Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Vivo e mi dimentico. Non mi ricordo. Certe cose pare che (mi) succedano sotto uno smaterializzatore. Non puoi negare che quella telefonata, quell'incontro, quel frangente sia accaduto eppure ha l'aria nebulosa e vaporosa che hanno i ricordi lontani. Forse sto vivendo in un ritardo di anni o in un anticipo. Non so. So che vivo senza presenza. Ero distratto mentre succedeva quello? O era quello a essere distratto, proprio quella cosa lì ad esserlo, distratta? Qualcuno di noi - io o le cose - ci siamo e non ci siamo. Preferisco credere che sia io. Faccio meno fatica e posso sperare che cambi ma, certo, anche le cose potrebbero fare meglio, no?! Eppure, alle volte, penso che molto sta accadendo di notte, nel sonno. Magari solo la compilazione, il completamento, la definizione delle cose che il giorno solo accenna, abbozza. Insomma: sto vivendo una vita onirica? Chissà. C'è vita nei sogni? Ora mi metto buono.
Cosa resta, cosa cambia, cosa resta, cosa cambia? Come un m'ama non m'ama. Sfoglio l'infinita lista delle possibilità e delle impossibilità. Te che non mi conosci e mi chiedi. Io che non ti conosco e confronto. Te che non mi riconosci. Io che so bene ma non so spiegare. Tu che mi conosci e non sai più chi sono e chi sei. Figurarsi io. Tu. Io, tu, io, tu. Tu.
Mi sono sentito quasi imporre di ripensare alle parole. Quanto sono diverse quelle che stanno in questo rettangolo da quelle che stanno nelle pagine dei libri, dei libri pubblicati. Quanto mi rappresentano quelle e quanto queste. E' la stessa la mano? "Il medium è il messaggio"? O - come ho visto scritto in un libro di una classe che andavo ad esaminare come membro esterno di commissione di maturità - "il medium è il massaggio" (GIURO!)?
Scrivo per una dispensa
Scrivo di me. Scrivo per me. Scrivo di te. Scrivo con me. "Scrivi di me?". Scrivo con te. Scrivo. Anche oggi ripeto la tabellina dell'uno. Non c'è la tabellina dell'uno!, dici. Forse no. O forse è come quella del due, meno uno. In tutti i casi scrivo, dall'alba al tramonto e ancora. Senza penna e senza tastiera. Registro immagini e parole che ora non so dove metto. Le lascio tutte lì, in quella dispensa da cui domani farò arrivare un piatto caldo o freddo sulla tavola a cui mi nutro. Stanno lì per ora. Niente di riconoscibile, certo. Stanno lì come una sicurezza per i giorni di magra. Per i giorni di magro, che io ci creda o no ai giorni di magro, che io l'osservi o no questa dieta dello spirito. Delle parole. Scrivo. Per una dispensa.
Di Alina Marazzi avevo visto e apprezzato il precedente film-documentario (una ricognizione sentimentale in un dolore alleggerito da un amore saggio per comprensione del senso della vita e necessità di dialogo a distanza, di pace virtuale), con in più la felice scoperta di una particolare coincidenza musicale che qui non dico. Una coincidenza che mi aveva sorpreso e mi aveva reso tutto molto famigliare. Venerdì sera in una sala romana ondeggiante di gialle mimose e post manifestazioni, ho visto VOGLIAMO ANCHE LE ROSE e la sorpresa è stata doppia. Uno perché è un film intelligente (senza per questo rischiare di apparire furbo) e utile (che uno di questa storia ne sa sempre meno di quello che merita, specie nel nostro Paese) ma (seconda sorpresa) perché è un film freddo. Qualcuno ha riso durante (troppo forte la tentazione del fuorimoda), dovrei dire "qualcuno ha riso distante", qualcuno si sarà pure indignato ma poi alla parola FINE (c'era la parola FINE?...c'è la parola FINE nel genere in parola?) è piombato un gelo. Un ghiaccio spesso da cui tutti siamo usciti muti. Neppure ci ha emozionato il timing di questa truce storia della condizione femminile. E via: ognuno per la sua strada. Eravamo intirizziti davvero. E lì a chiedersi: è giusto? E' effetto voluto? Fa un buon servizio non suggerire emozione...in questo caso, almeno? Cercare una facile soluzione ad effetto a questo male non necessario è un segno di giusta distanza? Sono domande a cui ancora non rispondo. Ma mi fa pensare come a una mano che uno/a pur di gradevole aspetto e modi gentili ti porge molla e ghiacciata...poverocristo che colpa ce n'ha se c'ha quella circolazione lì...eppure. Ci penso un altro po'.
Siamo stipati come sardine in un cargo bianco, un enorme parallelepipedo a croce di cemento e vetri. Il cemento è bianco. I vetri si aprono a compasso ma poco, come deflettori. L'aria rimane per l'intero giorno la stessa. Ci aggiungono alito di cipolla, microbi e febbri i colleghi. Questa è la condizione - un tempo avrei detto "giovanile" ora non più. Questa è la condizione: difendersi dall'inquinamento con accurate ma rare fughe all'esterno. Questa è la condizione lavorativa. A sera un ottundimento pieno di spossatezza. Il cervello è fermo, il corpo è vinto. Siamo la quintessenza di una tortura sobria e ben pagata. Ne verremo fuori tardi e male. Deve essere questo che chiamano "pensione anticipata". Au jour d'ui.
Di Carvelli (del 11/03/2008 @ 14:40:33, in diario, linkato 1727 volte)
Leggo questa poesia di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, un poeta tra Ottocento e Novecento di aerea lunigiana...ingiustamente dimenticato. Di lui come di Sinisgalli (di cui ora apprendo si sta rimettendo mani al vuoto di questi trascorsi anni bui) si parla sempre meno. Ecco dei suoi versi.
Quando ci rivedremo il tempo avrà nevicato sul nostro capo, o amore: avremo quasi passato il mare, e sarà il cuore più sincero e pacato.
Quanto dura il risveglio? La risposta è: cinque minuti per spegnere la sveglia, trenta per realizzare che è ora di scendere. Altri dieci per scendere dal letto. Altri venti per decidere di uscire dal bagno (o entrarci). Altri dieci per mettere su il caffè. Altri dieci per decidere se prendere altro oltre ai biscotti. Altri dieci per fumare un sigaro. Altri cinque ancora il bagno. Altri trenta per decidere come vestirsi (e poi vestirsi e poi vedere se va bene). Altri due che ti ricordi una cosa, due un'altra, due una terza. Cinque il cappotto, cinque la sciarpa. Cinque più cinque lo zainetto...Quanto fa?
Di Carvelli (del 13/03/2008 @ 10:05:43, in diario, linkato 5378 volte)
Stamattina ho letto un racconto di Kafka. Il titolo è Un digiunatore (nella mia edizione) ma scopro che l'originale tedesco è Un artista della fame. Non so il tedesco ma per chi lo sa: Ein Hungerkünstler (fatevi aiutare a pronunciarlo, farò altrettanto). Ah questa mania del "cambio di titolo"! Ho letto questo racconto dopo colazione, a stomaco pieno, ma non ho sentito i morsi della fame. Sarà perché Kafka scrive tutto dentro e quel fuori che mai manca (non è scrittore di sensazioni Kafka) è una specie di correlativo oggettivo. Ho letto e ho pensato a quella sgradevole opportunità che è la nostra vita quando viene vissuta come esplicitazione di un'abilità - vogliamo dire "inutile" in questo caso? - non riconosciuta se non nel breve di un tempo che poi svapora. Ah quanto ci sarebbe da dire! Quindi l'ho letto come un racconto sulla transitorietà delle mode? Non tanto: più come un racconto sulla facile dimenticanza dei tempi, sul declinare delle attenzioni (fin quando si diventa, un inciampo che separa dalle stalle il pubblico pronto ad osannare le belve in gabbia). A vederla con un po' di serenità: ha senso forzare la naturalezza, costringere (per quanto il digiunatore in ultimo ci riveli una scarsa attitudine al gusto appropriato per lui del cibo) le proprie capacità allo sguardo secondo di un ammiratore (chiamasi amore, chiamasi considerazione lavorativa, approvazione censoria)? Forse no. Però. Ho pensato a Boris Pahor (che pure sta conoscendo in vita la giusta considerazione) e, ancor più anche se non lo conosco, a Carlo Coccioli di cui ultimamente sento parlare e parlo. Eppure alla fine mi trovo a pensare sempre e solo alla morte. Ma non come a una cosa un po' triste, tipo i calzini bucati, i maltagliati che si sono ammuffiti, la maniglia che non chiude più (reali correalativi oggettivi di un mio presente). Come una cosa che completa tutte quelle che capisco e vedo.
Questa foto (qui la vedete dimezzata) era ieri sul Corriere della Sera ma questa è la matrice. Da qui vine, da questa copertina. La foto fa il verso a un'analoga di Lance Armstrong che non metto e me ne scuso con lettrici interessate. Metto questa e mi spiace non nella versione totale e mi spiace per questioni anatomiche (anche se non ci crederete). Mi spiego. La bellezza di questa foto è determinata dal curriculum della suddetta Pendleton. E il suo corpo - la perfetta combinazione di tessuti muscolari ecc - è il suo curriculum. Questo mi piace. Anche se so che molte colleghe della su rappresentata avranno stesso CV anatomico e palmares minore. Perché quello che non si fotografa (qui e altrove) è quello che c'è dentro. Eppure, qui come altrove, sembra di vedere qualcosa che non si vede ad occhio nudo (mi scuso per l'aggettivo coincidente). E dunque? E dunque questa sembra la foto di un meccanismo perfetto di mezzo (il corpo e la sua propaggine balistica in forma ciclistica) e intenzione. O sarà un'impressione?
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