Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Devo alla preziosa attenta lettura dei frequentatori alcuni regali. Da lontano. Scritti. Questa volta in versi. Devo a C. questa poesia bellissima di Izet Sarajilic dal titolo 30 Febbraio. Qui potete leggere qualcosa su di lui http://it.wikipedia.org/wiki/Izet_Sarajli%C4%87 Di questo poeta bosniaco conservo un libro di un piccolo editore a cui sono molto affezionato anche per il fatto di averlo ricevuto in dono dai Rua Port'Alba anni fa a seguito di un concerto lettura a Napoli del mio primo libro Bebo e altri ribelli. Ecco la poesia con cui estemporaneamente segna il tempo di oggi e di ieri C.
Nonostante le periodiche misteriose scomparse del 29 febbraio ogni anno in amore veniamo derubati di un giorno. Da giovane non ne tenevo conto, anche senza quel giorno c'erano abbastanza sabati e mercoledì. Oggi però per me è importante ogni giorno in cui ti posso guardare. Il nostro feudo che si estendeva su cinquantanni di futuro si è ridotto a un misero podere contadino.
Preparato l'orto per la semina (dal verde emerge il rosso di un radicchio ancora vivo e bello). Tagliato l'albicocco dei vicini. Letto Amalia, un racconto di Tecchi di cui parlerò. Rivisto in francese il film di Sautet di cui già vi scrissi.
Visto INVICTUS, il nuovo film di Eastwood - senza farlo respirare che uno spettacolo appena. Non batterà la bellezza sentimentale di Million dollar baby, l'essenzialità di Mystic River, la significatività (per me) di Gran Torino. Ma resta una nuova grande prova di regia. Non è facile fare film agiografici, camminare sul dritto sentiero della retorica, scrivere il già scritto, far piangere il già pianto e non irritare. La poesia (è di un poeta inglese, Henley) che recita Nelson Mandela nel film è questa e la posto per mandarla o farla mandare a memoria. Un buon punto di partenza per affrontare l'ingiustizia dove sia. Siamo noi i capitani delle nostre anime.
Dal profondo della notte che mi avvolge buia come il pozzo più profondo che va da un polo all’altro, ringrazio gli dei chiunque essi siano per l'indomabile anima mia.
Nella feroce morsa delle circostanze non mi sono tirato indietro né ho gridato per l’angoscia. Sotto i colpi d’ascia della sorte il mio capo è sanguinante, ma indomito.
Oltre questo luogo di collera e lacrime incombe solo l’orrore delle ombre eppure la minaccia degli anni mi trova, e mi troverà, senza paura.
Non importa quanto sia stretta la porta, quanto piena di castighi la vita. Son Io il signore del mio destino. Son Io il capitano dell'anima mia.
Visto il film La bocca del lupo. Chi l'ha visto con me l'ha trovato pretenzioso. Io scollato (o incollato, meglio). Una impropria unione di cose belle. Questa sì pretestuosa e intellettualistica. Insincera. E mi è dispiaciuto perché era somma di cose belle. Giustapposte per far felice la nostra classe intellettuale, farle gridare al miracolo, all'arte (ed è vero che il film d'autore è alle volte un genere - citazione - come un horror o uno spy). Peccato. Posto la bella canzone di Gainsbourg (Serge) che a un certo punto campeggia in un balletto scamuffo, una strizzata d'occhio alla Roberta Torre, Almodovar, Corsicato (ennesima e insincera pur se bella commistione di generi citati).
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Dea (altra attenta lettrice) si commuove leggendo la poesia di Izet Sarajlic e le viene l'aquolina in bocca così manda questa poesia dello stesso cantore bosniaco. Spero venga anche a voi l'acquolina ma di abbracci e balli lenti come nel video di Gainsbourg oltre che di versi senza disgrazie di Sarajlic. le due cose vi auguro.
Cerco una strada per il mio nome Passeggio per la strada della nostra giovinezza e cerco una strada per il mio nome.
Le strade ampie, rumorose le lascio ai grandi della storia. Cosa stavo facendo mentre si faceva la storia? Semplicemente ti amavo.
Cerco una strada piccola, semplice, quotidiana, lungo la quale, inosservati dalla gente, possiamo passeggiare anche dopo la morte.
Non importa se non ha molto verde, e neanche propri uccelli.
È importante che in essa possano trovare rifugio Sia l’uomo che il cane in fuga dalla battuta di caccia.
Sarebbe bello che fosse lastricata di pietra, ma tutto sommato questa non è la cosa più importante.
La cosa più importante è che nella strada con il mio nome a nessuno capiti mai una disgrazia.
Mi piace la domenica il Corriere Della Sera. Spesso articoli interessanti come in questa scorsa edizione quello di Paolo Di Stefano sulla NarraVita (la Narrativa che incorocia con la scrittura personale, dell'Io presunto, diciamo così), un tema che ho a cuore. Un articolo molto documentato. Mi fermo, poi, su un'intervista a un artista che so a molti non piace e che a me interessa molto. Alla domanda cosa vorrebbe dunque ancora dalla vita? Maurizio Cattelan – che deve aver rinunciato alla controfigura da intervista – risponde testuale: “Trovare la serenità dentro di me. L’unica cosa con la quale te ne vai da questo mondo. Più invecchi più ti rendi conto che le cose non ti proteggono: possono indurti a credere che ti aiutino, ma non ti salvano”. Leggo e rileggo l’ultima frase allo sfinimento. Leggo e rileggo. Senza saziarmi né sfinirmi.
A letto così
Avviata e dovendo terminare col tuo nome l'opera mia, mi chiedi, Mecenate, di rimettermi come un tempo in gara, dopo che troppo ho dato spettacolo di me e ricevuto ormai la bacchetta del congedo. Ma non è piú quell'età, quello spirito. Appese le armi nel tempio di Ercole, Veianio si è rifugiato in campagna per non dovere al popolo implorare la grazia dai bordi dell'arena. Spesso sento una voce risuonare nelle mie orecchie all'erta: 'Stacca per tempo il cavallo che invecchia, se hai buon senso, prima che sfiancato stramazzi e desti il riso sul traguardo'. Cosí con gli altri futili piaceri lascio la poesia. Ora m'interrogo solo su cosa sia la verità, la convenienza, e medito su questo; raccolgo e ordino tutto ciò che mi potrà poi servire. E non mi domandare a che maestro, a quale scuola chieda sicurezza: non mi sono venduto a nessun credo e cosí dove il corso mi trascina arrivo come un ospite. A volte mi prende la furia e m'immergo nelle lotte civili, custode della verità ideale, suo inflessibile seguace; poi, senza rendermene conto, scivolo nelle norme di Aristippo e tento di dominare le cose, non di esserne dominato. Come lunga sembra la notte se l'amata t'inganna, lungo il giorno per chi lavora al soldo e lento l'anno per i ragazzi oppressi dal rigido controllo della madre; cosí penose e pigre per me trascorrono le ore che rimandano la speranza e il proposito d'iniziare a volo quell'opera che giova a ricchi e poveri e nuoce negletta a giovani e vecchi. Fissare dei principi e in questi cercare conforto: non resta altro. Se non puoi spingerti cosí lontano con lo sguardo come Linceo, non vedo perché rifiutare di medicarsi gli occhi infermi; e se non puoi sperare di possedere i muscoli dell'invitto Glicone, non c'è ragione per lasciare che la gotta nodosa inchiodi il nostro corpo. Si andrà fin dove ci è concesso, se oltre non si può. Vi sono, per l'animo che arde d'avarizia e d'insana passione, parole e formule che possono lenire il suo dolore e allontanare gran parte del male. Se poi ti gonfia una smania di gloria, vi sono rituali che, solo a ripeterli fedelmente tre volte, possono guarirti senza timore. Nessuno, invidioso irascibile pigro, beone, libertino, è selvaggio cosí che non lo si possa ammansire, se accetta di ascoltare con attenzione i precetti della saggezza. Evitare il vizio, questa è virtú, ed esser privi di pazzia il principio della saggezza.
(Orazio - Epistola I - A Mecenate)
Sveglia così
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In attesa, una premessa
“Le persone hanno per così dire un verso. Deve essere come con i capelli” così mi ha detto Sara (che è l’amica grazie alla quale so alcune cose di Giuseppe e Anna). “Le persone hanno un verso, una riga. Alle volte le persone hanno pure delle vertigini, se è per questo, e a certe teste matte succede. Capelli ispidi, frezze. Le persone hanno un verso rispetto a noi. Li prendiamo sempre per lo stesso lato e alla fine questo rivolgerci a loro in quello stesso modo crea una direzione che dopo è difficile cambiare. Ho sempre pensato a noi con le persone secondo questo piccolo teorema di cosmesi. In pratica, senza averne coscienza creiamo un verso rispetto a noi, un verso che ci sia confortevole e poco importa se è un verso che ci piaccia davvero, che vada bene per sempre. Anzi, spesso, senza averne coscienza finiamo per creare un verso sbagliato. Che poi non ci piace più e non abbiamo la forza di cambiare o di aspettare di veder cambiare. Ecco fatto, l’ho detto. Noi disegniamo un verso per gli altri che non va bene. Perché lo facciamo?” Sara mi guarda interrogativa ma non rispondo. E allora lei, come se recitasse un’ovvietà dice: “Perché è il modo più semplice”.
- Ma non per forza il migliore… - dico io.
- Non per forza no, ma il più facile. E questo è quello che conta, per tutti.
- Per tutti? Sei sicura?
Per tutti, è sicura. Sono con Sara. In un bar del Centro. Per essere precisi: siamo seduti ai tavolini di un bar di Piazza Venezia che è una cosa abbastanza stupida da fare se sei nato a Roma. Perché siamo seduti lì con davanti aperitivi con le bandierine, club sandwich e toast con le bandierine?
Le dico: “Sembra di stare all’ONU!” e Sara ride.
- Di qualche anno fa? – dice Sara indicando il vessillo URSS incollato a uno stecchino che mi è capitato sul mini-tramezzino: forse un fondo di magazzino o un gadget nostalgico.
Siamo seduti a un bar con un cameriere che parla un po’ tutte le lingue. Tante e tutte con un frasario ridotto. Siamo seduti in una specie di aeroporto internazionale. Comitive che stazionano in attesa di qualcosa da bere o da mangiare. Un qualcosa di non necessariamente buono. Un qualcosa che precede l’ingresso a un museo o un monumento. In attesa, loro e noi, e in attesa Carlo e Anna – che hanno consumato appena qualche aperitivo con amici nei pomeriggi che precedono la sera in cui usciranno da soli – in attesa, Anna, anche del suo incontro con Giuseppe di là da venire.
Di Carvelli (del 03/03/2010 @ 09:07:07, in diario, linkato 3013 volte)
"Dipendi dalla Legge e non dalla persona, questo dovete ricordare".
Nichiren Daishonin - Le quattordici offese (SND,5,175)"
Ieri ho assistito alla lettura della lezione americana di Calvino dedicata alla leggerezza, la più citata e forse conosciuta. Leggeva Fabrizio Bentivoglio, introduceva Alessandro Piperno. E sono stati entrambi bravi. Interessante l’intervento di Piperno che ha ragionato su vita (e anche morte) e letteratura nei loro reciproci intrecci. A volte paradossali. E il caso di Calvino che ci lascia nell’atto d’ultimare una lezione sulla fine. A ben vedere ognuno ha la vita che si merita. E la morte, pure. A ben vedere il Caso-Calvino (e parlo qui della morte) è corrispettivo sub specie sistematicità del Caso-Balzac o del Caso-Proust. Scrivere è in definitiva uno degli atti di hubrys meno riconosciuti - o più tollerati, se preferite. Ma veder giocare con le cose del mondo, veder creare mondi agli dei non è mai piaciuto. Lo pensiamo anche da atei? Da agnostici? Possiamo confessare anche dal punto di vista delle confessioni meno deistiche che non porta bene tirare i dadi del mondo? Giocare le fish della letteratura sul tavolo della vita?
Sparare su Calvino è diventato negli ultimi tempi uno degli sport più in voga. In voga è il concetto anche di un Calvino disimpegnato (l’ultimo) di contro a un Calvino impegnato (vale la pena approfondire leggendo il libro di Carla Benedetti) e quindi “letterariamente” corretto. Provo a ricordare il perché della mia amicizia con gli ultimi libri di Calvino. In specie Palomar, secondariamente (molto secondariamente) Le città invisibili, più fortunate e felici (e dunque tollerate). E’ finita quella fascinazione? Forse sì. Non li ho più riletti o quasi. Eppure se oggi mi trovo sulla sponda di questo mare frastagliato e incongruo che è la mia visione della letteratura (non sono letterato di mestiere, ho scritto solo dei libri e tutto questo a ben vedere può non avere davvero a che fare con la letteratura – né con l né con L –, dedico la maggior parte del mio tempo ad altro) guardo a Calvino come a un autore che ha impiegato la sua hubrys nella ricerca della difficile ricomposizione delle antitesi scienza-natura, postumità-contemporaneità, mito-storia, passato-presente (si leggano le riflessioni sui classici oltre che le Lezioni di cui sopra). Non nella dicotomia forma-contenuto. O non particolarmente (non più di quanto riguardi chiunque si attrezzi anche ingenuamente a tentare due colonne di superenalotto della creazione letteraria o para-tale). Insomma alla giusta distanza credo che Calvino paghi una tracotanza un po’ fredda anche se interessante. Più di quanto potrebbe pagarla un Moravia maestro di efficace scrittura o immensamente di più (nel frattempo a morte di ideologia e inattualità del barocco) un D’Annunzio di troppo estetizzante scrittura. Non c’è glacialità in Calvino, non c’è formalismo, vuoto. Mi sembra che le Lezioni americane siano il degno testimone – anche nella loro incompletezza – del pensiero coerente di uno scrittore che è nato classico e quindi ha rischiato di per sé e da subito la morte. Che ha messo il camice della sperimentazione e ha quindi accolto su sè il rischio della adulterazione. Ci vogliono controprove prima che un preparato sia una medicina. Ci vogliono anni prima di dire che una moda diventi un fondamentale, un brano uno standard o anche solo un evergreen. E’ quello che spesso rischia la esaltazione o detrazione di un’epoca (sì AnniOttanta, no AnniOttanta e via così). Calvino è nato classico – e non è questo un giudizio di valore (né positivo) – in quanto ha da subito giocato su un tavolo grande e su tanti tavoli. Credo che bisogna aspettare che muoia per rivalutarlo e Calvino, purtroppo per lui, non è ancora morto. Ecco perché è lecito (e provvidenziale per l’autore) che si spari ancora sul suo corpo in caduta come nella barzelletta purtroppo giunta anche all’epica presidenziale e perciò decaduta di veridicità comica.
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