Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Bellissimo il “Diario 1941-1943. Edizione integrale” (Adelphi) di Etty Hillesum. Se nella letteratura come nella vita si può classificare tutto per utile, inutile o dannoso (con l’estensione purtroppo nel caso dei libri in: divertente, emozionante, spaventoso e via a sfumare) il libro della Hillesum che già molti di noi conobbero in versione antologizzata rientra nel caso primo. Utile. E potremmo qui concederci una sfumatura verso l’alto. Scrive Etty: “Non devi pensare, ma ascoltare quello che c’è dentro di te: se lo fai ogni mattina per un po’, prima di metterti al lavoro, acquisirai una sorta di calma che illumina l’intera giornata”. E ora mettetevi al lavoro! Poi annota: “Se un individuo ha un centro, tutte le impressioni provenienti dall’esterno trovano in quel centro un punto certo (devono fermarsi lì). Chi non ha centro ed è insicuro, a ogni nuova impressione perde l’equilibrio e diventa sempre più insicuro, mentre ogni nuova impressione rende sempre più stabile il centro del primo”. Cosa fare ora se non quello che sta scritto qui? E il modo, poi, di ascoltare i maestri (o gli “aiutanti”) e ripetere i loro pensieri: “E ora capisco anche le parole di S. dopo la mia prima visita da lui. ‘Quel che c’è qui’ (e indicava la testa) ‘deve finire qui’ (e indicava il cuore)”. Anche la percezione della bellezza, quella falsata, quella vera: “Mi ricordo benissimo di come ‘sentivo’ una volta. Trovavo tutto talmente bello che mi faceva male al cuore. Allora la bellezza mi faceva soffrire e non sapevo che farmene di quel dolore. Sentivo il bisogno di scrivere o di far poesie, ma le parole non mi volevano mai venire. E mi sentivo terribilmente infelice. In fondo io mi ubriacavo di un paesaggio simile, e poi mi ritrovavo del tutto esaurita. Mi costava un’enorme quantità di energie. Ora chiamerei questo comportamento ‘onanismo’”.
Di Carvelli (del 28/02/2014 @ 09:02:15, in diario, linkato 1052 volte)
Il libro di Francesco Pecoraro “La vita in tempo di pace” (Ponte alle Grazie) disegna negli anni che contano – quelli adolescenziali e quelli più tardi e sordi – la vita di Ivo Brandani. Lo fa alla Houellebecq, lo fa nella tradizione del romanzo borghese ma rivisitato nell’oggi. I temi su cui si dipana la narrazione sono la nostalgia di un tempo e un momento migliori (c’è un momento migliore? O forse dovremmo dire che poteva esserlo ora che abbiamo la consapevolezza che qualcosa è passato senza che riuscissimo a stringerlo, pur provando a chiudere le dita attorno a quel qualcosa che oggi ci strizza il cuore?). La parte del leone la fa spesso il sesso. Come in queste righe meditabonde e senili: “Io, se si escludono le cinquantenni sole, mi sento fuori target per chiunque. Sono già abbastanza stupefatto di invecchiare, ma non avevo mai riflettuto sul fatto che significa diventare invisibili agli occhi delle donne… Scopi più o meno con chi ti pare tutta la vita, poi, quando cominci a pensare che in fondo non è poi così difficile, ti accorgi che stai uscendo dall’orizzonte biologico della specie: il tuo corpo non è più considerato utile, né dilettevole…”. È incredibile un attimo e ti senti il target di chiunque e un attimo dopo non sei il target più di nessuno. È incredibile (aggiungo io) finalmente hai capito (con dolore, magari, rincaro io) come funziona il gioco e un attimo dopo non ti interessa più il gioco. La pagina più bella o, forse, lucida del libro – che gli suggerisce il titolo – è la numero 226 e la leggo per voi: “Il Tempo di Pace è solo una guerra silenziosa di tutti contro tutti. Niente di apparentemente feroce e comunque non al mio livello: la guerra tra le persone del mio livello non è mai seria, non prevede quasi mai veri annientamenti, anche se nelle aziende c’è gente che per lo stress e le umiliazioni si suicida, oppure finisce fino alla spasimo e poi un bel giorno va in ditta con la pistola e fa una strage… Da quando il capitalismo non ha più niente e nessuno capace di contrastarlo, trovi metal detector ovunque, non servono per prevenire il terrorismo, ma gli omicidi aziendali… La Pace è guerra di tutti contro tutti: poca la violenza fisica, ma la lotta è maligna e crudele, nel doversi fare spazio, nel lottare per avere una parte anche piccola delle risorse disponibili, o un po’ di potere, per quelli a cui interessa… una guerra senza eroi, combattuta a botte di cocaina, di alcol, di anti-depressivi, di ansiolitici, di sigarette strafumate… Pochi gli eroi ufficiali, pochi i monumenti, tutti volutamente anti-retorici, quindi quasi tutti bruttissimi…”.
Io ogni tanto penso alla giustizia in terra e a quella fuori dalla terra. Ogni tanto penso a quello che succede nell’aria, sopra il tanto male fatto e da fare. Dentro una bolla di cose che vaporizzano dolori subiti e da infliggere. Sospeso sopra ogni cosa, là in alto, accade quello che segna definitivamente una specie di giusto e ingiusto in percentuale, calibri, manometri. E pende. E pesa. E io ci cammino sotto. Con un passo leggero. A volte guardando. A volte no.
Marina e Paolo. Lui dice che è sempre stato così. A sentire lui le cose non sono state mai diverse da come, ora, le racconta lei. E ora lei le racconta come “un totale disastro”. Quando dice la parola “disastro” fa una piccola pausa. Ogni volta che soffia tra le labbra “disastro” le torna in mente, forse, tutto l’amore che c’è stato. Forse. Forse per questo fa una piccola sosta e, poi, lo sbuffa veloce. Per non ripensarci. Per non pentirsi. Un disastro. La parola “totale” l’ha aggiunta da qualche mese. Più o meno da quando ha conosciuto Igor. Totale è, infatti, più una parola da Igor: la usa per il calcetto, la usa per un dolce venuto male, la usa per un desiderio che non gli lascia tregua. Il disastro con Igor è diventato “totale”. E Marina ha finito per crederci. Anche se, prima di dirlo, ci deve pensare un po’ e rimuovere quelle piccole parentesi felici che ora sembrano un lontano ricordo da soffiare veloce tra due labbra, due uomini, due ricordi. Il totale disastro di loro due ora è, finalmente, un totale disastro per tutti e due. E, finalmente, pensano che potrà capitare in mezzo alle loro vite qualcosa che disastro non è. O, almeno, non totale.
abbagli – baluginare – carneficina – demoscopico – erpete (ma tutti diciamo herpes) – fanfare – giungere – h come hotel (detto al telefono) – illustrato – labbra – mollica (di pane) – nasale – olimpica (calma) – potenzialità – quibus – rimasugli – spremere – tappetino – urticante – vorticare - zuppetta
Leggendo “L’amata. Lettere di e a Elsa Morante” (Einaudi) mi sono chiesto se sarebbe stato un titolo più appropriato “L’amante”. Il libro trabocca, infatti, di un amore straziante. Agito o patito. Compreso o illuso o tormentato. Il suo e quello degli altri. Quello amoroso e quello sentimentale destinato con non minore impiego di forze agli amici e alle amiche. “So che questa maniera pazza è la sua di volere bene. Vorrei, non so che dirti, fargli sentire delle parole bellissime, una musica tanto potente da riuscire a spiegargli che cosa è la vera bellezza della vita e del mondo” (e lui è Alberto Moravia e l’amore tormentato che li unisce è corrisposto nell’impressione del buio e della gelosia che lui le rimanda nelle lettere in cui cerca di stiepidire il suo dolore e la sua acrimonia). Ma per la Morante non è possibile un amore in sordina, attenuato, "normalizzato". A Enrico scrive: “Perciò puoi capire che i miei sentimenti verso di te non sono di fredda cortesia. Al contrario ti voglio bene al punto che sarei pronta a rinunciare a gran parte della mia felicità (se l’avessi), pur di saperti felice. Invece, per la tua felicità non posso fare proprio niente. Non potrei, nemmeno se lo volessi. Credo di essere la persona meno adatta a fare la tua felicità. Ammesso che questa persona esista”. C’è ovunque una generosità accogliente e rispettosa. Parlando di Fabrizio con terzi che cercano di avallare un lato non colto dice: “Come faccio a crederlo un’altra persona? (…) Perché è vero che lui cerca di proteggere la sua intimità da certi attacchi troppo violenti della vita: come certi animali (per esempio i ricci di mare, ecc.) che sono fatti di una sostanza delicata e vulnerabile. Così è lui: ma questa protezione che lui si fa intorno, (xxxxx) io l’ho sempre guardata non solo con perdono, ma anzi rispettandola con molto affetto”. La tragicità di EM la dice anche Goffredo Parise in una lettera: “ti penso sempre, sotto il peso della tua tragica vitalità intellettuale e della poesia”. Questo vivere nella tragicità bella e intensa delle relazioni emerge anche nel carteggio “amico” con Goffredo Fofi a cui rimanda un invito alla rottura degli schemi precostituiti: “Difatti, le nostre difese sono all’opposto. Tu a me sei caro fuori da ogni schema; però tu, per almeno perdonarmi, forse dovevi farmi rientrare in qualche schema. E allora devo dirti (e del resto tu già lo sai, perché in realtà tu capisci tutto) che io non rientro in nessuno dei tuoi schemi”. Non manca l’ironia (come in molte lettere ad esempio quelle indirizzate a Wilcock: W1 e W2, sono le due personalità che sintetizza EM) e il pensiero bambino. Ma è senza dubbio l’amore a fare la parte del leone e dell’agnello a turno in questo carteggio davvero ben curato e necessario. Spesso per autori vasti di scrittura e ispirazione la discesa nei carteggi ha un valore impensabile. Come se potesse simboleggiare la sintomatologia delle loro opere maggiori.
Fallisci ritenta fallisci ritenta fallisci.
In ogni cosa della vita bisogna sempre chiedersi quale è l'uscita, dov'è la porta. Vale per la preparazione di un piatto. Vale per una conversazione. Vale anche per una storia d'amore: prima di iniziarla bisognerebbe sempre domandarsi "come ne uscirò?" anche se ci si rimarrà dentro per sempre. Vale anche per la letteratura. Io scrivo e mentre scrivo devo vedere la freccia dell'uscita. Un cartello anche lontano deve segnarmi la via di fuga. Anche io che la leggo, la letteratura, voglio pensare (anche poi sbagliando o mostrando a me lo stupore dell'imprevisto) che c'è o ci sarà un punto verso cui tutto va. E sbagliarmi (ovvero scoprire che non era quella la porta verso cui andava la narrazione) non sarà un problema. Il problema sarà essere portato senza scopo verso una conclusione che non chiude né apre su altro. Un libro, un racconto devono avere presente la loro fine. Questa è la garanzia della durata.
Il Signor Giuseppe. Gli anni di tassì so’ 32. Mi pare d’esse stato più su la vettura che a piedi. Le macchine le ho cambiate ogni duetreanni. C’ho avuto la multipla quella vecchia, la 125, la stilo, la multipla quella nuova, poi so passato alle stranieri. Mo’ la seat e mi trovo bene. Ma questo è un lavoro che fai se c’hai pazienza. C’è chi lo fa per guadambiare e nun basta. Che poi… guadambiare… mica lo fai più per questo. Ora so anni che siamo al 30percento in meno. Questo è un lavoro che lo devi amare, questo è un lavoro che lo devi sopportare. Mica che lo puoi dominare. Questo è un lavoro che lo fai perché hai genio di farlo e niente più.
Di Carvelli (del 06/02/2014 @ 08:59:49, in diario, linkato 1076 volte)
È una tentazione persino debole talvolta pensare a come sarebbero state le cose se fossero andate diversamente, le cose. E lo scrivo così, in modo un po’ sgrammaticato, per rafforzare la più compiuta e impossibile tautologia. Il libro di Francesco Piccolo (“Il desiderio di essere come tutti”, Einaudi) sembra prender le mosse da qui. In mezzo ci balla il destino del Nostro Paese (tra le due B di Berlinguer e Berlusconi), una vicenda sua, dell’autore (nei termini del personaggio-narratore) che ne rappresenta un parallelo andare verso. Il gioco delle età, delle età più legate ai bilanci sembra risiedere in queste domande. Ho fatto bene? Potevo fare altrimenti? “Il desiderio di essere come tutti” è un titolo già marcato dall'antinomia. È possibile avere un desiderio collettivo? Manifestare dei desiderata che conducano all'omologazione? Leggendo questo saggio-romanzo su un segmento di storia nazionale che ha sembrato condurre il Paese alla modernità seminando premesse di sviluppo poi mancate, mi è venuto da pensare a coppie di aggettivi praticate dal libro o suggerite: cauto/incauto, giusto/sbagliato. Alcune suggerite dall’autore, nel testo. Poi spicca l'idea della purezza e del suo contrario. Uno stato dell'essere che non ha implicazioni se non morali ed estetiche. “Se non” vuol dire che abbraccia davvero tutto ed è bello che ci sia fatta rientrare la politica. Anche se quella che riguarda il nostro Paese ha così tante degenerazioni, in un senso e nell'altro, da apparire controproducente. Ma c'è stato un meglio, sembra dire l'autore. Non Berlinguer (come scrive) ma quella dirittura che esprimeva (come sottintende). Anche se poi l’autore mette in crisi l’idea un po’ romantica e snob di un tempo antico migliore rispetto al male di oggi. Il romanzo civile di Piccolo approfondisce quel difficile passaggio della linea d'ombra che separa i sogni pensati come realizzabili dalla convenienza data come realizzata. Lo fa sotto la specie della militanza o, meglio, della ambizione di uguaglianza. Non quella che rende uguali ma che regola con uguaglianza la nostra diversa unicità. Alla fine conclude: "Ho capito che piegarsi era infinitamente più virtuoso e utile che non piegarsi" e poi offre un elogio della vita impura contro quella pura. La pura, ad esempio, fa inseguire la perfezione in un rapporto di coppia con il rischio sempre vivo della delusione e del dolore legato alla scoperta del corrotto, dell’imperfetto naturale e alla disillusione conseguente. Essere impuri ed essere superficiali è la risposta a questa fiaccante caccia all’ideale. Spesso ciò che detestiamo, in fondo, ha somiglianze con ciò che si oppone a quello che non detestiamo. Non si tratta di un pensiero debole però (debole sarebbe stato, piuttosto, pensare a come sarebbe andato tutto se tutto fosse stato diverso). Ma di un pensiero forte o, meglio, di forte realismo prospettico. Quello che manca a chi cerca di cambiare se stesso e il mondo che lo circonda.
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