Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Ho finito di leggere Mao II di Don DeLillo. Inutile dire la continua sorpresa rappresentata da questo autore. La sua intelligenza, la capacità di arrivare a più livelli. Dalle suggestioni alle illuminazioni. Alla semplicità intensa e assoluta che reggono tutte le frasi dei suoi libri. Alle volte sembra di leggervi dentro le soluzioni di enigmi inspiegabilmente lunghi. Risposte inspiegabilmente brevi. Fulminanti. La domanda che avevo da qualche giorno è perché si litiga sui fatti. Perché passiamo o sprechiamo tempo a trovare un punto in comune su fatti che ci riguardano (che riguardano noi e altri quanto noi o di più o di meno, non so). La domanda che avevo non era una domanda precisa come questa che segue non è forse una risposta precisa. E comunque è di DeLillo, è nel suo libro che vi consiglio, che consiglio soprattutto a chi scrive con alterne fortune, attuali e future.
"Ciò che abbiamo di fronte a noi rappresenta una cosa. Il modo in cui l'analizziamo, la descriviamo e la codifichiamo è qualcosa di completamente diverso".
Ho iniziato a leggere Vita e destino di Vassilij Grossman.
Pauso la mia lettura di Grossman con questo libro (forse il solo che non ho ancora letto di Peter Bichsel ovvero Il lettore, il narrare - Marcos y Marcos). Che torna curiosamente al filo srotolato ieri sulla realtà, i fatti, il loro racconto. Scrive Bichsel:
Mentre racconto delle storie, io non mi occupo della verità, ma delle possibilità della verità. Finché ci saranno ancora storie, esisteranno ancora delle possibilità. Perciò la domanda che si fa al narratore di storie, se cioè la sua storia sia vera o no, si basa su due errori. Il primo consiste nel credere che esistano storie che non contengono verità. In linea di principio, non si inventa nulla, perché la fantasia umana è limitata da tutto quanto esiste. In fisica si parla di leggi naturali: per il narratore di storie non saprei come chiamarle. Il secondo errore sta nel pensare che la lingua possa rendere ciò che veramente esiste; infatti, essa può solo cercare di descrivere la realtà.
Se il mondo è morto di Franco Arminio
Ho cinquant’anni. Quando ne avevo venti non pensavo di arrivare a questa età. Mi sentivo in una combustione che mi avrebbe bruciato prima. Non ero malato, ma sentivo il mio cuore battere troppo in fretta e alla cieca. Con un cuore così, pensavo, non si può andare lontano nel tempo. Usavo il mio cuore per scriverci sopra, lo battevo come si batte un tappeto. Non scrivevo col cuore, scrivevo sul cuore. Una scrittura a oltranza e senza progetti precisi. Non facevo libri. Scrivevo e basta. A volte uscivo con la donna che poi è diventata mia moglie, e prima e dopo l’amore le dettavo i miei versi. Eravamo in una centoventisette verde, in un’Irpinia appena ferita dal terremoto. Tutta quella scrittura era una specie di salasso, un modo per scalciare via da me l’ansia che mi assediava. C’è chi si avventura in lunghi viaggi, chi cerca di disperdere l’ansia muovendosi nello spazio. Io non mi spostavo quasi mai. Ero un avventuriero rimasto a casa e l’ansia cercavo di disperderla estraendo dal mio corpo una montagna di parole. Alla fine, senza che me ne accorgessi, la mia vita ha preso questa forma che mi rendeva al tempo stesso minatore e miniera.
Adesso la mia vita è un poco cambiata. Il paese in cui vivo non è più ferito, è morto. Forse pure il mondo è morto. È un’idea che ultimamente condivido con una persona molto cara. Ne parliamo spesso del fatto che il mondo è morto. Non so bene se pensiamo la stessa cosa, forse si, ma non importa.
Quando ho iniziato a scrivere questo testo non avevo la minima idea di cosa volessi scrivere. Si comincia da una frase, poi se ne fa un’altra. I miei testi nascono dalle simpatie che le diverse frasi hanno tra di loro. Forse un testo per riuscire bene deve avere la fortuna che questa simpatia tra le frasi vada avanti fino alla fine, una simpatia sincera, non appesa alle necessità dell’argomento e neppure dello stile. La simpatia misteriosa che alcune cose del mondo hanno per altre cose del mondo. Anche le frasi sono cose del mondo. Io sto in mezzo a loro, in mezzo alla natura, in mezzo alle persone, ci sto sempre con molta ansia. Non è più l’assedio di un tempo, però, non ho bisogno di scrivere a oltranza e il cuore non è più quello di una mosca appoggiata su una ragnatela.
Se il mondo è morto ci si può preoccupare meno anche della propria vita, si può affrontare la giornata senza l’assillo di dover risolvere chissà cosa, di arrivare chissà dove.
www.piazzaemezza.it
Molti anni fa tenevo in mano un libro di Raymond Carver. Erano molti anni fa e non c'era ancora minimum fax a cui la fortuna italiana di Carver dovrà sempre moltissimo. Era una riunione di redazione di una rivista appena nata a cui partecipavo e una tipa doveva aver capito male il mio nome così mi chiese "è il libro che hai scritto tu?". Il libro era della Pironti, un libro di poesie appena uscito che recensivo e che ho ancora insieme con l'intera MinFax collection dell'autore e a qualche garzanti. Le ripubblicazioni einaudi per quanto belle non mi tentano (così come per John Fante rimango legato a Marcos y Marcos) ma ho preso in prestito dalla biblioteca l'antologia ultima dell'autore americano (destinata da Carver stesso a raccogliere il meglio dei suoi racconti), Da dove sto chiamando . Ho letto tre racconti. Uno si intitola Intimità ed è la storia di un tipo che va a trovare la sua ex moglie dopo 4 anni e alle 9 del mattino in casa di lei (il nuovo compagno fuori per lavoro). E' sempre duro il rapporto con le ex sarà che qualcosa rimane, per dirla con De Gregori, tra le pagine chiare e le pagine scure (era così?). Carver rende con perfezione questa atmosfera ibrida ma sentimentale. Che è tutta in un "Dice:" con cui vengono presentate le affermazioni della donna. A voi un brano che si conclude con una strepitosa battuta:
"Non ci stringiamo la mano e neanche ci baciamo. Mi fa accomodare in soggiorno. Appena mi siedo, mi porta un caffè. Quindi comincia a tirare fuori tutto quello che le passa per la testa. Dice che le ho causato un sacco di angoscia, l'ho fatta sentire inerme e umiliata. Non c'è da sbagliarsi, mi sento subito a casa".
Questa notte ho ripreso a leggere Vasilij Grossman. Verso pagina 80 c'è una lettera bellissima di una madre a un figlio. Ci sono punti molto belli come quando la donna descrive la visione di un gruppo di ebrei per strada distinguendola da altri gruppi umani sulla strada. E' bello quando esprime la peprlessità sulla morte annunciata di uomini che sanno fare bene mestieri. Come se non si capacitasse. Ma la frase che mi ha colpito (e in fondo sta bene addosso a queste meditazioni) è questa:
Qui ho capito che la speranza non ha quasi mai a che vedere con la ragione, che la speranza è illogica e, credo, figlia dell'istinto.
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