Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Giorni fa una mia amica mi ha chiesto di interrogarmi sulla particolarità del suo ufficio, degli uffici, del suo open space. Diceva: "Sai, alla fine si finisce per entrare in confidenza più con quelle persone che con i mariti, le mogli, compagni, compagne". Spiegava così delle curiose situazioni affettive, alcune pure adulterine. "Non riesci a immaginare...è come una bolla dentro la quale siamo altro".
Domenica una mia collega (domenica+collega=amica), domenica una mia amica che lavora con me contestava la dizione "collega" e a ragione. Dove inizia la "colleganza" e dove finisce? In effetti ci siamo detti che anche noi - certi noi - hanno creato smisurate (non se ne prendono le misure con facilità) linee di contatto. Difficile immaginare dove potrebbe portare tutto questo. Intanto a un gioco. Uno dice un nome e l'altro risponde: amico, collega, X.
Ieri X mi ha chiamato (ramo non ufficio ma collegato a una omologa smisuratezza di legame - diciamo di fede - che deborda verso una particolare amicizia). Era mezzanotte e dovevo a tutti gli effetti già dormire anche se sul divano, anche se vestito, anche se con un libro in mano. Diceva che aveva fumato, pippato, bevuto. Stava chiaramente fuori. Mi ha detto "non so perché chiamo te". Non lo sapevo neppure io ma i sospetti mi portavano sulla stessa strada di tutto quello su cui mi invitava la mia amica a riflettere anche se X è omosessuale e io no, anche se questa è amicizia e nulla più. Anche se in tutti i casi non è poco.
Che si finisca per essere altro. Che si finisca per volersi bene, in qualche caso per desiderarsi. Che si tenda a decidere che tutto questo abbia un seguito notturno o domenicale. Che tutto questo si leghi all'amicizia o all'amore. Che tutto questo non si riesce a spiegare. Dicevo, non ci piove. E, in effetti, ancora non piove. Ma è nuvolo e sarà bene prepararsi. Pioverà. Prima o poi.
Ho comprato in superofferta (2euro per salvarlo dal macero, era il progetto) al Salone del libro di Roma Quando scriviamo da giovani di Antonio Franchini di cui ho letto quasi tutto ma non questo. Leggendo la post-fazione in cui l'autore parla del "rileggersi" a distanza di tempo degli scrittori, del trovarsi migliori o peggiori di quanto ci si aspettasse rimugino sul grande senso critico e/o non critico che muove l'atto creaturale della scrittura. Ripeto l'esperimento su di me. Questo racconto La cartolina uscì quasi quindici anni fa su Rendiconti rivista diretta da Roberto Roversi.
La cartolina
di Roberto Carvelli
Fu una cartolina ad annunciarci il tuo ritorno. Eri partito qualche anno prima lasciando me, mio fratello e la mamma soli.
Te ne eri andato nervoso, senza bagagli, all'improvviso. Nessun altro motivo se non la tua inadeguatezza alla vita insieme. Ognuno di noi aveva coltivato il sospetto della propria colpevolezza ma senza parlare per non rinnovellar dolore.
La mamma aveva rinunciato al lavoro a tempo pieno della casa per accettare un posto di segretaria contabile in uno studio medico, facendosi apprezzare per il suo spirito organizzativo e la sua mente pratica: tutte qualità che ti eri ostinato a negarle. L'avevano presa presto a ben volere ricompensando la sua dedizione all’impiego con una generosità non comune.
La mamma era ingrassata molto, o per trascuratezza o per nervosismo, ma manteneva il suo solito sorriso sereno, quell'aria pacata alla quale sempre più spesso ci saremmo affidati per non sentire il peso della tua assenza.
A noi non era mancato nulla. La scuola andava bene per entrambi e a luglio ed agosto finivamo lo stesso in case di villeggiatura ospiti di zii premurosi e compagni di gioco di cugini mica poi molto più felici di noi. Al contrario, l'estate ci faceva sembrare anche più gioiosi. Forse quella libertà dello stare fuori dal raggio di occhi troppo controllori – mamma rimaneva spesso in città e ci raggiungeva solo dopo aver completato la gestione del gabinetto medico - ci incoraggiava ragionamenti sulle cose, ci spingeva a scegliere e sbagliare e poi a riparare ai nostri piccoli errori.
Poi ad agosto la mamma: mai stanca del tutto, sempre con quella energia inesauribile dell'amore. Il tempo e la separazione non l'avevano resa mai rabbiosa o scontrosa neppure nei tuoi riguardi.
La cartolina recava il timbro postale di Torre Canne ed era datata 6 settembre. Con una grafia molto elegante avevi scritto in perpendicolare alle righe dell'intestazione ed in corsivo "Torre Canne 6 settembre". Scritta e spedita nello stesso giorno. Forse avevi rimuginato la notte intera su quella scelta e al mattino, molto presto, per lo stupore del tabaccaio avevi affrancato e infilato in una cassetta rossa forzando il cigolio dello sportello TUTTE LE DESTINAZIONI, un invito a soli invii extra-urbani che distingue i piccoli centri dalle città. Qualche solerte funzionario pugliese l'aveva timbrata. Uno di quelli che lavorano solo nei periodi di vacanza e poi se ne stanno quasi inoperosi per il resto dell'anno.
Comunque si intuiva che i tuoi ragionamenti insonni non avevano riguardato la sostanza sentimentale di quel gesto ma si erano dedicati unicamente alla opportunità di compierlo come obbedendo ad uno sbalzo di temperatura del rimorso.
Ci salutavi così:"Cordiali saluti. Papà".
Erano passati tre anni silenziosi dalla tua partenza e il contrasto di quel saluto freddo, imbarazzato, formale strideva al cospetto della continuità famigliare del "papà". Qualcuno di noi nelle discussioni che seguirono avrebbe detto che papà non lo si è per diritto ma bisogna meritarselo e aveva criticato quel tuo proporti per un ruolo che non eravamo più disposti a riconoscerti. Assolutamente.
Eravamo crudeli in quei giorni, ma per difesa.
Io corsi a consultare l'enciclopedia e, scoprendo l'assenza della località da cui risentivamo la tua voce dopo tanto mutismo, immaginai chissà quali misteri. Avevo dodici anni allora e queste sparizioni erano motivo di curiosità infinite. Il tuo pesar le parole poi non giovava affatto al nostro fedele ignorarti.
Cercando su una vecchia guida foderata di stoffa rossa dell'Italia meridionale scoprii che Terme di Torre Canne era in provincia di Brindisi, una stazione idrominerale e località di bagni di mare in sviluppo. Un unico albergo, Terme, il tuo, aveva 99 camere con 8 bagni, era senza termosifoni con stabilimento termale annesso e parco. La Torricella e l'Antesana erano i nomi delle due fontane da cui sgorgava acqua cloruro-solfato-sodica usata per bevanda ed indicata per le affezioni del fegato, delle vie biliari e per l'uricemia. L'indicazione "stazione maggio-settembre" ebbe l'effetto di una conferma lapidaria di una tua, per me nuova, adeguatezza temporale. Mi fece sorridere invece la prevedibilità di quella sproporzione dei bagni, pochi, al cospetto di tutte quelle stanze e ti immaginai di notte, nei tuoi pigiami, pantalone e giacca abbottonata di cotone azzurro o beige ad attraversare corridoi bui, cercando a tastoni i punti rossi dei relè. Non ebbi dubbi sulla ragione della tua presenza lì: si erano riacutizzati i dolori al fegato a seguito di chissà quale monogama e distratta dieta alimentare o di fiaschi da due litri di cantine sociali senza controlli d'origine. Non eri tipo da mare tu, né eri tipo da accompagnarti con gente di mare e non eri neanche accompagnato. Almeno credo.
L'immagine della cartolina raffigurava un portico di quattro file di pilastri quadrangolari lisci con bordi stondati come si usava in quegli anni preferendoli agli spigoli e ai tatuaggi delle annodature del legno delle tavole sul grigio freddo del cemento.
In alto da feritoie forse protette dal vetrocemento filtrava la luce intensa di un cielo bianco di sole. Al fianco di queste dei neon e degli altoparlanti sospesi promettevano serate danzanti ed orchestre di liscio. Fuori da questo spazio coperto il verde intenso di un bosco fitto nel quale era difficile fare distinzioni di alberi. Davanti - in basso nella foto e a destra - un'aiuola di modesti fiori fucsia con dei pitosfori potati ad albero dal tronco nudo e sottile e una testa non troppo rigogliosa. Sedie di ferro arrugginito e formica di quei colori tenui, azzurro verde-acqua o rosa pallidi da refettorio, naufragavano nello spazio dell'inquadratura e avevano abbandonato tavoli di un identico pallore seguendo il filo di quelle conversazioni che, iniziate in forma confidenziale, finiscono per coinvolgere molte opinioni diverse. Attorno ai tavolini, degli assembramenti più ordinati di giocatori di carte napoletane si erano eclissati dagli altri.
L'immagine era stata scattata da un fotografo il cui occhio aveva incontrato gli sguardi di questi vacanzieri che ora osservandolo incuriositi lo indicavano. La cartolina ce li mostrava in vestiti puliti ma dimessi. Avevano le facce del meridione povero che si meraviglia di sé. Senza volerlo veramente si erano messi tutti in posa ma ognuno per conto proprio, senza legami con gli altri come davanti ad un giudizio universale, individuale.
Due uomini, entrambi canuti, ma di corporatura diversa - l'uno breve e fino, le spalle abbassate di chi ha molto sostenuto, l'altro panciuto e dritto con l'aria vincente di chi ha fatto molto sostenere agli altri - puntavano un sorriso ambiguo e l'indice contro l’obbiettivo. Guardandoli veniva da pensare a parole come cavaliere, comare. Ruoli.
Si trattava di un'immagine estiva se giudicata alla luce delle camicie a maniche corte degli uomini, dei vestiti sbracciati delle donne, delle borse di paglia appoggiate qua e là sulle sedie vuote.
La cartolina era per stomaci semplici, per saluti di secondo piano o ridimensionamenti. In questo caso l'aria informale non giovava. Al di là dei riceventi, lo stesso hotel reclamizzato non vi compariva se non in una prospettiva parziale e comunque in modo non edificante. La stessa comitiva di villeggianti nei loro visi sorpresi, segretamente indispettiti o indifferenti, non rendeva alla felicità del soggiorno né la modestia dello scenario incoraggiava divertimento. D'altro canto, l'aria confusa di quei diversificati assembramenti - i giocatori di carte, le donne in circolo conversatorio, il gruppo additante il fotografo, le sedie abbandonate scompostamente - comunicavano un senso d'irrequietezza non particolarmente allegro e inadatto al riposo termale. Spontaneità era una parola bella ma non da fotografare e reclamizzare.
Che avremmo dovuto pensare di quel tuo soggiorno? Che eri malato? Che eri in un posto in cui non c'è nulla di cui divertirsi?
Lo pensammo anche ma alla fine concludemmo che la completa assenza di gusto estetico ed etico di quelle foto aveva sposato la tua insensibilità, il tuo senso del risparmio. Probabilmente avevi sottratto la cartolina al banco accoglienza del hotel con il tuo candido "si può prendere?!"
Facemmo molti pensieri negativi perché non credevamo più nella tua possibilità di renderci felici: non eri felice tu, né mai lo saremmo stati noi con te.
Ricordo poco di quelle discussioni. Eravamo tutti nervosi e ci aiutò pensare che mai avremmo dovuto riaccordarti la nostra fiducia. Andammo avanti faticando orgogliosi del nostro farcela da soli, contro di te.
La tua cartolina l'ho ritrovata in mezzo a LA STORIA di Elsa Morante che era il libro che leggeva la mamma in quei giorni. E' un libro importante, di amore materno. Dal segno che teneva la tua misera cartolina, circa ai due terzi della lettura, il seguito sembra intonso come se la mamma, solitamente rispettosa fino alla fine dei suoi impegni di lettura, avesse interrotto lì. Mi piace pensare al contrasto tra la ricchezza d'intimità di quelle pagine e la freddezza del tuo segnale di esistenza. Credo che la mamma avesse capitolato davanti a questo stridore e più che pensare tormentosa alla letteratura che non dice il dolore della vita avesse preferito annullare un contrasto. E nulla più.