Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Venerdì, contrariamente a quanto previsto inizialmente (vedere The road) venerdì ho mangiato una pizza con tre colleghe non mie. A loro ho riferito e qui a voi di uan cosa sentita due minuti prima per radio e che sto inutilmente ricercando in rete. Secondo lo studio di un eminente professore sarebbe più proficuo promuovere casualmente (uno sì uno no o con un altro criterio) che per merito. Infatti promuovendo, per dire, un bravo fattorino e smistandolo ad altro si otterrebbe di perdere il bravo fattorino magari non riuscendolo a sostituire. La serata, espresso questo concetto rivoluzionario (rivoluzionario?) è scivolata con grande allegria e senza trovare fine. Spesso un buon argomento fa più di una buona compagnia.
Aggiornamento: L'obiettivo del capo è migliorare i risultati aziendali? La risposta è distribuire ai sottoposti promozioni assolutamente «a caso», anziché per merito, competenze o conoscenze. Sembra assurdo, ma è tutto testimoniato: la tesi è il cuore della ricerca di Alessandro Pluchino, Andrea Rapisarda e Cesare Garofalo dell'Università di Catania, che hanno dimostrato per la prima volta con un modello matematico il «principio di Peter» enunciato negli anni '60, secondo cui «in ogni gerarchia, un dipendente tende a salire fino al proprio livello di incompetenza». Qualcuno storcerà il naso all'idea, di sicuro apprezzata dagli organizzatori del prestigioso IgNobel, che giovedì sera ha conferito ai tre italiani il premio «per il Management». «Abbiamo anche studiato possibili strategie per evitare gli effetti negativi del fenomeno - da Boston, dove si è tenuta la cerimonia di consegna del premio organizzato dalla rivista Annals of Improbable Research e sponsorizzato dall'Università di Harvard - Per quanto possa sembrare paradossale, una strategia che promuova ai ranghi superiori in maniera casuale sembra dare dei buoni risultati ed aumenta l'efficienza dell'organizzazione». www3.lastampa.it/costume/sezioni/articolo/lstp/347102/
Due delle opere teatrali più note e rappresentate di Samuel Beckett si aprono con la fine. In Aspettando Godot S.B. fa dire a Estragone in apertura "Niente da fare". Clov in Finale di partita principia con "Finita, è finita, sta forse per finire". Mi è rivenuto in mente leggendo l'intro di Antonio Tabucchi al libro su Marilyn Monroe Fragments che esce ora per Feltrinelli. Ecco un estratto che mi ha colpito.
Come sarebbe stata la storia se Marilyn, invece di avere quella straordinaria bellezza che la rese celebre per il cinema, fosse stata una donna dall' aspetto comune? Avrebbe pubblicato in vita quello che noi leggiamo ora e probabilmente si sarebbe suicidata come si è suicidata Sylvia Plath. E forse si sarebbe detto che come Sylvia Plath si era suicidata perché era troppo sensibile e troppo intelligente, e le persone troppo sensibili e troppo intelligenti soffrono di più delle persone poco sensibili e poco intelligenti e tendenzialmente si suicidano (questo lo sostengono gli psichiatri e le statistiche). Se le persone scarsamente sensibili e intelligenti tendono a far del male agli altri, le persone troppo sensibili e troppo intelligenti tendono a fare del male a se stesse: chi è troppo sensibile e intelligente conosce i rischi che comporta la complessità di ciò che la vita sceglie per noi o ci consente di scegliere, è consapevole della pluralità di cui siamo fatti non solo con una natura doppia, ma tripla, quadrupla, con le mille ipotesi dell' esistenza. Questo è il grande problema di coloro che sentono troppo e capiscono troppo: che potremmo essere tante cose, ma la vita è una sola e ci obbliga a essere solo una cosa, quella che gli altri pensano che noi siamo. *** Idolo nel senso etimologico della parola (greco eidolon, il doppio "aereo" di un vero corpo), Marilyn sembra fuori da se stessa, o accanto a se stessa, come se avesse un' aura a lei identica ma imprendibile, e lei coincidesse più con quest' aura che con il suo corpo. Una donna di una carnalità così gioiosa, con un doppio fatto d' aria per la malinconia.
Ho ripensato a un'idea che mi frulla per la mente ogni tanto. Ovvero se il suicidio sia da considerare l'estrema ratio (e uso ratio non a caso) di chi ha l'esatta percezione della fine in anticipo. Altri ci arrivano alla fine. Ma non per tutti i finali delle partite sono alla linea dell'orizzonte. E così anche in quella che chiamiamo vita. Per tutti è già detto tutto, già tutto. Prima (ma chi stabilisce i tempi?) che tutto accada. E anche qui: cosa è tutto? Chi ha la pazienza di aspettare la vera fine?
1. Esiste un genere di film di cui fa parte Inception che ho visto ieri. Il genere è "film il cui plot è enigmistico" e penso ai rebus. E infatti alla fine la gente che commenta è presa soprattutto dalla considerazione "ho capito" o "non ho capito". Nothing else. Eppur stiamo parlando di un film bello. Ben girato. Ben recitato (il solito bravissimo Di Caprio...anche se qui non brilla come altrove). Se dico "ben congegnato" devo per forza leggerlo nell'ottica del rebus. E nel tremore e clamore finale dei giovani vicini di sedie che dichiarano di non averci capito nulla. Ci sono parti belle. Quelle della rimozione del dolore, del senso di colpa: e qui parlo dei livelli a me congeniali. Mi è piaciuto - e parlo qui ancora di cose inessenziali, lo so - il fatto che per doppiare il giapponese ci sia un giapponese (italianizzato) al posto di quelle voci a macchietta che fanno apparire imbecilli gli orientali.
2. Non mi piace - e non dite che non ve nie siete accorti - il fatto che nelle riviste di moda (e parlo qui della Repubblica delle Donne, l'unico che incidentalmente mi trovo a sfogliare) le modelle vengono spesso disposte sul piano della foto (che sia un letto o un pavimento) come bambole snodate. Un braccio qua, una gamba là. Tutto in modi innaturali. Posture artefatte, come se per produrle fosse necessario un intervento esterno. La parola che mi viene in mente è bambolizzate. Qual è il sottotesto? Che in definitiva un corpo è un oggetto inanimato o animabile per vie tarocche. Irreali. Finte. Non mi piace.
Ho letto in breve tempo Acciaio di Silvia Avallone. E questo va a suo onore. Infatti il libro è ben scritto e congegnato nelle scene. Contrariamente a quello che mi era arrivato - tutti parlano male di questo libro e mi riferisco, soprattutto, a gente del mestiere e metto qui una nota* - il libro non è per nulla male. Un buon esordio per la giovanissima età dell'autrice e a prescindere, per la capacità di padroneggiare una struttura così articolata, complessa. Quello che non funziona è a monte e a valle ed è editoriale. A monte c'è un'invariabile e pervicace debolezza della nostra editoria per le storie molto sentimentali, gravemente sentimentali e parlo del tempo recente. A valle la scarsa disponibilità (almeno qui) all'editing compiuto (vorrei dire anche compunto e non mi dite che hanno voluto mantenere degli sporchi, della freschezza giovanile di questo esordio...non attacca!...e non torna col resto!). C'è un problema di registri in questo libro: ad esempio una voce narrante (onnisciente e superiore) non ben distinta da quella delle protagoniste tredicenni. La struttura, come detto, funziona - anche se funziona è una parola che non uso a caso...c'è, vedi sopra, una caccia alla trovata allettante che squalifica certo nitore di base, nell'osservazione, nella calata in periferia e sottoproletariato [ma fanno il classico i sottoproletari?] e via così... - tranne che nel finale "Elba" un po' più debole a riprova che non si può scrivere una letteratura OGM e poi all'improvviso finire in "BIOLOGICO". Comunque nella somma non male.
*Nota "gente del mestiere". Dovete sapere cari lettori che "gente del mestiere" sono quelli che dichiarano successo o insuccesso dei libri. Quelli che sono i libri. Li scrivono, li pubblicano, li fanno pubblicare. Ebbene questi stessi eroi delle Patrie Lettere sono spesso schizofrenicamente presi a rivestire il doppio ruolo - per semplificare: pubblico e privato - di chi lancia o promuove ( e ne decreta il successo) un libro di cui poi in privato parlerà malissimo. E quello che colpisce è che è gente che sta negli stessi gruppi, che si vede in riunioni apparentemente concordi e molto famigliari. Persone che spesso si palesano fratelli, sodali, amici. Per parlare per esempio e rivengo ad Acciaio, di un libro di cui tutti sanno che devono parlare bene (per dovere di scuderia allargata) ma di cui in privato pensano e dicono tutto il male possibile. Ma questo è un vecchio discorso che chi sta nel mondo del lavoro ben conosce. Potrei fare anche esempi più vicini a noi, a voi. Sono sicuro che molti di voi hanno storie a riguardo. Nella mia piccola esperienza - un'esperienza peraltro confortante - nel mondo del lavoro non c'è uno che parli bene di un altro (colleghi di colleghi, capi di colleghi, capi di capi, colleghi di capi). La differenza è solo se il parlar male riesce a svilire definitivamente (ma anche qui il definitivo non esiste) la persona di cui dice male. Perché sempre e comunque si parla male. Il mio motto è sempre: di ognuno di noi si può parlare bene o male con ragione. Il punto è capire se si vuole il meglio da quella persona o ci si accontenta del peggio. In questa scelta c'è il futuro (e il presente) di noi lavoratori. Per le aziende e purtroppo anche per noi. Che bella che è la realtà! Così discorde.
Ecco, una domenica di porta portese, orto botanico, librerie, frascati (Roma vista dall'alto è grigia e nebulosa come se fosse lo specchio di un cileo nuvoloso). Segue un venerdì-sabato di sedici ore di sonno (sabato notte eclusa). E' come se tutto funziona solo se tutto ha smesso di funzionare. Per esempio come i cellulari (li continuiamo a chiamare "telefonini" perché quando sono nati erano più piccoli di un telefono normale) che prima si devono scaricare del tutto e solo dopo possono essere ricaricati. Ecco, domenica. Orizzonti di gloria è un bel film di Kubrick. Bello perfino per me che non amo i film di guerra. Bello perché è un film contro la guerra. Mi è ritornato in mente leggendo una frase da Hillman, James Hillman. Lui cita il generale Patton. Ecco ho trovato
"C'è una battuta in una scena del film Patton, generale d'acciaio, che da sola riassume ciò che questo libro si propone di capire. Il generale Patton ispeziona il campo dopo una battaglia. Terra sconvolta, carri armati distrutti dal fuoco, cadaveri. Il generale solleva tra le braccia un ufficiale morente, lo bacia, e, volgendo lo sguardo su quella devastazione, esclama: "Come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti. Lo amo più della mia vita". Se non entriamo in questo amore per la guerra, non riusciremo mai a prevenirla né a parlare in modo sensato di pace e disarmo".
A psicologi e filosofi è permesso tutto. Pure noi dovremmo permetterci qualcosa in più. O in meno. E invece? Noi ci allineiamo, difendiamo a tutti i costi e per preconcetto l'idea della pace. Ma che facciamo in realtà? Difendiamo solo uno status quo delineato da altre guerre a cui noi abbiamo dato, senza saperlo, il nostro appoggio/assenso. E ora appoggiamo una guerra che c'è già stata magari solo per la codardia di non combatterne un'altra. Questa contrapposizione di forze (e guerre) è evidente nel film di Kubrick. E nel mio film di oggi.
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