Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il letto lo chiamò quadro. Il tavolo lo chiamò tappeto. La sedia la chiamò sveglia. Il giornale lo chiamò letto. Lo specchio lo chiamò sedia. La sveglia la chiamò album fotografico. L’armadio lo chiamò giornale. Il tappeto lo chiamò armadio. Il quadro lo chiamò tavolo. E l’album fotografico lo chiamò specchio.
Voglio morire tante volte. Senza il pianto di nessuno. Qualche lacrima mia, al limite, ché non ci si separa senza dolore da qualsiasi cosa. Anche da quello che ci fa stare male. Voglio imparare l'arte di nascere più volte e senza pancia altrui. Voglio essere l'esempio dell'eternità in pochi minuti. Come compilassi una schedina, sottolineassi con l'evidenziatore, stringessi un bullone.
Contrariamente alle attese, ho trovato nel film di Sorrentino, La grande bellezza, diversi motivi di interesse. Inversamente rispetto al precedente i difetti che lì mi avevano irritato qui mi hanno solo tolto lo slancio di un sì più altisonante e convinto. Il richiamo - non casuale - al felliniano La Dolce Vita non è indice di pretenziosità ma di coraggio. Non vale la pena fare confronti. I difetti di Sorrentino sono sempre gli stessi: poca confidenza nella sceneggiatura, l'attitudine a farsi notare (chiamiamola seduttività), il rischio (ormai insito nell'attore e di cui qui abbiamo già parlato) che l'estro di Servillo giganteggi a dispetto dello sfondo con esiti contrastanti. I pregi sempre quelli: cercare dei significati profondi, affrontare temi di petto, con coraggio, con forza, senza falsi imbarazzi, una circolarità che dà - anche quando non c'è - una certa compiutezza alle opere. Qui il finale è davvero importante anche se ha le sue forzature. Ma dice cose importanti e lo lasciamo al percorso di ogni spettatore. Sicuri che a qualcuno darà fastidio e per altri sarà illuminate o luminoso.
Questa che noi non chiamiamo amicizia somiglia piuttosto a un rapporto di frattellanza. In definitiva se fosse amicizia lo sarebbe rispetto a una terza cosa. Non c'entra il fatto di essere diversi, non sta nel cercare di essere simili. Né di appartenersi rispetto a sé. Questa che noi non chiamiamo amicizia è un modo di lottare vicini, di sostenersi. Dopo sì, è vero, tu rinunci al pollo, al riso e me ne cedi un po'. Dopo sì, lo so, abbiamo dei piccoli doveri. Ma in questa che noi non chiamiamo amicizia conta il fatto che ognuno spinge per la felicità dell'altro, dell'altra. Lontano da sé. Altrove. In altre storie, in altri lavori, ambiti. Ognuno tifa per la felicità altrui, altrimenti. Questa che noi non chiamiamo amicizia è la forza che ci spingerà a dire un giorno che se non abbiamo un'unica madre o padre abbiamo un unico maestro, un'unica visione, un'unica fede. Che ci fa felici entrambi. Che ci ha fatto felici, insieme. Diversamente.
Di Carvelli (del 29/05/2013 @ 08:39:02, in diario, linkato 1148 volte)
Da qualche tempo mi sono aggregato (ben accolto) al gruppo dei PM (Piccoli Maestri) - scrittori in giro per l'Italia a leggere volontaristicamente libri nelle scuole. Qui il sito: http://piccolimaestri.wordpress.com La mia prima prova di lettura è stata all'Istituto Padre Semeria sull'Ostiense. Il primo libro: Il piccolo principe di Saint-Exupéry. Ho scritto qualche considerazione che qui riporto. E vi riporto l'invito a seguire questo gruppo per una rivoluzione semplice e per la permanenza della lettura e del racconto.
L’epos non è morto
La mia prima “piccola maestria” ha avuto la magia dell’incanto. Ad essere sinceri non pensavo potesse essere così piacevole andare a parlare del Piccolo Principe in una scuola media. A pensarci, il giorno prima mi immaginavo ragazzi che m’interrompevano, facce annoiate, distrazioni varie. E invece i libri e il racconto dei libri hanno poteri incantatori inimmaginabili. Ripenso a quella parola che scrivevamo in un quadratino prima di google calendar: epica. Ecco, penso, l’epos non è morto. Tutti sono pronti a ricevere una storia. Una specie di informazione di base, di pratica innata, di predisposizione naturale. Credo che il senso dei Piccoli Maestri sia questo. Testimoniare che la pratica del racconto (del racconto del racconto) non è morta. Tutt’altro. Magari si è imbastardita, ha perso il riferimento originale alle pagine e a noi il compito di ricollocarla, riallinearla a quelle. Noi iniziamo, altri continueranno. Ci capiterà di farlo forse con libri che non amiamo. Forse succederà non amati da chi ci ascolta. Eppure la funzione di base, la sfida a questa testimonianza del potere del racconto non deve morire.
Vengo al sodo. Prima classe: c’è un generale incantamento. Di me che ascolto le domande, di me che leggo e ascolto Saint-Exupéry, dei ragazzi che lo ascoltano e fanno domande a me come se le facessero al libro, del dialogo tra noi tre funzionari di questo rito: i ragazzi, due professori, io. In definitiva, quello che conta è il libro in mezzo a noi tre. Non importa che sia Il piccolo principe. E importa. Non importa se sia piaciuto, se l’abbiano capito (“Prof ( detto a me) io non l’ho capito”). Forse anche io ogni volta che rileggo e riracconto lo capisco di nuovo e in un modo nuovo. Siamo pari. La seconda classe ha rinunciato a una delle due ore di ginnastica settimanali per essere con me e la strada è in salita: una vera e propria educazione fisica per me sostituire il “libero sfogo” dopo il “sorvegliare e punire” delle ore intrappolate nei banchi. Altro insegnamento: forse la lettura ha bisogno del contesto e del tempo giusti (magari si poteva andare a leggere in palestra subito dopo una sudata liberatoria). In ogni caso già non vedo l’ora di tornare nelle aule. Magari con un libro-sfida. Magari rileggendo per l’ennesima volta un libro che conosco e conoscerò in modo diverso grazie a questo meccanismo. Come una scuola circolare e mutua.
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