Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Carvelli (del 04/09/2006 @ 09:07:28, in diario, linkato 1009 volte)
Succede ogni volta che parlo dell'Argentina: mi sembra di esserci andato. Succede ogni volta che ci penso: penso di esserci andato. Ogni volta che poi mi dico "no, non ci sono andato" mi nasce una vertigine di fallimento e di necessità che purtroppo mi dura. Ancora oggi che progetto di andare e di vederla. Forse ci sono già stato, forse ci sono nato. Non in questa presenza, in questa storia. Alle volte è come un sogno dai ritagli un po' confusi: una sola visione che inequivocabile parla di aires. Forse troppi film o troppi libri. Forse è solo che bisogna assecondare un desiderio.
"E' il tipo di lievito che desiderava?" Alle volte l'affettazione del barista non è cortesia posticcia né sbandierata e basta. Talvolta c'è di più che una maschera per farti felice. Si tratta di un uso biforcuto delle parole, dei toni. Le parole sono cortesi per essere più taglienti. "Tipo di lievito". A Roma "lievito" lo dicono solo le pasticciere o le antiche massaie. "Se un barista chiama "lievito" i "cornetti" c'è qualcosa che non va. Intanto il cornetto è "alla marmellata, alla crema". Mai "vuoto" ma piuttosto "semplice". Non si scappa. E sono cornetti (al limite danesi, saccottini. Mai lieviti. Non esiste una famiglia così "per bene" per indicare la colazione. Per farsi capire al bar. E' questione di vocabolario. Come al solito.
Di Carvelli (del 31/08/2006 @ 14:11:08, in diario, linkato 1432 volte)
Da questo rettile a questo rettile è estate. Poi non più. Dal muro percorso a palmi, in verticale, in orizzontale, a testa sopra o sotto è estate. Dopo no. Dopo ci sarà un buco in cui si rintana e un anno di altro. Un'estate ed ecco di nuovo un capolino da qualche anfratto, senza la luce, a fuggire, a nascondersi. Una gioventù curiosa (universalismi) e una vecchiaia indurita fatta di più circospezione. E' inutile fare la guerra del dentro/fuori. Questa è casa quello è terrazzo. Lì puoi stare tu qui no. Non serve. La strada si trova da soli (anche qui universalismi). Ma oggi che pure è un po' più fresco è sempre estate. Ed ecco un geco.
Di Carvelli (del 31/08/2006 @ 11:17:12, in diario, linkato 1524 volte)
Segnalo un articolo dal Corriere di ieri. Cosa e come tutelare cosa. Questo il tema dell'eccesso da diffusa virtualità. Ma il tema più morbido e di ricavo (meno truculento) è anche quello della protezione del diritto d'autore. Cosa fa di un autore un autore? Di un'opera d'ingegno un diritto da proteggere?
Paradossi della Rete. Internet, Delitti Senza Castigo
La proprietà privata nel cyberspazio non è protetta
di Veronesi Sandro Corriere della Sera (30 agosto, 2006)
Dunque è successo. Uno dei tanti problemi specifici del Web, che vengono discussi sul Web nella speranza di trovare una soluzione sul Web, è tracimato fuori dal Web, nella vita tradizionale, quella non virtuale, quella non connessa - quella reale, viene da dire, ma chissà se si può ancora. È successo a Shanghai. Protagonisti: due amici (Qiu Chengwei, 41 anni, e Zhu Caoyuan, 26), una spada chiamata Sciabola del Dragone, la polizia, la legge, il tribunale penale. È successo questo: Qiu ha prestato la sua Sciabola del Dragone a Zhu, ma Zhu non gliel' ha restituita: l' ha venduta e si è messo in tasca il ricavato, 7.200 yuan, equivalente a circa 700 euro. Qiu è andato alla polizia a denunciare il fatto, ma la polizia gli ha detto che non poteva far nulla. Allora Qiu si è arrabbiato e una mattina è entrato nella casa di Zhu e l' ha ammazzato a coltellate. La polizia l' ha arrestato, e il Tribunale lo ha condannato all' ergastolo. Fin qui, tutto normale. Il giudice, però, ha voluto sapere dalla polizia perché, quando Qiu è andato a denunciare il furto della spada, gli è stato risposto che non si poteva fare nulla: in fondo, il ladro non era ignoto, l' accusa era dettagliata. Perché? E la risposta della polizia è stata: perché la spada non era reale, era virtuale. Era un' arma conquistata nei combattimenti on-line, non esisteva, e per loro Zhu, cedendola in cambio di denaro, non aveva infranto nessuna legge. Ecco fatto. Ecco che la magagna esce dalla Grande Palude e comincia a riguardare tutti noi. Perché è vero che questi giochi on-line contano circa 30 milioni di utenti alla settimana, ma rimarrebbero ancora un mondo a parte, esteso, magari, e tuttavia circoscritto e isolato dal nostro, costituito da persone che preferiscono emozionarsi per esperienze simulate anziché reali; ma il concetto di proprietà, be' , quello è universale, e la sanguinosa reazione di Qiu ha reso appariscente un problema che fin qui conoscevano solo i fissati del Web: nel cosiddetto cyberspazio, così pieno di giochi, di simulazioni, di guerre, di territori e di oggetti virtuali cui viene riconosciuto un valore reale, la proprietà privata non è protetta dalla legge. La legge si è affrettata a difendere il diritto d' autore anche lì, ma non si è ancora preoccupata di difendere il più antico e intuitivo fondamento civile, su cui si sono basate praticamente tutte le violenze della storia. E questo non solo in Cina ma in ogni altro Paese del mondo: al momento portare via un oggetto virtuale a chi lo possiede non è un reato. Be' , se avessi 22 anni e fossi iscritto a giurisprudenza, ora saprei esattamente su cosa fare la mia tesi. Ma anche se fossi uno studente di sociologia, dopotutto, o di antropologia. Perché, come ho detto, questo della proprietà dei beni virtuali è un vecchio problema di Internet, e a questo problema la tribù del Web ha cominciato a dare soluzioni autarchiche, e arcaiche, tipo l' espulsione degli utenti scorretti dalle comunità di riferimento (ma a Zhu, evidentemente, questo non faceva né caldo né freddo), o l' istituzione di mafie (si chiamano proprio così, «mafie») che in cambio di denaro vero si preoccupano di difendere con disparati metodi le proprietà virtuali dei propri clienti (ma evidentemente Qiu non lo sapeva), e ciò è già interessantissimo: come si organizzi, cioè, una comunità abbastanza estesa, nella quale vengano effettuati scambi tra beni e corrispettivi in denaro (circa 880 milioni di dollari l' anno, secondo uno studio di un istituto di ricerca di Boca Raton, Florida, il giro d' affari di riferimento), e nella quale la legge non difenda la proprietà privata. Ma ancor più interessante, forse, è studiare come si può fare a difenderla. Fino a oggi la proprietà è sempre stata concepita nei confronti di oggetti reali (spade, terre, case, automobili vere, con una forma, un ingombro fisico, un peso e un volume); ora bisognerà sforzarsi di estendere questo concetto agli algoritmi e alle combinazioni di impulsi binari che generano gli stessi oggetti sugli schermi dei computer. E non si tratta solo di spade o di armi per i giochi di combattimento: esistono isole virtuali, sul Web, piene di animali virtuali, dove un giocatore può andare a caccia virtuale, dietro pagamento di una tassa reale. Come può fare la legge a difendere il loro proprietario dal pericolo che qualcuno, con il pirataggio informatico o carpendo la sua fiducia, se ne impossessi e goda impunemente del loro sfruttamento? È affascinante, perché bisogna rinominare tutto da capo. Ridefinire radicalmente il concetto stesso di «spada» o di «isola». Ogni cosa dovrà essere riconcepita in modo da poterla riconoscere tutta intera anche soltanto nella sua essenza, o nella sua effigie. La famosa pipa di Magritte, sotto la quale c' è scritto «questa non è una pipa» perché in effetti è il dipinto di una pipa, diventerà una pipa, almeno agli effetti legali, nel momento in cui, anche soltanto virtualmente, sarà possibile fumarla. È affascinante, sì. E difficilissimo. A meno che non si voglia continuare a fare come ha fatto la polizia di Shanghai, e sostenere che la pipa che A presta a B, e che B vende a C senza il permesso di A e senza dargli i soldi reali ricavati dalla vendita, ragion per cui A si arrabbia, e decide di uccidere B, e lo fa, realmente, quella pipa che C si ritrova adesso a possedere, e che può fumare nel suo gioco online ma anche vendere a D, ammesso che E non gliela rubi e non la venda a F, quella pipa lì continua a non esistere. Ma anche questo, sarete d' accordo con me, comporterebbe un bello sforzo.
Di Carvelli (del 30/08/2006 @ 15:02:20, in diario, linkato 1463 volte)
Questa invece è Gianna Maria Canale indimenticata diva di tanti film anni 50 ante e oltre. Qui in un profilo severo, peplum, il suo genere (non il mio genere). Ma che conosciamo anche in versioni più morbide ma comunque austere ed affascinanti. Dentro ci vedi gesti che non saranno più (non sono più e forse non sono mai stati se non nella cellulosa, nei fotoromanzi e nei romanzi che ci siamo immaginati): tipo fumare col bocchino, guardare un uomo come per mangiarlo con le labbra (i denti si sarebbero usati in anni a seguire), inghiottirlo in un vortice di passione. Già: vortici di passione. Come se l'attrazione (l'amore era il nome per iol tutto) potesse avvolgere in un turbine d'aria più che in una cavità. Luci che si spegnevano su questo vortice. Dissolvenze e in mezzo cosa? Le doppiatrici. Le stesse. Le voci leggermente stridule. Le parole volutamente severe di chi sa che si deve vincere subito per non perdere dopo. Anni fa era così.
Di Carvelli (del 29/08/2006 @ 15:07:09, in diario, linkato 2338 volte)
Di Carvelli (del 29/08/2006 @ 08:21:39, in diario, linkato 1373 volte)
Ieri su l'Espresso ho letto un'interessante dichiarazione di poetica (o meglio di lavoro) di Monica Ali. Fare ricerca sulle storie per poi inventare. Fare ricerca come un pretesto per poi abbandonare quel che si è scoperto e creare quello che ancora non c'è. Così, per sommi capi. Come a dire che cercare è come un presupposto (apparentemente) necessario ma da superare, trascendere nell'invenzione della storia. In copertina su un libro di Biondillo una frase lapidaria di Antonio D'Orrico (cito a memoria) a uno scrittore (di gialli? non ricordo) servono una città e dei personaggi e Biondillo li ha entrambi. La lista del "cosa serve" sembra sterminata e personale. Da qualche parte quest'estate ho letto (persino) una dichiarazione di poetica che suonava grosso modo così: io non invento nulla, racconto solo quello a cui ho assistito.
Di Carvelli (del 28/08/2006 @ 09:08:27, in diario, linkato 1401 volte)
(E su) La remissione, un magnifico racconto in cui l'autrice canadese ma da quasi sempre a Parigi Mavis Gallant ci fa seguire da vicino una malattia mortale (tutto il racconto è una "cronaca di una morte annunciata" o se preferite dilatata) e tutto quello che ne consegue a ricasco. Cambiano le vite attorno a questa morte come succede e cambia forse anche la morte attorno a queste vite mutate, fino alle laconiche e profetiche - una profezia e un'intuizione apparentemente a scarto ridotto - parole del condannato alla fine. Ecco allora la distribuzione del dolore e le sue conseguenze. Non sempre dal dolore nasce altro dolore e non è detto che sia un male (l'ovvietà, in questo caso, è che dal dolore si rinnovi dolore e si perpetui...si debba perpetuare...) ed è così per Barbara. Dire che è un male? Questo racconto meraviglioso si candida ad essere una delle mie reiterabili letture oltre allo scatto di una determinazione (debole per la mia poca pratica delle lingue) di una lettura di originali (proponimenti di tarda estate). Per ora mi sento affascinato dalla lucidità dello sguardo della Gallant, la sua assenza di moralismi, la sua capacità di osservazione, di scavo psicologico senza condanne. Si discute sulle differenze - per dire - da una Munro.
Ma è sempre vergognoso e improprio (di cattivo gusto) paragonare due bellezze, due abilità, due virtù. Ecco perché la Soria della Letteratura è spesso una campana di temerarie volgarità dottorali su chi ama leggere. Intanto è da dire che: il finale del racconto (le ultime nove o dieci righe) è superlativo; che rimane un senso di condanna nel destino futuro dei ragazzi e (purtroppo) mai lo conosceremo; che anche se Will ha detto "La morte senza Dio è vuota" se la Gallant non avesse letto nella mente del ragazzo il resto si sarebbe smarrito il peso del ragionamento per lasciare saggezza precoce e basta; che se in fondo Molly (saggezza precoce) ha capito che il futuro è già nei suoi quattordici anni magari non è un vantaggio brutale ma è fortuna casuale (un dolore non è spesso solo un dolore, insomma). Ma alla fine sono sopratutto belle (arrivano, segnano, modificano, convincono, incantano) le parole, perché questa è la letteratura. "Molly scosse la testa. Sapeva già come stavano le cose, a quattordici anni: non c'era alcuna libertà tranne che smettere di amare." (E mi piace pensare che questa frase sia filosofia buddista più che sconcerto e dolore così come che la psicologia sia un vestito troppo attillato per questa autrice, sottodimensionato per volgarità).
Di Carvelli (del 25/08/2006 @ 09:45:06, in diario, linkato 1374 volte)
L'estate trascorre nelle letture. Queste letture. Federico De Roberto I Viceré, un libro su cui pesa il giudizio negativo di Croce ma anche la geniale visione di Sciascia che parla di "democrazia ottica". Ma è una lettura ancora con l'omino e la pala, in corso. Prezioso è il libro della Mavis Gallant Al di là del ponte (fortunato incontro all'usato di Mel bookstore). Sono quattro meravigliosi racconti dal gusto fuori tempo e una prosa esatta di colore e di procedimento a vite e ad accumulo. Vi leggo un pezzo da La remissione: "Barbara capì, dal modo in cui la guardò, di aver iniziato il suo viaggio verso sud come moglie e madre dalla bellezza sfiorita, per giungere in un luogo dove il suo viso appariva esotico. Fino a quel momento aveva pensato solo che quella salita sul treno era una normale famiglia inglese, mentre poi ne era scesa la sua caricatura. La questione era sempre la stessa: l'occhio di chi guarda." E la questione è sempre quella sì, l'occhio di chi guarda. E lo sguardo che4 ho atteso giorno per giorno e da cui ho avuto calore letterario è anche quello del viaggio (giornalistico) curioso di Paolo Rumiz che ieri ha trovato una fine degna (degno finale e degno incipit dell'ultima tappa per chiudere in bellezza). Da leggere qui http://www.repubblica.it/2006/08/speciale/altri/2006appennino/tappa-24/tappa-24.html insieme a tutto il resto. E' stata una compagnia di tutti i giorni. Una giusta finestra sull'andare per monti e per persone, così, all'avventura e per sguardi.
Di Carvelli (del 03/08/2006 @ 11:50:42, in diario, linkato 1414 volte)
Sto leggendo Pynchon, L'incanto del lotto 49, edizione Einaudi, traduzione di Massimo Bocchiola. Perché non l'ho letto prima? Già, perché? Recupero e leggo ora. Prima pagina e già applausi a scena aperta e la scena è questa: io seduto su un lettino per la donazione di rossi (globuli) plasma. Donazione n.27 (qui almeno, in questo ospedale). Quindi l'applauso è impedito dalle cannule e gli aghi e gli infermieri e le macchine separatrici e... ecc. Applaudo lo stesso e continuo la lettura anche se - esangue - sono un po' incerto sul come e sul dove e sul quando. Poi riprendo e d'un fiato avanzo nella bellezza di questa prosa perfetta nell'equilibrio di dialogo e situazioni stranianti. Ora, per esempio, sono (letteralmente, anche se il me che legge si rifrange in un vagone-serpentone di metro) in una stanza d'albergo che sto per essere spogliato da un avvocato o sto poer spogliare una nominata esecutrice testamentaria ma, che io sia l'uno o l'altra, mi sto rivoltando in un bagno di schiuma per capelli mentre un'orchestrina improvvisata intona una serenata cupida. Ma ecco che chiudo il libro e scendo (dalla reverie, dalla metro, dal libro).
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