia felice, quella che avevi a tredici anni dopo una partita di pallone, una cena con la fettina panata e le patate fritte tagliate grosse. Un nodo alla gola fatto di stanchezza, la televisione accesa e dopo non ricordi più. Quello che non ricordi è la mano che ti alza e ti guida verso il letto. Una mano che non c'è più. Né di lunedì mattina né di domenica sera. Né mai.
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Di Carvelli (del 12/10/2010 @ 10:17:12, in diario, linkato 618 volte)
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