Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Anche se costa fatica andrebbe scansata la rabbia come la peggiore nemica della nostra pace. Un modo, alla fine, per non dimenticare mai. Per continuare a provare pena; è per questo che penso a quanto siano pericolose per i parenti delle vittime le commemorazioni. Davvero serve ricordarsi che si è lì non per il passato ma per il futuro. Ed è un proponimento non facile da mantenere nel tempo e nel dolore.
Da Elogio ai ricchi di Marina Cvetaeva. "dichiaro: amo i ricchi!/ Per la radice loro, putrida e precaria,/ che dalla culla coltiva una piaga,/ per quell'imbarazzata abitudine:/ fuori dalla tasca e daccapo in tasca./ Per la silenziosissima preghiera delle loro labbra,/ eseguita come una gridata ingiunzione./ E perché non li fanno entrare in paradiso,/ e perché essi non ci guardano negli occhi."
Il regalo più bello che non ho ricevuto sarebbe dovuto arrivare per posta aerea per il mio compleanno. Era stato spedito da fuori Italia ed era il dolce fatto in casa per il mio compleanno. Cucinato in un’altra casa e mangiato in casa mia (da me). Non proprio in linea con il chilometri0 ma era un pensiero bello. Partito il martedì doveva arrivare il venerdì. Ma, come detto, non è giunto. Dunque: 1) il dolce l'ha mangiato un postino goloso (che suona tipo il delfino curioso della pubblicità ma se lo becco lo schioppo); 2) all'ufficio postale ci hanno fatto merenda; 3) nelle operazioni di imbarco-sbarco qualche scaricatore dei due aeroporti ha fatto un break; 4) il concetto topo, sì il concetto topo ovunque quel plico stazionasse in attesa delle mie fauci. Considerazione finale: il mio regalo di compleanno è stato un invito alla dieta. Riuscito e naturale. Con febbre tosse nausea eccetera eccetera. Ma il pensiero va detto era dolce, davvero.
Alla fine è arrivato il mio birthday cake. Quando meno me lo aspettavo eccolo lì. Anche se oggi non è più il giorno e io continuo a stare modestamente male. E' arrivato in una busta gialla e senza costringermi a trovare qualcuno che me lo andasse a prendere all'ufficio postale che io di uscire proprio non se ne parla. Lì in mezzo al giardino. E' arrivato in tempo per dire che le cose belle sono anche buone e sono quelle che costano un certo impegno. Che io, se ci penso, continuo a reputare immeritato. Ma tant'è.
Mai come questo Natale ho ricevuto regali belli. E utili. Non ho avuto la sensazione del riciclo che pure sarebbe potuto essere, stante la crisi, materia dell'economia gestionale natalizia. E invece, a conferma della proporzionalità inversa tra crisi e valori, così non è stato. Cito da un libriccino piccolo ma ricco di spunti che ho ricevuto. Un piccolo diario-intervista del grande poeta Andrea Zanzotto. Il titolo è Ascoltando dal prato (interlinea). Scrive Zanzotto. "L'idea capitalistica del Pil che dice che tutto deve crescere porterà al disastro, mentre la legge della natura prevede una nascita, una crescita e un declino. E' una cosa immonda che non si diano notizie su quello che sta accadendo. Tutti cercano di dimostrare che possono sopravvivere. Sopravvivono i più forti e i più stolti. La fabbrica del cretinismo del mercato domina su tutto e i pubblicitari sono dei cinici spaventosi". Poi dicono che i poeti dovrebbero occuparsi solo di poesia! Non sarebbe più saggio chiedere agli economisti di occuparsi di poesia?
E vissero felici e disgiunti di Roberto Carvelli
Ogni volta che ci passo davanti quando è domenica mattina o una qualsiasi sera penso a tutti quelli che varcheranno il giorno dopo questo portone in procinto di decisioni definitive, carichi di attese interminabili. Penso in particolare alle coppie. A tutti quegli ex-mariti o mogli che passeranno attraverso questo arco per concludere per legge quel che avevano iniziato per scelta e passione. Mi immagino tutto il bagaglio d’amore e disamore messo insieme negli anni che dopo averlo aperto e riaperto all’infinito domani finirà chiuso per legge. Ma penso pure a quante altre volte soli o in compagnia ricreeranno il loro immaginario processo fuori da queste aule di viale Giulio Cesare 54 b. E sorrido al fatto che la via ove ha sede il tribunale sia stata intitolata a un grande stratega-guerriero. Lo sapranno che tutto quello che domani succederà in una delle infinite salette di questo palazzo chiuderà solo una parte – tutto sommato anche la meno ingombrante – di questo bagaglio di gravità? E mi rispondo di sì, che lo sanno. E a saperlo sono in tanti. Separazioni e divorzi sono sempre più comuni. “Quel che dio ha unito...”: non finisce più come una volta la formula dell’inseparabilità coniugale. Ne sa qualcosa l’avvocato romano Maria Luisa Missiaggia con studio in via Veneto nel cuore della ex Dolce Vita. Ho chiesto a lei se crede che sarà dolce la vita di chi si lascia? Lei crede di sì se... “Se, come cerco di comunicare noi tecnici avvocati supportati da psicologi sociologi forniamo sempre più tecniche alternative al conflitto invitando la gente ad iniziare un percorso conciliativo, le persone smettono di vedere la separazione come la panacea dei mali considerandola un’occasione per rendere la propria vita di relazione più soddisfacente magari con un partner che la riconosca e la faccia sentire bene. La separazione deve essere il punto di arrivo non il punto di partenza di una coppia che ha deciso di dividersi. Facciamo corsi per tutto ma non ci educano ad andare d’accordo o a comunicare le nostre richieste in modo costruttivo. Tutto è frutto di un’esperienza di cui siamo carenti. Possiamo imparare a stare insieme come coppia e poi come genitori come se fosse un mestiere. Un concetto che non abbiamo più – che va insegnato ed imparato nella pratica”. Avevo conosciuto la Missiaggia nella preparazione del mio libro Amarsi a Roma. Le chiedevo se, per deformazione personale sua, fosse consequenziale immaginarsi una fase B del mio libro, “separarsi a Roma”, e abbiamo discusso di come e dove. “La cosa più macroscopica che sto riscontrando” mi aveva raccontato “è che la grande crisi economica spinge la gente a pensarci sopra un po’ prima di imbarcarsi nella disavventura di dover cercare due case, pensare al mantenimento e seguito. È per questo che io invito a intraprendere la strada della conciliazione, del concludere accordi e, se proprio la devo dire tutta, sono una fautrice dei contratti prematrimoniali e, per estremo, anche del matrimonio a tempo determinato salvo disdetta, che è un istituto presente in Olanda con la durata di due anni e invece assolutamente nullo in Italia. Non credo che depotenzino il sentimento forme di accordo, anzi lo amplificano. È più facile accordarsi in tempo di pace quando ci si ama che in tempo di guerra quando ci si vorrebbe eliminare a vicenda. Servono vie per la responsabilizzazione e non è da escludere che, in definitiva, sia una mancanza di cultura dello stare insieme quella che porta al separarsi. La gente si autoconvince di non stare bene e non accetta il cambiamento dell’altro quando non coincide con il proprio. È un fatto scientifico: la passione dura sette mesi, la serotonina scende e ci si vede per quello che si è. Se l’amore che stordisce finisce, e non c’è un valore dietro lo stare insieme, tutto muore”. Ripenso nel piccolo alla mia storia. A come sono arrivato a 44 anni scansando le scelte definitive, la paternità, la comunione dei beni. Mi domando se in fondo non sia nato tutto dalla paura di varcare quel portone di viale Giulio Cesare. Se sia stato incoraggiato dalla paura omologa di chi con me divideva il peso di quelle scelte. Un po’ razionalmente mi dico che forse se quel che poteva succedere non è successo non doveva succedere. Ma è un gioco del destino un po’ lasco. Mi dico che, in fondo, siamo sempre noi che scegliamo di scegliere e anche di non scegliere. Certo c’è un fatto generazionale: la convinzione politica o civile che non sia il contratto matrimoniale a garantire la felicità che magari non abbiamo visto trionfare nelle coppie che conoscevamo. Ma mi domando quanto questa cautela un po’ cinica abbia contraffatto la necessaria cecità che il fidarsi mette in gioco e quanto, quindi, il nostro (non) scegliere sia il frutto di una moda, di un’epoca. Metto insieme una casistica più felice, quella dei compagni duraturi, quelli che hanno retto negli anni gli scossoni e mi sembra di pensare che la loro resistenza sia fatta di grande tolleranza e, in molti casi, di un po’ di riusciti meccanismi apotropaici personali per vincere il rischio della fine. Lascio questa parte del quartiere Prati con il dispiacere di quelli che domani saranno lì dentro per mettere un punto definitivo alla loro storia fatta di passeggiate, coni gelati, pacchetti da scartare, finesettimana in Umbria, album o VHS del matrimonio, ricordi del viaggio di nozze ai Caraibi. Penso a quanti verrano a contaminarsi nell’aria marziale che questa parte di Roma conserva come un sacrificio necessario alla città e di quanto questo sacrificio possa averla resa una brutta foto dell’album immaginario dei nostri ricordi. http://www.paesesera.it/Societa/E-vissero-felici-e-disgiunti
Scrive Elitis: Ma ecco che cosa intendo con tutto questo/ che noi i vivi tra due pericoli/ neppure importanti scioccamente dimentichiamo:/ non è sempre più piccola la casa della montagna/ non è sempre più grande del fiore l'uomo/ sbagliate sono tutte le distanze/ che ci dà l'occhio e ingiustamente credo/ ci vantiamo dicendo/ 'questo è il mondo'.
http://www.paesesera.it/Societa/Una-cosa-toccante-che-non-faro-mai-piu-o-almeno-credoUna cosa toccante che non farò mai più (o almeno credo) di Roberto Carvelli
Il titolo, lo avrete riconosciuto, fa il verso al capolavoro di talentuoso umorismo di David Foster Wallace “Una cosa divertente che non farò mai più” (pubblicato da minimum fax). In inglese il titolo suonava così “A supposedly fun thing I’ll never do again”. E in quel “supposedly” (presumibilmente, apparentemente) c’è tutta l’improbabilità della premessa. Il racconto-reportage, inizialmente commissionato dalla rivista Harper’s, prendeva le onde più che le mosse da una crociera ai Caraibi ma l’estro stilistico elefantiaco del compianto David lo aveva reso un libro. In tutto e per tutto. E divertente per lo più. Una lettura che vi consiglio anche in questi giorni di triste attualità navale e vacanziera.
La cosa, più che divertente “toccante”, che ho fatto io sotto Natale è stato andare alla Basilica di San Pietro e mettermi in fila – non so se dalla foto si intuisce – da quasi la metà di un colonnato del Bernini per fare il giro completo del quarto di cerchio e arrivare a completare l’altro emiciclo per raggiungere i varchi. Lì, nonostante il freddo, ci siamo spogliati dei giacconi e li abbiamo passati al metal detector insieme allo svuota-tasche in quei giorni laborioso. Avevo infatti una quantità di spiccioli dei resti infiniti dei regali, viti da cercare in ferramenta, biglietti di appunti vari, telefono, due accendini (uno scarico).
Mi è sembrato assurdo mettermi in coda ma l’amica che accompagnavo non sarebbe venuta così presto a Roma e aveva detto, incoraggiante, “la fila scorre”. In effetti, non so quanto siamo stati ma non doveva essere troppo. La gente che stazionava con noi parlava tutte le lingue europee. C’era un gruppo di francesi un po’ caciaroni e giovani, due preti africani, una coppia lituana con tanto di bandiera sullo zaino e una famiglia allargata veneta che stigmatizzava i furbetti che gli passavano avanti evocando una fatale ora del giudizio. Tutti guardavano per sapere/capire quale fosse la finestra da cui si affacciava il Papa e gli è sembrata di riconoscerla in quella con le tende scostate. Ovviamente ho ripensato ad Habemus papam di Moretti e alla necessaria animazione di quella finestra. Attesa, scontata. Superati i varchi le cose si sono fatte facili almeno per noi che volevamo vedere la sola basilica e abbiamo guardato con un po’ di compiacimento quelli in fila per il museo. La chiesa, come molti di voi sapranno, è bella già dalla Pietà di Michelangelo subito lì a destra (anche se ormai lontana dalle turbe dei vandali). Ma per me è troppo sontuosa e barocca. Le preferisco altre più semplici come San Giorgio al Velabro, Santo Stefano Rotondo e Santa Maria Sopra Minerva (ne dico solo alcune).
Eppure San Pietro riveste un fascino universale. Un fascino, però, di cui non riesco a essere consapevole. Cioè: non mi dico mai “guarda che è come se stessi a La Mecca… ti rendi conto?” E no, non mi rendo conto. Come tanti romani, forse non ferventi, lo do un po’ per scontato questo pellegrinaggio. Poi quando sono dentro un piccolo orgoglio me lo faccio venire ma è breve. Devo subito andarlo a stipare da qualche parte per non farlo sparire in mezzo a quella aurea grandiosità. E allora cerco la tela nascosta, la cappella meno inginocchiata, la statua meno fotografata, il ritaglio di marmo sfuggito ai passi tutti in fila dei visitatori. Alla fine mi rifugio nella sagrestia. Leggo tutta la lista dei papi e conto quanto spazio è rimasto per incidere i nomi futuri; m’impressiono di quell’unico anno che marca il pontificato di Albino Luciani. La mia amica s’incuriosisce sullo stand di paramenti in attesa della (s)vestizione e dice le magiche parole italiane gucci, prada, dolce&gabbana che in inglese suonano confortevoli e compiacenti. Sorridiamo ma con compostezza anche perché ci viene richiesto di far passare prete e chierichetti al seguito che smontano da una funzione appena conclusa. In breve siamo fuori ma non so se per l’impreparazione alla visita non sento di aver subito quell’impressione toccante che poi, strano a dirsi ma zingarelli docet, viene dal francese touchant. Ecco non ho sentito la touche ma se ci fosse stata? Se uscendo da questo luogo avessi sentito il tremito, la scintilla di un qualcosa, come lo avrei comunicato? Religione e Ufo sono due cose che associo. Religioso lo sono (anche se non cattolico) e ho risolto nel dirlo solo in una comunicazione privata ma se avessi visto un Ufo come lo avrei comunicato? In questi giorni leggevo, a proposito, un articolo di Tommaso Pincio che raccontava di quando Kubrick credette di averne visto uno e di quanto si fosse tormentato prima di sciogliere scientificamente il suo dubbio e lo scrittore italiano si domanda cosa sarebbe successo se non avesse trovato quella risposta. Ecco: e se avessi subito quel tocco, che cosa potrei scrivere ora?
Ieri siamo andati a vedere Emotivi anonimi e, per diverse ragioni, non ci è piaciuto. La ragione comune è che forse oggi non è più il tempo per consumare (stante la crisi) con leggerezza x euri per un film che non ti cambia nulla. La mia ragione è che non mi piace vedere il pubblico ridere di una debolezza che è una malattia. L'altra è che, quando si annunciava questo film, ero portato a pensare che il tema "emotività sentimentale" fosse interessante. Quasi importante. Ora penso che è una malattia e anche poco romantica. E che se qualcuno di noi non riesce ad avere l'amore che desidera (per diverse e non tutte sane ragioni) ha un suo dramma dal quale la bonomia dovrebbe essere sottratta. Perdonate la durezza ma quello che non si realizza non c'è. Quello che non vogliamo che si realizzi è il punto della questione non la cosa in sé. Va poi detto che il film manca nel racconto di questa debolezza miscelandola con una forma poco plausibile di coraggio. Vale però la sigla finale. http://youtu.be/jdHJEBaERCU
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