Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
La sensazione di una perfetta prima volta che si ripete. L'azione che non è mai ripetizione ma anche il vertice di ogni libertà. Tuffarsi. I cavalloni o le onde lunghe e poco arcuate. O la calma piatta. E il corpo che prova ad essere pesce. Tra i pesci, forse. Senza il celeste rimarcato delle piscine. Ma, anzi, con tutte le storture del caso: le alghe, la sabbia, i ciottoli che infastidiscono i piedi, il sale. Bisogna approfittarne prima che sia la stagione dei gesti sobri.
Di Carvelli (del 24/07/2006 @ 14:12:52, in diario, linkato 1465 volte)
A un certo punto, un'illuminazione. Pensi di aver capito tutto. Connetti due punti e si accende una lampadina. Per due o tre cose che stai pensando in quel momento si crea una piattaforma di senso. La relazione logica si chiarisce e ti appropinqui ad una verità. Mai svelata. Semplice eppure rivoluzionaria. Semplice ma geniale (come solo il genio sa approntare). Lungi dall'orgoglio cerebrale vorresti appuntare la tua scoperta ma sei in moto, a....90km all'ora?...e allora lasci e cerchi di ripeterti a mente quella verità percepita...schivi una macchina, sorpassi (a sinistra e poi all'inglese). Ti ripeti la tua scoperta. Ossessivamente. Ormai credi di averla passata allo stato delle cose chiare, di quelle dette e col copyright. L'hai brevettata. A mente è tua. Ha il tuo cognome. Due chilometri o poco più alla prossima base: lì carta, lì penna. Arrivi e sei subissato di domande, richieste, cose comuni, assistenze varie, pranzi e cene. Tutto scappa. Poi ci ripensi e non si sa perché non ricordi neppure una virgola di quello che avevi pensato, orgoglioso poco prima. Per un po' ti sforzi (ma è inutile). Poi capisci benissimo una verità che prima non avevi formalizzato e che ora capisci essere al di sopra di ogni cosa: la vita è beffarda. Almeno certe volte.
Di Carvelli (del 25/07/2006 @ 09:20:26, in diario, linkato 1474 volte)
Ieri ha piovuto, io zappettavo un po' il giardino della casa e piantavo i rampicanti che avevo nella casa di prima in vaso. Chissà che faccia avranno fatto (le piante) magari la stessa che facciamo noi quando ci togliamo le scarpe dopo una giornata di duro cammino? Magari, come è ovvio, non è una buona stagione per mettere in terra nulla. Ma poi ha piovuto e ho pensato "vedrai che ora quelle (le piante) capiscono che è un'altra stagione e non c'è problema, si adattano subito". La pioggia mi bagnava la maglietta. Io ero rannicchiato a fare il buco. Avevo due gocce di sudore sul labbro superiore, poi è arrivata qualche goccia di pioggia e si è confuso tutto. Non ha piovuto molto ma il cielo era coperto (le piante vedono?). Se fosse piovuto di più forse sarei rimasto lo stesso rannicchiato a scavare e forse un giorno lo farò, magari con un ombrello. Ogni volta (è capitato solo due volte per ora) che scavo in giardino penso di poter trovare qualcosa: perché il quartiere è vecchio e ha visto giorni di guerra terribile. Sofferenze e fughe, separazioni forzate e incertezze poi diventate morte. E una morte terribile, la stessa che in questi giorni ci lascia inermi o ci spinge pensieri ideologici. E' possibile fare ideologia della morte? La cosa che m'impegna di più in questi giorni è essere felice. Dovrei dire "cercare di essere felice" e risulterei più modesto ma cercare non mi dà l'esattezza dell'azione o me la dà nella sua ovvietà. Forse è questo che m'infastidisce. Nel libro che sto leggendo (Jonathan Safran Foer - Molto forte, incredibilmente vicino) c'è scritto: prima "Gli errori che ho commesso sono morti, per me. Ma non posso ritirare le cose che non ho mai fatto" poi "E' meglio perdere che non aver mai avuto". Alle volte le ricette sono buone ma non sono all'altezza gli ingredienti o ci ostiniamo ad usare quelli sbagliati, o a mischiarli male. Stamattina c'era una bell'aria ma non sono riuscito a capire da nulla se fosse o meno piovuto nella notte. Ma faceva fresco (un po' più fresco) e ho pensato che forse dura ancora un giorno la primavera delle mie piante.
Di Carvelli (del 25/07/2006 @ 14:11:12, in diario, linkato 1967 volte)
Di Carvelli (del 26/07/2006 @ 09:31:56, in diario, linkato 1529 volte)
Leggevo Il passeggiatore solitario di Sebald, un libriccino sulla figura di Robert Walser, e sono rimasto colpito da un passo in cui si cita Walter Benjamin sui personaggio dello scrittore svizzero: essi verrebbero "dalla follia, e da nessun'altra parte. Sono figure che hanno la follia alle spalle e perciò restano sempre impregnate di una superficialità così lacerante, così totalmente disumana, così imperturbabile. Se si volesse riassumere in una parola ciò che hanno di gioioso e inquietante, si potrebbe dire: sono tutte risanate". Non so cosa mi colpisce. La dialettica degli opposti, la sottile linea di confine tra due stati (dell'anima), una spiegazione seconda (lì dove c'è una spiegazione prima)? O forse un presentimento realizzato? Quello di guardare all'opera dello scrittore svizzero (con passione, con ammirazione, con gratitudine) come ad una panacea dell'inquietudine (quali altri scrittori alla mia lettura la stessa sorte? Thoreau? Handke del Canto alla durata? Pessoa del Libro dell'inquietudine?). Quello di aver sempre letto la sua opera come la prova di una guarigione, un medicinale ottenuto per veleno, come un siero benefico per il morso di vipera ottenuto dal suo stesso veleno.
Di Carvelli (del 27/07/2006 @ 08:54:24, in diario, linkato 1599 volte)
Non dirò mai, ad esempio, "tre etti (e tutte le sue varianti) di pane sciapo (e tutte le sue varianti)". Non dirò mai "è rimasto del pane senza sale?". Non dirò mai "va bene lo stesso" a chi rimarca che quella forma è sciapa. Viceversa, dove servirà (Toscana? Umbria?) sarò pronto a specificare che lo voglio proprio col sale e che "no se è senza sale no". Piuttosto niente (mi dirò a mente) o a loro "è rimasta un po' di pizza? panini all'olio?" Perfino il pane in cassetta, i crackers, i grissini... Ma il pane sciapo no. Eppure ieri sera ho indicato un'unica forma di pane in una rosticceria e ho finito per mangiare pane sciapo. Senza gusto e con rassegnazione.
Di Carvelli (del 27/07/2006 @ 12:21:34, in diario, linkato 1482 volte)
Chissà che cosa ricorderemo di questo tempo. La tua testa reclinata appena sulla mia spalla mentre una voce turca dall'altoparlante ci dice di fare quello che sappiamo già: allacciare e slacciare le cinture, alzare e abbassare lo schienale, chiudere il tavolino. La leggera pressione della tua testa, attutita dal cuscinetto leggero dell'orecchio e un sonno che non si può dilazionare, rinviare. Lo stesso sonno di te bambina, di me bambino. Di tutti i bambini di tutte le gite scolastiche e/o familiari. La chiusa sfibrata di una pausa vacanziera, di una gita fuoriporta ("fuoriporta": nella nostra infanzia ignara si tramandava ancora lessicalmente una pianta già superata da piani regolatori tentati e falliti), di un andare altrove - case di parenti? battesimi? cresime? comunioni? degenze ospedaliere? - da cui si tornava spossati e la macchina era un anticipo incolpevole del letto. Appoggiare la testa alla spalla di qualcuno: ecco la radice della serena appartenenza, l'intimità, la sicurezza, la fiducia. Di più. Mi dici che "vuoi di più". Ti dico che "voglio di più". Che non basta, diciamo. Che "non è questo", pensiamo o raccontiamo ad altri noi, noi tutti. Decliniamo un altro fumoso. Non sappiamo dire come diradare la nebbia di quel che ci manca ma dichiariamo cecità e scontentezza. Al massimo piangiamo tempi migliori. Di noi migliori. Ma un giorno, chissà quando, ricorderemo solo quella sopportabile (perché onorevole, fiduciosa, intera) pressione di un orecchio e di una testa. Non più di questo.
Di Carvelli (del 28/07/2006 @ 08:42:31, in diario, linkato 1463 volte)
Ormai sembra impossibile dissentire. I picchetti dei distributori incrociano le braccia sull'ingresso della metro. Sembra arduo liberarsi da questo volantinaggio coatto. L'ortodossia rivoluzionaria del giornale a 0 lire obbliga ad allungare la mano. Ci si vede costretti a passare forzando il blocco editoriale delle loro copiette striminzite o ad accettarne il dono. La ritrosia è inattesa. Li spiazza e li delude, li innervosisce. E' la dittatura dell'omaggio, del regalo. Della pubblicità (in senso ultimo) condita con info. Prima espressione: info+intrattenimento+pubblicità=televisione. Da cui (seconda espressione)televisione+carta=free press. Varcato il confine a fatica si entra in vagoni che sono uno sfogliare di ali di farfalla. Un minuto, un'idea, delle idee. Una cultura veloce ma efficace. E forse anche la costruzione (economica cioè gratuita più lo sforzo della vista) di una serie di certezze, sucurezze, sicumere.
Di Carvelli (del 28/07/2006 @ 11:27:30, in diario, linkato 1616 volte)
Da www.giugenna.com
Genna su La Porta: fiction vs faction
Sul Corriere della Sera, pochissime righe a supporto dell'articolo che celebra Luoghi comuni di Pino Corrias: ne è autore Filippo La Porta che, nuovamente, si schiera per la schiavitù della letteratura alla cosiddetta "realtà" e contro l'immaginario. La risposta dell'autore del Dies Irae, Giuseppe Genna [a destra nella foto; a sinistra, Filippo La Porta].
• CARO LA PORTA, LA TUA REALTA' NON E' LA MIA. E NEMMENO LA LETTERATURA di GIUSEPPE GENNA
Poiché la critica vera è quasi morta, rappresentata ormai da grandissimi intellettuali come Citati Cordelli Siciliano Canali Mengaldo, dovremmo accontentarci della critica giornalistica? Su questo punto non ho il minimo dubbio: sì. La critica letteraria, sui giornali, accenna, grazie alla capacità di lettori professionali, a suggestioni intorno a un libro, e divulga affinché il libro venga letto. La critica vera, invece, non è critica: è teoria della letteratura o non è. La teoria della letteratura non ha praticamente rappresentanza sui quotidiani o sui mezzi di comunicazione e, da scrittore di ormai lunga navigazione nel cosiddetto "àmbito editoriale", è circa un ventennio (diciamo dalla fine di Alfabeta) che ravviso la pubblica assenza di teoria della letteratura su media massivi (discorso altro, ovviamente, per i libri: ne escono, e di ottimi). Soltanto gli intellettuali di cui ho fatto i nomi sopra sono recentemente intervenuti (e recentemente vale qui per un periodo, diciamo, di cinque anni: il che è tutto dire) con potenza e profondità, per aiutare gli scrittori a chiarire le tenebre in cui sono immersi nell'affrontare il presente. Ogni tanto, però, non si sa come, qualche eccezione sfugge al monolitico discorso del presente mediatico: appaiono brevi pareri che hanno tutto il tono di dettami iscritti nell'ordine di una teoria della letteratura. Come il pezzo di spalla, oggi su Corriere, alla recensione entusiastica a Luoghi comuni di Pino Corrias. Un libro che esce in questa collana, 24/7, e che, va detto, ha tratto in inganno il titolista del prestigioso quotidiano di via Solferino. Il titolo del pezzo sul libro di Corrias è infatti Il romanzo italiano si rimette in viaggio, mentre a rimettersi in viaggio è un giornalista e un narratore come Corrias, che non ha scritto nessun romanzo, bensì una raccolta personalissima di reportage letterari e per questo assai significativa e interessante, capace di coniugare l'occhio clinico di Capote e la pietas di Piovene. Il titolo dà comunque la stura a un brevissimo elzeviro di Filippo La Porta, che non è un teorico della letteratura, bensì un critico direi generalista, il quale stende un non tanto orfico decalogo (anzi: un monologo secco) il cui sunto è: che gli scrittori italiani contemporanei scrivano faction, la letteratura è avulsa dalla realtà, si metta a inseguire la realtà e la racconti. E' una posizione bennota di La Porta, soprattutto per chi nei mesi scorsi ha frequentato la Rete e le polemiche letterarie esplose nella blogosfera. Posizione da cui mi permetto di dissentire e alla quale rispondo, con tutta la stima che porto per un intellettuale intelligente come Filippo La Porta. Quando si prendono posizioni come quella pronunciata da La Porta, si deve essere cauti, perché si è nel regno della teoria della letteratura, che ha il suo cominciamento nella Poetica di Aristotele e non può scendere al di sotto dell'asticella fissata dallo Stagirita. Altrimenti, si tratta di opinioni: e non è che le opinioni non costituiscano realtà - la realtà essendo fatta di opinioni, anche, e non soltanto di fatti sociologicamente trattati dal regime mediatico, che sarebbero il cerchio di realtà a cui La Porta si ispira, suggerendo a me e ai miei colleghi di inseguire tali fatti e metterci tutti allegramente a inventare il meno possibile, perché l'invenzione è una fola, un immaginario, capace di farti espellere da viscere ambigue romanzi fluviali a ogni stagione. Magari ci fossero più romanzi fluviali a ogni stagione, caro La Porta! Romanzi fluviali alla Wolfe, alla Mailer, alla Roth quando è fluviale, alla Ellis, alla Houellebecq! Gente che, la faction, l'ha fatta quarant'anni orsono (Mailer e Wolfe, soprattutto - dico il Wolfe non tradotto in Italia) e che si è convertita al romanzo puro, al romanzo che, attraverso l'immaginario, scruta le pieghe della storia. E quando fa faction, come il Houellebecq di Lanzarote, è chiaro che la usa come prodromo per la grande narrazione, in questo caso de La possibilità di un'isola. Per fare teoria della letteratura bisogna avere una solida conoscenza della filosofia, che, in quanto solida, ha talmente saturato i processi sinaptici, da costituirsi in visione del mondo: in visione della realtà. Il problema della posizione enunciata da La Porta è infatti di ordine filosofico: a quale realtà dovrebbero ispirarsi gli scrittori? Che realtà ha in mente La Porta? Dovrebbero i narratori inseguire crimini o grandi fatti? Non insegna nulla il fatto che nessuno tra i grandi scrittori americani si è messo a scrivere un romanzo esplicitamente dedicato all'11 settembre? La Porta sembra convinto che la realtà sia mediata: una falsità filosofica, perché nulla media la capacità d'essere e, quand'anche la rappresentazione mediale influenzasse la capacità di sentire e pensare, resta il fatto che gli scrittori non seguirebbero questa strada: non giocherebbero la partita mettendosi a rincorrere, sul piano del racconto, la realtà che altri mezzi, cronachistici o analitici in maniera indecente e superficiale, sanno raccontare con immagini e retoriche preformattate (come la tv che, rubata la retorica alla letteratura, va in crisi perché, dopo un po', la retorica non basta più: serve l'immaginario). La realtà non è quella a cui pensa La Porta e sfido l'amico Filippo a elencarmi una lista di dieci autori nel mondo che fanno quanto dice lui che dovrebbero realizzare gli italiani contemporanei. Forse Ellroy con il suo ultimo, splendido, Jungletown Jihad? Ma lì siamo ad altezza Burroughs, se non ce ne fossimo accorti. Quali sono le faction che stanno costruendo l'immaginario? Non certo quelle di Carlo Lucarelli, che va a mettere le mani nel fango per portare alla luce un immaginario storico di cui non si sapeva nulla (o se ne sapeva, ma in pochi) e che riesce nel miracolo di compiere l'operazione non con furia, ma calma oratoria. E non certo la congiuntura settantina di Romanzo Criminale di De Cataldo o dell'ultimo Arpaia: romanzi, per l'appunto, fluviali, ispirati certo a una realtà storicizzata (e la storicizzazione è comunque una mediazione mentale: non tanto diversa dalla catodizzazione dell'evento...), ma devianti secondo canoni di cui solo la letteratura vera dispone. Però, forse, quelle poche righe di spalla in una pagina del Corriere sono quello che sono: un riassunto troppo limitato di quello che negli elzeviri della Gazzetta dello Sport si definirebbe "il La Porta-pensiero". Bisognerebbe concedere a La Porta uno spazio maggiore, per giustificare a dovere cosa pensa che sia la realtà e per difendersi dall'amichevole accusa che gli muovo: cioè che la realtà a cui lui pensa è già di per sé il nemico della letteratura, l'ostacolatore - la realtà mentalizzata e mediata, non la possibilità infinita dello scatenamento a cui conduce l'immersione della storia nell'immaginario della letteratura.
Di Carvelli (del 31/07/2006 @ 09:02:34, in diario, linkato 1398 volte)
Non sempre=mai. Qualche volta=sempre. Adesso=fra un po'. Domani=un giorno. Ognuno crea una sua tabella di riferimento. La sua e la sua con un altro. Con altri. Una tabella è in definitiva una taratura, un puntamento. Ognuno è poi costretto (ad altri che cambiano) a riconsiderarla. Piccole modifiche. Leggeri riposizionamenti generati da un puntamento e una taratura diversi. Come è più corretto? Non cambiare o cambiare in base alle circostanze? Il peccato più grave è la fissità ottusa o la aleatorietà? O esiste una gradazione anche qui?
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