Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Carvelli (del 13/06/2006 @ 12:55:40, in diario, linkato 1984 volte)
Sempre da Il primo amore Tiziano Scarpa su Maupassant e Lui meme (Sull'acqua)
Anticipazione #6
Al termine di un decennio prodigioso, in cui ha scritto sei romanzi e centinaia di racconti, oltre a svariati testi teatrali, poesie, articoli, dopo aver narrato qualunque situazione, la vita urbana e quella in campagna, la pace e la guerra, ritraendo tutte le classi sociali, in questo mondo e in quell’altro (tanto da aver fatto sospettare a qualcuno che di lui esistano due omonimi, il narratore realista e l’altro, autore di racconti soprannaturali), a nemmeno quarant’anni, poco prima di sprofondare nella malattia, ecco che questo formidabile scrittore sfocia in un libro inclassificabile, inaudito.
Ha raccontato tutto, ha attraversato un immenso continente di storie, di scritture narrative: ora sbuca in un paesaggio mai visto, una forma d’arte completamente nuova, assolutamente libera, e feconda per l’avvenire.
Apparentemente Sull’acqua racconta con tono confidenziale una breve navigazione da Saint-Tropez a Montecarlo, concedendosi qualche divagazione: indimenticabile quella che ricostruisce le vicissitudini del cadavere di Paganini (sembra quasi che l’autore, consapevole della sua fine imminente, stia cercando di imparare come stare al mondo da morto).
Ma Sull’acqua è un libro che si sporge sul secolo venturo, anticipandone le sperimentazioni più ardite. Dopo aver narrato il narrabile in una carriera letteraria bruciante, con questo libro l’autore inventa una scrittura dove può succedere qualunque cosa, racconto e pensiero, ci offre il capostipite di una forma inedita, né romanzo né reportage, né diario né saggio, ma tutte queste cose insieme.
I nostri complimenti all’editore, che ripresenta Sur l’eau ai lettori italiani con convinzione, in edizione tascabile, pur relegando questo capolavoro in una collana di letteratura di viaggio, e manifestando così lo sconcerto che può provocare una scrittura senza gabbie di alcun genere.
Ne riproduciamo alcune pagine profetiche che prefigurano la scissione autoanalitica dell’uomo contemporaneo. (T.S.)
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Il fatto è che porto in me questa seconda vista che è al tempo stesso tutta la forza e tutta la miseria degli scrittori. Scrivo perché capisco e soffro per tutto ciò che è, perché lo conosco troppo bene e soprattutto perché, senza poterlo gustare, lo osservo in me stesso, nello specchio, nel mio pensiero. Che non si provi invidia per noi, che ci si compianga, perché ecco in che cosa l’uomo di lettere differisce dai suoi simili.
In lui nessun sentimento semplice esiste più. Tutto ciò che vede, le sue gioie, i suoi piaceri, le sue sofferenze, le sue disperazioni, diventano istantaneamente soggetti di osservazione. Egli analizza nonostante tutto, nonostante se stesso, incessantemente, i cuori, i volti, i gesti, le intonazioni. Non appena ha visto, qualsiasi cosa abbia visto, gli ci vuole il perché! Non ha uno slancio, non un grido, non un bacio che siano schietti, non una di quelle azioni improvvise che si fanno perché le si devono fare, senza sapere, senza riflettere, senza capire, senza rendersi conto poi.
Se soffre, prende nota della sua sofferenza e la archivia nella sua memoria; si dice, tornando dal cimitero dove ha lasciato colui o colei che amava di più al mondo: “È singolare quello che ho provato; era come un’ebbrezza dolorosa, ecc…” E allora si ricorda tutti i dettagli, gli atteggiamenti dei vicini, i gesti falsi, i dolori falsi, i visi falsi, e mille piccole cose insignificanti, osservazioni estetiche, il segno della croce di una vecchia che teneva per mano un bambino, un raggio di luce su una finestra, un cane che attraversò il mesto corteo, l’effetto del carro funebre sotto i grandi tassi del cimitero, la faccia del becchino, la contrazione dei lineamenti e lo sforzo dei quattro uomini che calavano la bara nella fossa, mille cose infine che un brav’uomo che soffre con tutta l’anima, con tutto il cuore, con tutte le sue forze, non avrebbe mai notate.
Egli ha visto tutto, trattenuto tutto, suo malgrado, perché è innanzi tutto un uomo di lettere e ha la mente costruita in modo tale che la ripercussione, in lui, è ben più viva, più naturale, per così dire, della prima scossa, l’eco più sonora del suono primitivo.
Sembra avere due anime, una che nota, spiega, commenta ogni sensazione della sua vicina, dell’anima naturale, comune a tutti gli uomini; e vive condannato a essere sempre, in qualsiasi occasione, un riflesso di se stesso e un riflesso degli altri, condannato a guardarsi sentire, agire, amare, pensare, soffrire e a non soffrire, a non pensare, a non amare, a non sentire mai come tutti gli altri, schiettamente, francamente, semplicemente, senza analizzarsi dopo ogni gioia e dopo ogni singhiozzo.
Se parla, la sua parola sembra spesso maldicente, unicamente perché il suo pensiero è acuto e scompagina le molle nascoste dei sentimenti e delle azioni altrui.
Se scrive, non può astenersi dal mettere nei suoi libri tutto quello che ha visto, tutto quello che ha capito, tutto quello che sa; e questo non escludendo neanche i genitori, gli amici, mettendo a nudo, con un’imparzialità crudele, i cuori di coloro che ama o che ha amato, esagerando persino, per accrescere l’effetto, unicamente preoccupato della sua opera e per nulla dei suoi affetti.
E se ama, se ama una donna, la seziona come un cadavere in un ospedale. Tutto ciò che ella dice, che ella fa, viene istantaneamente pesato su quella delicata bilancia dell’osservazione che egli porta in sé, e classificato in base al suo valore come documento. Se egli si getta al collo in uno slancio impulsivo, egli giudicherà l’atto a seconda della sua opportunità, della sua giustezza, della sua potenza drammatica e lo condannerà tacitamente se lo sente falso o mal fatto.
Attore e spettatore di se stesso e degli altri, non è mai attore soltanto come le persone semplici che vivono senza malizia. Tutto intorno a lui diventa di vetro, i cuori, gli atti, le intenzioni segrete, ed egli soffre di uno strano male, di una sorta di sdoppiamento, che fa di lui un essere terribilmente eccitabile, difficile, complicato e noioso persino per se stesso.
Inoltre, per la sua particolare e morbosa sensibilità, è come uno scorticato vivo per il quale quasi tutte le sensazioni sono diventate dolorose.
Rammento i giorni neri in cui il mio cuore fu talmente lacerato da cose scorte un secondo, che i ricordi di quelle visioni restano in me come piaghe.
Un mattino, in avenue de l’Opéra, in mezzo alla folla tumultuosa e festante inebriata dal sole di maggio, vidi passare a un tratto…
Guy de Maupassant, Sull’acqua, traduzione di Barbara Besi Ellena, Edizioni Ibis, pagg. 75-78.
Come un esame appena passato dopo tentativi e delusioni. Due o tre volte e non ancora. Poi il via libera ed è strano. Lo stesso esame, gli stessi libri. Lo stesso professore, le stesse domande. Forse le stesse risposte. La stessa preparazione - ti sembra. Di sicuro la stessa aula, un tavolo o un altro. Ma tu sempre quello. Nessuna emozione. Ora sono qui con queste scarse certezze, con questo vestito beige, con questo silenzio di qualche giorno e le mani lisce, i capelli corti, le poche parole. Ora sono qui e qui resto finché non fa luce sulle domande. Finché non fa giorno e si chiarisce questo mistero del caso. Quello che fa brillare e opacizza le stesse cose, alla stessa ora, nello stesso giorno.
Conto fino a dieci. Aspetto a parlare. Uno due tre quattro cinque sei sette otto nove... A nove ho un cedimento. E' normale, dice, a nove odora il dieci. A nove il dieci puzza. A nove cedo o sto per. Dieci. I numeri non contano. A dieci spesso non è ancora il caso di cedere al parlare. Bisogna ricontare, dice. Dieci? Sì, dice. Ma quando è il momento giusto? Mai, dice. Non è mai il momento giusto. Conto ancora fino a dieci.
Due poesie di Matteo Fantuzzi da
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Elaborare il lutto, dirsi: "non è vero niente", "non è nulla"
non pensare [...]
ed anche oggi che son passati anni mi riappari delle volte sui menu del ristorante, o alla stazione mentre attendo l'autobus.
O anche al cinema, tra le reclames di inizio proiezione: sei un passante in campo lungo dentr'allo spot dell'adidas, nella pubblicità dei tegolini, te ne stai facendo altro
(come sempre)
sfogli il giornale e mediti i tuoi fatti, i tuoi progetti.
*
Eppure m'ero ripromesso non sarei venuto a trovarti, troppo è ancora oggi il ricordo perché io non ti pensi ad Andorra, o in America,
o a Glasgow. E invece stai lì, sotto terra, non ti curi di niente, della fabbrica in vacca, delle nuove riforme, del periodo di riassestamento politico, del fattore economico. E come ne esci contento in immagine, sembra quasi che lì si stia bene ogni tanto, che magari spostandoti un poco ci sia spazio anche per il sottoscritto tra quelle pareti spesse.
Altre qui
Mi racconta una foto. Per un po'. Per quanto si può parlare di una foto? Non so ma per un bel po' me la racconta. La foto forse è in casa sua o in casa di amici. Succede, alle volte, quando si parte da un particolare e si allarga che si perda l'interruttore. Continuiamo. Lei guarda la foto e ne parla. Dice che dentro ci vede delle cose, ci sente delle cose. Non sa dire ma racconta una foto come se fosse una finestra di casa e dietro il vetro una storia. Ma la parola specchio - che ricorre nel racconto - mi evoca confronti. Cosa succede a guardarsi in una foto? E in uno specchio? E in una foto-specchio? Alla fine per il realismo che mi distingue provo a rintracciare la foto. Per essere sicuro di aver visto, di aver letto, di affacciarmi dalla stessa finestra. E la foto è questa.
Di Carvelli (del 07/06/2006 @ 14:22:49, in diario, linkato 1014 volte)
"Sì ho parlato a troppa gente, oggi questo mi sorprende; ogni persona è stata per me un intero popolo. Un così immenso altro mi ha reso me stesso molto più di quanto avrei voluto. Adesso, la mia esistenza è di una solidità sorprendente; anche le malattie mortali mi giudicano coriaceo. Me ne scuso, ma è necessario che io seppellisca qualcun altro prima di me."
(Maurice Blanchot - La follia del giorno - Edizioni L'Obliquo)
In questo momento, da qualche parte c'è un bar che vive come un universo a sé. In una periferia operosa o in una borgata sonnolenta. Un bancone attorno al quale le aritmie si fanno ordinazioni o le poche parole hanno l'effetto di un comando solito. Da qualche parte s'inizia da una tazza. Qualcosa di caldo o di freddo, l'uso dell'alcol come un sole che sorge sul lavoro - e parliamo di lavori senza padrone. Le tazze tutte uguali; anche il caffé al vetro ha la trasparenza abituale e persino la commistione gradata è servita in quel cilindro stretto e scanalato alla base e appena più largo e liscio all'uscita, lì dove si poggiano labbra senza pentimento. In questo momento da qualche parte tovagliolini afferrano lieviti, cornetti, bombe fritte dopo averle scelte da un libro sempre nuovo premesso da interlocutori come "vediamo cos'è rimasto" o "vediamo cos'hanno portato". E dopo c'è chi esce e chi entra. Un flusso un po' solito e un po' no come rappresentazione fedele di vite anche molto monotone (ché nessuna vita lo è fino in fondo). Porte che si aprono e si richiudono, scontrini fatti a mente, tavolini da liberare, pezze sul bancone. Riordini. In questo momento.
Gli amici di www.ramificazioni.com hanno pubblicato una bella intervista ad Andrej Tarkovskij un regista russo che amo moltissimo e di cui lessi anni fa un contributo di scritti cinematografici uscito per la Ubu libri. Ci sono immagini nei suoi film che non possono essere dimenticate. Come queste
Nel segnalare l'intervista segnalo anche il prezioso impegno di questi amici della provincia salernitana. www.ramificazioni.com/modules.php?name=Content&pa=showpage&pid=51
Nulla precipita, semmai cade. Non tutto va a terra infrangendosi. A volte le tazze si sbeccano a volte rimbalzano. E i bicchieri, lo stesso. La certezza non è data neppure dalla statistica, figurarsi dal timore. Bisogna osservare attentamente le piroette delle cose e se è possibile - solo se lo è - allungare la mano a raccogliere prima che il pavimento dia il responso. Ma nulla sai prima. Nulla. Quel che cade cade. Accade. Quel che si rompe si rompe. Succede. Non sempre i cocci non servono.
Queste immagini - ispirate a una poesia di Valerio Magrelli - sono di Elena Cantaluppi (e vengono da exibart)
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