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 Il letto a Takayama... di Carvelli
 
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Questo è il mio pensiero costante: come posso far sì che tutti gli esseri viventi accedano alla via suprema e acquisiscano rapidamente il corpo di Budda?

Shakyamuni (Sutra del Loto)
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Carvelli (del 04/12/2009 @ 14:18:55, in diario, linkato 1156 volte)

Stamattina mi sono svegliato con questa canzone che è citata (male per refusi editoriali) in un brano di cui vi faccio omaggio, due piccoli estratti da Kamasutra in Smart, un libro ormai uscito da diversi anni e credo ora esaurito. Qui Luna (capitolo 5) che ha incontrato il protagonista a seguito di un incidente lo invita ed esce con lui. Lei ha poco più di vent'anni lui ne ha quarantacinque. Sono due mondo lontani che si scontrano e cercano di recuperare anni e tempo facendo il gioco delle separazioni, come in questa scena finale rivissuta nel ricordo:

– Cerchiamo le cose che ci avvicinano, non quelle che ci allontanano – aveva detto una volta lei per distogliermi dalla cupezza e dalla pesantezza del tempo.
– Vediamo… Gli U2, Vasco Rossi, Pippo Baudo, fare trekking, il calcio… Sì, ma facciamolo anche con quelli che ci dividono…
– Sei il solito negativo.
– Io? Perché tu? Allora allora… il piercing, il commercio equo e solidale, il mobbing, il lavoro interinale, goldrake, yuppie du, uhuhuh ramaya…
– I consigli di fabbrica…
– Quelli si fanno ancora, credo.
– Il PCI, la verginità, Mao Tse-Tung, il perizoma, depilarsi il sesso...
– Basta, sei irriverente… ricominciamo con quelle che ci uniscono… il calcio-balilla, i Bee Gees, Van Morrison…
– E chi è Van Morrison?
Potevamo continuare per ore intere ad elencare parole e cose nel tempo, del tempo. Ci piaceva. Era il nostro gioco, il nostro modo per costruire ponti tra di noi oltre che con il sesso. Somigliava a quell’attimo di totale fluttuazione di personalismi in cui i musicisti accordano i loro strumenti producendo una polifonia dissonante ma gradevole, sospensiva e promettente. Ora lo giocavo da solo a casa. Mi accordavo senza Luna e senza magia. Non si può dire che le cose fossero migliorate.
 

 


Capitolo 5 – Nel quale la infili dappertutto



ECCO L’AUTO PICCOLA PICCOLA
Centri urbani sempre più congestionati, traffico sempre più convulso: sono questi i problemi che affronteranno gli automobilisti del 2000. E una soluzione, per creare maggiore spazio, visto che le strade non si possono allargare, è stringere le vetture. Anche a questo devono avere pensato i progettisti della “Smart”, al momento la più famosa fra le citycar. Anche se questa classificazione le sta un po’ stretta.
(smart - prove tecniche di Quattroruote)




Luna ha una guida audace. Una guida fatta di scarti improvvisi durante i quali io sono quasi meravigliato che nessuno al nostro lato, su due ruote, cada vittima di queste subitanee variazioni di viaggio. Andare avanti senza udire urti, tonfi mi sembra miracoloso. La sensazione è: essere dentro un missile, un proiettile, un siluro, una bomba. Siamo velocità con vento attorno, un bozzolo circondato di aria. Un motorino con le pareti. Tutto ci è vicino.
Non abbiamo molto da dirci. Non parliamo. E mentre andiamo penso che forse è stato un errore accettare l’invito ad una serata che non ha una sua logica precisa. Uscita irregolare di cui un giorno favoleggerò rimproverandomi indecisione, imperizia. Anche se ho detto la mia, se ho fatto la proposta che dovevo. Invitata a salire a casa ha detto “no”. Cosa significa un no? Quanta fermezza contiene? Deve avere un suo seguito? Un’altra domanda? Un nuovo invito? Un’attesa? È il codice miniato.
Ci infiliamo ovunque, tra le macchine strette ad un semaforo e andiamo. Verso un locale di via di Libetta. Non ci diciamo nulla. O poco. La macchina. Quando se l’è comprata. Non altro. Non temi più forti tipo “con chi vivi”. Il cellulare le squilla in una nuova polifonia. Non quella dell’altra volta. Lei guarda il display e lascia fare. Non dice nulla, non commenta. Tiene tra le mani la piccola farfalla argento e il filo male annodato attorno. Risquilla e lo riguarda. Nulla. Risquilla e solo un “uffa”. Trilla ancora con un’insistenza sicura. Lo rimette nel vano dietro il contachilometri che è spazioso e mantiene anche la sua borsetta. Rosa. Piccola.
– Perché la gente non capisce!?
– La gente?
– I ragazzi. I ragazzi della mia età.
– Ti avviso, mi stai dando del vecchio!
– No. Anzi. Io preferisco la gente grande, quelli come te. È come se non fosse necessario parlare. Non dico che capite di più.
– Lo prendo come un complimento?
– Non ti offendere! Ho detto solo che, a prescindere da tutto, non state lì a fare tante domande, a insistere. Con voi le cose sono più facili. Non c’è bisogno di stare ogni volta a rispiegare.
Squilla ancora la polifonia.
– Ah allora non vuoi capire, cazzo, e allora sai che faccio? Ti spengo.
E ce ne rimaniamo per un minuto in silenzio. Solo il jingle del software del cellulare che si disconnette.
– Che palle. Una è chiara. Ti dice non mi cercare. Non significa nulla.
– Cosa non significa?
– Le cose si fanno anche così senza sapere dove portano. Si fanno e basta. Mica bisogna stare sempre lì a spiegare. Ecco forse voi più grandi almeno non siete insistenti. Siete più abituati alle non-risposte, ai dubbi.
– Non ne sarei così sicuro. Shhh questa è una canzone dei miei tempi.
– All night long, la conosco anch’io, vedi?
– Sì, ma io avevo la tua età. Cazzo.
Frenata brusca. E retromarcia.
– Certo che non perdi il vizio tu?
– Neanche il pelo se è per questo. Cos’è che non ti va?
– Che freni senza guardare dietro.
– Ho guardato ho guardato – s’incazza.
– Diciamo che stavolta siamo stati fortunati che non c’era nessuno dietro.
– Uffa, ti ho detto che ho guardato! – si spazientisce.
– Toglimi la curiosità ma quante te ne fai al giorno?
– Di che? – sorride maliziosa.
– Di macchine.
– Pensavo di uomini?
– Pensavi male. Volevo sapere “quante ne tamponi” se no avrei detto “quanti”.
– Infatti io pensavo… quante …scopate…
– Quante?
– Tutte le volte che mi va. Ma tu volevi sapere delle macchine forse?
Non so cosa dire in alcune situazioni. Ma spesso non serve. Non siamo mica a portaAporta che devo avere una replica. Ecco una cosa sì l’ho capita, che il silenzio contiene tutte le risposte possibili mentre una risposta sbagliata tiene sicuro sicuro un errore.
Il parcheggio non è venuto male. Onore al merito. Ma magari è anche una tautologia viste le dimensioni della macchina. La strada è buia. Non c’è neppure quel caos di andature che minano la tranquillità poco più in là. Quelle divisioni scomposte che caricano le liste degli ingressi in discoteca: un nome con a fianco cinquanta, cento nomi. Truppe miste e vocianti, battaglioni di maschi e di femmine armati delle migliori intenzioni e del loro quartiere che trasmigrano in questo porto franco del divertimento portandosi dietro orgoglio di contrada e modi di dire solo loro. Come sarà successo che questa zona così marginale sia diventata la mecca del divertimento notturno? Gazometri, metri cubi di abbandono, piazzali delle verdure, stanziamento di frutta, magazzini con un futuro di buttafuori e P.R. Più in là addirittura un porto fluviale, caserme, ponti di ferro, una stazione a forma di toblerone con dietro marmo e tanto abbandono che consegue ad eventi irripetibili come i mondiali di calcio degli anni Novanta. Schillaci, Baggio e tante stazioni nuove poi abbandonate.
Karamu fiesta for ever all night long. Luna toglie la chiave dalla sua destra, vicino al piccolo cambio da videogioco e cadiamo nel silenzio. Nei primi attimi della stasi si decide tutto. Le operazioni di spegnimento, di chiusura, di assicurazione della macchina al marciapiede: sono attimi decisivi. Momenti che possono determinare un seguito. È interessante come possano risuonare le voci in un abitacolo così piccolo ma anche come possa riecheggiare il silenzio. Come se fosse una nota lunga tipo quella che senti quando esci da un concerto tornando nella quiete. Luna mi tiene gli occhi addosso come un gatto.
– Scommetto che non baceresti una ragazza in macchina.
– Perché?
– Per quelli come te la “Situazione Uomo/Donna” è casa, luci soffuse, musica d’atmosfera… Aspettate la pausa di un discorso. Volete un via libera. Vi aspettate un incoraggiamento. Sapete che le ragazze oggi sono intraprendenti, decise e…
– E sbaglio?
– No. Non sbagli.
Mi avvicino alle labbra di Luna, flettendo poco il busto, e creando l’eco di una bocca che si apre con tutta la risonanza del pieno che c’è dentro. La saliva, la lingua – come un pesce che ci nuota dentro a quest’acqua – i denti, le labbra. Tutta una serie di strumenti che poi suonano una piccola sinfonia di suoni bassi, acquitrinosi.
– Hai perso.
– Ho perso a parole. A mente ho vinto.
– Ah hai scommesso su due? Sei una a cui non piace perdere?
– Sono una a cui piace vincere. Ti dispiace passarmi le mani addosso?
– Su quale risposta hai scommesso? Su questa?
– Sì.
– Così?
– Così. Ma non così poco. Di più.
– Così?
– No, guarda.

 

 

 

 

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Di Carvelli (del 09/12/2009 @ 08:38:38, in diario, linkato 741 volte)
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Di Carvelli (del 09/12/2009 @ 08:39:25, in diario, linkato 746 volte)

Cose di casa

Montare luce interna alla vetrinetta
Montare luci avute in regalo fuori nel giardino
Preparare marmellata di chinotto e mandaranci (9 barattoli enormi)

Cose di persone

Dice che è passata davanti casa mia e che non se l'è sentita ma avrebbe voluto citofonare. "Non so nulla di te adesso" ha detto "e non so se avrei potuto citofonare... avrei potuto?"
Non le sta bene praticamente nulla di me: che parlo con chiunque per strada, che sono capace di estorcere segreti a chiunque e convincere la prima persona che passa e che non mi conosce a fare qualcosa per me, di come tengo la casa, dei gusti che ho, dei libri, dei film, di tutto.
Una volta di me ha detto "è brutto è basso...". Ma io non ascolto mai le parole quando sono uscite ma un attimo prima che escano ed ecco fatto...

Cose di casa e di persone

Trasportare mobile da macchina di F a casa di F
Montare faretto in casa di F
Trovare barattoli per marmellata a casa di L
Carezzare il cane di S sin fine

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Di Carvelli (del 09/12/2009 @ 14:44:39, in diario, linkato 656 volte)

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“Chi si innamora delle persone in lutto afferma di solito di essere animato dal desiderio di richiamare quelle persone alla vita, alla gioia. Dice che al proprio amore si mescola il sogno generoso di salvarle da loro stesse e dai loro fantasmi. Sarà. Mi pare che sia vero anche l’opposto, anzi spesso è ancora più vero. C’è anche la volontà di perdersi, di provare a contatto con un altro corpo il nulla da cui si è stati risparmiati ma di cui si spera di godere a propria volta – almeno per interposta persona. A sedurre, in coloro che ne sono troppo visibilmente vittime, è la disperazione: essa esercita la sua facoltà magica di attrazione sugli altri in modo irresistibile, come una sorta di energia nera e selvaggia, di riserva di sofferenza cui il mondo intero vorrebbe poter attingere.

 

 

 

Non lo so. Ma spesso ho constatato quanto facilmente gli uomini, le donne, si sarebbero innamorati non già di noi ma del nostro dolore, se solo li avessimo incoraggiati.”

Sto leggendo L'amore nuovo di Philippe Forest (Alet). Da qui è tratta la citazione che ho riportato.

 

In questi giorni ho visto Ricky di Ozon e chi mi segue sa quanto adoro questo regista ma questa volta sono perplesso. Inizia come un film dei Dardenne o di Loach ma poi prende una deriva alla Shyamalan (e chi mi segue risà la mia passione). Finisce come un film italiano. Non c'è male per essere confusi.

Ho visto in Dvd Rumori Fuori Scena, un film che consiglio affettuosamente ai teatranti. Sempre in Dvd Il seme dell'uomo di Ferreri che sconsiglio freddamente alle donne incinte o in procinto di.

 

Ho sentito un gruppo che fa cover dei Doors e un concerto di chitarra classica di un'amica. Questo brano di Mertz mi ha colpito in modo particolare.

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L'altro giorno la presentazione a Trastevere del libro della mia amica Etain Addey che caldamente vi consiglio. Si intitola, Acque profonde ed è edito da Fiori gialli.

 

 

 

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Di Carvelli (del 10/12/2009 @ 09:08:00, in diario, linkato 728 volte)
Ieri, a un certo punto - e per ragioni contingenti - ho avuto il terrore di perdere il cellulare. Ho pensato a chi lo avesse trovato e a cosa avrebbe potuto pensare. Forse, mi sono detto, devo cancellare tutti i messaggi in memoria. In uno stesso giorno si alternano minacce ad apprezzamenti. Sorrisi a intimidazioni, offese personali, messa in discussione dei miei gusti e delle mie propensioni in senso generale. Insomma, una vera confusione. Ho pensato poi a un caso più grave di natura legale e al complesso eventuale lavoro degli inquirenti.
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Di Carvelli (del 10/12/2009 @ 14:44:54, in diario, linkato 702 volte)

Ho visto e consiglio La malattia della famiglia M. di Fausto Paravidino che ha scritto (a 23 anni con grande lucidità), dirige e interpreta. Io al Piccolo Eliseo, a Roma, voi - temo - presto altrove. Metto nella bottiglia l'invito a vederlo: ottima la regia e le interpretazioni specie quella della Fusetti.

Ricito (a proposito del recito) Forest che ancora leggo.

"Quando si recita di più? Quando, amando, si fa finta di non amare per niente? Oppure quando non amando, si finge di amare lo stesso? Lou non mi chiedeva niente sul nostro futuro. E io tacevo. Avevamo paura entrambi che la prima parola pronunciata ci restituisse al nulla da cui la fortuna ci aveva tirati fuori".

Mentre vi arrovellate nelle risposte vi debbo dire che a differenza del recente invito ad amare che avete letto qui  tratto da Inoue, Forest crede che il miglior augurio che si possa fare è di "essere follemente amata"

Ma ancora una frase dal libro:

"Dicono che quelli che si amano sono soli al mondo. Ed è vero. Basta scostarsi di un passo. E si precipita senza scrupolo nel formidabile isolamento della felicità".

Tra le hits doppie o duplici del momento preferisco di gran lunga quella di Gianna e Giorgia a quella di Elisa e Giuliano. E voi?

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Di Carvelli (del 11/12/2009 @ 09:00:53, in diario, linkato 791 volte)
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Di Carvelli (del 11/12/2009 @ 09:36:00, in diario, linkato 1017 volte)

Trovo nel sito di minimum fax un'intervista a Philippe Forest di Carlo Mazza Galanti e la linko.
minimaetmoralia.wordpress.com/2009/11/05/intervista-a-philippe-forest/

In Tutti i bambini tranne uno lei ha scritto di essere diventato scrittore soltanto dopo l’avvenimento che ha segnato la sua vita: la morte di sua figlia. È proprio così? È passato dalla scrittura saggistica direttamente a quella letteraria? Non c’è stato un apprendistato?
È così, avevo pubblicato un certo numero di libri prima di Tutti i bambini tranne uno ma si trattava di saggi letterari, di critica universitaria, libri scolastici, etc. Prima di questo posso dire di avere scritto qualcosa di letterario nella misura in cui quasi tutti prima o poi nella loro vita hanno scritto qualche poesia o racconto, ma non avevo manoscritti nel cassetto, rifiutati e neanche mai proposti a qualche editore.

E come è avvenuto il passaggio dalla scrittura saggistica a quella narrativa?
Diciamo che, viste le condizioni particolari nelle quali ho scritto il mio primo romanzo, e che racconto in Per tutta la notte, il secondo romanzo, non mi sono veramente posto la questione di come si sarebbe realizzato il passaggio. Semplicemente mi trovavo in una situazione tale per cui dovevo, per ragioni di sopravvivenza psichica, scrivere Tutti i bambini tranne uno. È stata questa necessità, questa costrizione che mi ha obbligato a improvvisarmi romanziere.

È stata quindi una scrittura di getto? Istintiva?
Sì, ma nonostante l’urgenza in cui mi trovavo non si dimentica mai quello che si ha letto e quello che si sa. Se oggi rileggo o ripenso a Tutti i bambini tranne uno mi accorgo che dietro c’è tutto quello che avevo letto e tutto quello su cui avevo riflettuto prima di scriverlo. Semplicemente tutto questo è diventato in qualche modo inconscio.

In effetti c’è un aspetto di romanzo-saggio nei suoi libri molto evidente, ci sono state evidentemente delle ricadute saggistiche nella sua scrittura romanzesca. Mi domando se è vero anche il contrario: la sua scrittura saggistica, in seguito, ha risentito di questa nuova dimensione letteraria, creativa della scrittura? Come si ritorna al saggismo dopo l’esperienza profonda del romanzo?
È vero, il saggista è sempre stato presente nel romanziere e ora, al contrario, il romanziere è sempre presente nel saggista. In Tutti i bambini tranne uno ci sono pagine quasi critiche dedicate a Hugo e Mallarmé o riflessioni teoriche su cosa sia la letteratura e cosa la giustifichi. In tutti romanzi seguenti c’è una riflessione più o meno visibile sulla letteratura o sull’arte. Ma da quando scrivo romanzi è cambiata in modo significativo anche la mia maniera di scrivere saggi. Penso che nei miei saggi si senta che c’è un investimento personale, lo stesso investimento personale che fa sì che nei testi teorici che continuo a produrre siano presenti le stesse questioni che tocco nei miei romanzi.

Mi sembra che questa continuità tra teoria e narrativa non risieda né in questioni critico-teoriche né in particolari temi letterari ma in una specie di nocciolo filosofico. Mi sembra che dietro allo scrittore e al critico ci sia una figura di pensatore, di filosofo.
Ho letto e continuo a leggere la filosofia ma non come professionista, non ho una formazione filosofica, mi sono costruito da solo una cultura filosofica che senz’altro è presente sia nei romanzi che nei saggi. In entrambi c’è una stessa volontà di pensare certe questioni che toccano il senso dell’esistenza. Diciamo che a un certo momento ho smesso di sentirmi obbligato a scrivere saggi secondo il codice della dissertazione accademica, cosa che è particolarmente pressante in Francia, un codice che fa sì che si portino sempre i problemi verso la loro soluzione. Ho smesso di sentirmi attaccato a questo modello è ho cominciato a proporre delle riflessioni molto più frammentate, soprattutto sotto l’influenza di gente come Bataille, Kundera o altri.

Un concetto guida, un’ idea molto forte che lei coglie nella filosofia di Bataille, Blanchot e anche Nietzsche credo è la nozione di negatività, di una negatività attiva.
Mi domando se questa negatività prima che un concetto filosofico non sia conseguenza di un’esperienza, come quella che lei ha vissuto, così impossibile da interpretare, da pensare, da dire.

Se non avessi vissuto quello che ho vissuto non avrei probabilmente parlato della negatività con la stessa intensità e nello stesso modo. Allo stesso tempo penso che ho accolto quello che mi è successo in questo modo perchè avevo letto un certo numero di autori che mi avevano preparato a pensare questa esperienza nel segno di una negatività irriducibile. È difficile dire se è la lettura che ha preparato la ricezione dell’esperienza o se è l’esperienza che mi ha portato a rileggere in modo più radicale dei testi che già conoscevo. In ogni caso penso che la verità venga prima dall’esperienza che dai libri e quindi è naturale che questa esperienza abbia profondamente modificato il mio rapporto con la letteratura.

La negatività di cui parliamo non rischia di diventare una forma di nichilismo o di misticismo, non teme questa possibilità?
Anche il pensiero di Bataille al quale mi riferisco spesso è in relazione con l’irrazionale, il mistico, ma penso che quello che mi protegge da tutto questo, e di cui difettano spesso i filosofi e i poeti, è il fatto di essere romanziere, e di conseguenza un forte senso dell’esperienza, di quello che Bataille chiama l’esperienza interiore. Il rapporto con il reale per me è qualcosa che domanda di essere raccontato in un romanzo, che dev’essere sottomesso alla prova del racconto. Ci sono molti poeti che al contrario cadono nel misticismo, nell’irrazionalismo e nel nichilismo perchè per loro la parola poetica è una parola che basta a se stessa e perchè credono che attraverso il suo solo mistero si possa rendere conto del mistero dell’esperienza umana. Sono molto ostile a questa forma di mistificazione letteraria. Io sono qualcuno che racconta delle cose e anche le spiega. C’è tutta una dimensione di «romanzo a tesi» nei miei libri dove parlo della denegazione del tragico, della malattia e della sofferenza nella società attuale, e che non è per nulla irrazionale ma al contrario esprime una volontà di conoscere e di combattere. È perciò che tengo molto al romanzo, perchè in effetti il romanzo può essere il luogo di un’esperienza che si apparenta all’esperienza del nulla, dell’estasi etc. ma allo stesso tempo integra questo tipo di esperienza in un racconto, nel senso di uno sviluppo temporale ma anche nel senso di un fatto concreto: dire le cose, mostrarle, spiegarle.

C’è anche una tensione poetica molto forte nella sua scrittura.
Ho sempre pensato, e penso che sia particolarmente evidente in Sarinagara, che bisognasse fare del romanzo un luogo dove raccogliere l’immagine poetica ma sottomettendola in qualche modo alla legge del racconto. Nei miei romanzi c’è una sorta di dialettica tra il romanzo e la poesia che per me è molto importante.

È presente, e anche dichiarata, nei suoi romanzi una dimensione personalistica, quasi solipsistica: scrive per un’esigenza privata, per fare i conti con la sua storia personale e a volta sembra quasi che lei voglia avanzare una totale autonomia, quasi un’indifferenza rispetto alla fine che possono fare le sue pagine. Allo stesso tempo però si rivolge agli altri, cerca i lettori, pubblica. Come si produce questo bisogno degli altri? Chi sono gli altri a cui si rivolge?
Nella parola che i miei libri propongono c’è una dimensione di rivolta contro il discorso sociale che può prendere anche una forma un po’ paranoica. Sono abbastanza convinto che nel narratore dei miei libri ci sia qualcosa che può essere percepito come una dimensione paranoica, l’impressione che sia convinto di essere il solo ad avere ragione, lui contro tutti. Allo stesso tempo nei miei libri c’è la volontà di parlare, di comunicare. C’è una frase di Ponge che mi piace molto, Ponge dice che la poesia, ma per me vale anche per il romanzo, consiste nel «parlare contro le parole». Penso che la letteratura consista effettivamente in questa dimensione negativa o critica, che la letteratura debba parlare contro le parole, contro il discorso sociale. Nei miei libri si riferisce a questa dimensione critica tutta la protesta che io rivolgo al discorso sociale nella misura in cui è un discorso che ignora la malattia, la morte e che non vuole sapere nulla del «negativo». Allo stesso tempo, questa parola che parla contro il discorso sociale è rivolta a certe persone, ai lettori, a coloro che sono disposti a comprendere e a rispondere. Ho un’idea di una comunità che rende possibile la letteratura, ma è una comunità che si costituisce contro la società o a margine della società. La mia non è assolutamente una visione aristocratica della letteratura, so bene che i miei libri possono essere un po’ difficili ma credo che ciò a cui ci si rivolge nel lettore sia meno l’intelligenza che la sensibilità e penso che quello che conta sia di produrre con un libro un’esperienza che risuoni e abbia senso rispetto all’esperienza del lettore. Ci potranno essere lettori molto intelligenti e colti che non si sentiranno coinvolti dai miei libri e al contrario dei lettori meno colti che si sentiranno coinvolti perchè i miei libri gli diranno qualcosa che non sentiranno altrove. D’altronde ne ho la prova: ricevo molte lettere di lettori che hanno perso un bambino o vissuto esperienze simili e che non sono per forza dei lettori di filosofia ma che sono stati toccati dai miei libri perchè gli è sembrato che questi libri dicano la verità su qualcosa su cui si dicono molte bugie.

In un suo saggio lei parla di «eterografia», si riferisce all’uso della scrittura altrui, all’uso di altri autori e testi per palare di sé come ha fatto in Tutti i bambini tranne uno e, in modo più sistematico, in Sarinagara?
Non è esattamente questo a cui pensavo. Eterografia per me è la scrittura del reale in quanto il reale è radicalmente altro. Era soprattutto un modo di oppormi all’autofinzione, perchè nell’autofinzione, com’è praticata in Francia, c’è qualcosa di abbastanza narcisistico. La costruzione da parte di un autore di un personaggio mi sembra la forma meno interessante della scrittura del sé. Al contrario, e per questo anche mi interesso alla scrittura giapponese, ho sempre pensato che la letteratura avesse piuttosto a che fare con la decostruzione dell’identità, la dissoluzione del sé, e quindi parlare di eterografia è un modo di mostrare che l’orizzonte della scrittura autobiografica non è il sé ma al contrario la scomparsa del sè, nel rapporto col reale e con l’impossibile.

Ho una domanda che mi è suggerita da una frase del suo ultimo romanzo. La frase viene dopo una descrizione di un momento erotico con Lou, una delle tre donne presenti in Le nouvel amour. La frase è: «scrivo queste cose non perché le penso uniche – con tutte le donne innamorate di me ho vissuto le stesse scene – ma perché non le ho mai lette in un libro». Mi potrebbe spiegare questo bisogno di scrivere cose inedite?
Perché scrivere ciò di cui si ha l’impressione che non sia mai stato scritto? Semplicemente per una preoccupazione realistica, di verità. Bisogna confessare, e in particolare la confessione deve toccare la sessualità, perché, come spiega Michel Leiris nella sua prefazione a l’Età dell’uomo, solo questa forma della confessione impegna veramente colui che scrive, lo obbliga ad affrontare il reale come un torero nell’arena, o almeno ad affrontare l’ombra che la realtà allunga sulle parole.

E cosa ne pensa dell’attenzione onnipresente, nella nostra società, nei nostri media, nei confronti dell’intimità, dei problemi personali, dell’interiorità della gente?
È un fenomeno ambivalente, c’è del bene e del male, ma in maniera generale sono abbastanza ostile a questa tendenza, perchè penso che la cultura dello spettacolo difenda una visione molto normativa e positivista dell’io. Mi sento più solidale con la psicanalisi nella misura in cui la psicanalisi è per un lavoro appunto di disillusione e di decostruzione dell’io, di messa in questione del soggetto trasparente a se stesso. Se uso il termine di ego-letteratura in Il romanzo e l’io è in riferimento al termine di ego-psicologia che utilizzava Lacan per criticare quella che era diventata la psicanalisi negli Stati Uniti, uno strumento, diceva Lacan, per una «ortopedia dell’io». Questo ha molto a che fare con quello che vediamo oggi a livello di teorie dello «sviluppo personale» dell’«auto-affermazione» etc. Ogni volta una concezione positiva del soggetto: bisogna affermarsi, costruire la propria identità, imporsi. Tutto questo mi sembra assolutamente in linea con quello che la società attuale produce di peggio nella forma dello società dello spettacolo e della società del consumo.

Nel suo ultimo romanzo Le nouvel amour, c’è molto sesso, molto corpo. Mi sembra che, in una maniera abbastanza classica, il sesso abbia preso il posto della morte. La ricerca del negativo passa adesso attraverso il corpo e il sesso?
È vero, ma io la metterei un po’ diversamente: quello che mi interessa non è veramente l’amore e la morte, eros e thanatos, perchè mi sembra che in questa direzione si fa presto e cadere in un’erotizzazione della morte o in una necrofilia, per così dire, dell’amore. È per questo che io utilizzo più volentieri i due termini di desiderio e di lutto. Credo che desiderio e lutto siano come le due facce di una stessa medaglia perchè sia nell’uno che nell’altro c’è sempre un rapporto a qualcosa che ci manca e al quale siamo amorosamente legati. Per me desiderio e lutto sono intimamente legati perchè è attraverso questo genere di esperienze che, in un rapporto con qualcun altro, si può arrivare a mettersi in relazione con l’impossibile, con la verità. Ho sempre pensato che desiderio e lutto andassero insieme. É vero che in Tutti bambini tranne uno era soprattutto la questione del lutto ad essere in primo piano mentre in Le Nouvel amour è piuttosto il desiderio. In un romanzo, anche se autobiografico, non si racconta tutto: ci vuole una certa coerenza. Le cose di cui parlo in Le nouvel amour non le ho scoperte dopo, ma per una ragione poetica, di coerenza, non trovavano il loro posto nei libri precedenti. Perciò ho deciso di fare un libro dedicato interamente alla questione del desiderio.

Lei ha scritto quattro romanzi tutti molto autobiografici. Crede che la sua scrittura sia legata essenzialmente al genere autobiografico? Pensa o desidera di scrivere un romanzo di finzione?
Non so… in generale mi sento abbastanza poco attirato dal romanzo «romanzesco», il romanzo di pura finzione. Non credo che sia un territorio nel quale avrò voglia di avventurarmi. Scrivo un romanzo soltanto quando mi confronto con un problema che richiama in me la necessità di dargli una forma romanzesca. In generale il romanzo per me è direttamente legato all’esperienza. Ma se prende Sarinagara, quello è un romanzo in cui la parte autobiografica è molto indiretta, e in un romanzo come Le nouvel amour, che sembra ed è molto più autobiografico, soltanto io posso misurare veramente la parte reale di autobiografia. Se vuole, Sarinagara era anche un po’ un gioco con i codici del romanzo esotico: il Giappone, epoche e luoghi remoti, etc. Mi sono appropriato di questo codice dell’esotismo per adattarlo al mio bisogno autobiografico. In Le nouvel amour invece il gioco si fa con il codice del romanzo d’amore, quello che racconto sono cose che più o meno mi sono successe ma allo stesso tempo sono trattate in modo da prendere posto in questa forma particolare che è la forma del romanzo d’amore.

Fino a Sarinagara si era in qualche modo progressivamente allontanato dall’avvenimento centrale della sua autobiografia. Con l’ultimo romanzo invece ci si è riavvicinato, è tornato ad una scrittura più diretta.
Sarinagara è un libro che ha rassicurato molti dei miei lettori, perchè l’anno visto come un libro nel quale prendevo una certa distanza dall’intimo e nel quale proponevo delle visioni più pacificate della vita. Era un romanzo più tranquillo, meno violento, nel quale c’era meno coinvolgimento personale. Perciò avevo voglia di prenderli in contropiede e di produrre qualcosa che sarebbe stato senza dubbio più disturbante per certi lettori. La gente ha paura spesso della violenza dell’intimità. Con Le nouvel amour sono voluto tornare, attraverso una forma nuova, alla violenza dell’intimità, per disturbare me stesso, per mettermi in pericolo, in un certo senso, e per disturbare anche i lettori. C’è una frase di Kierkegaard che amo molto e che dice che la sola cosa che un individuo possa fare per un altro individuo è di renderlo inquieto. Penso che la letteratura non ha valore se non inquieta il lettore.

Come è arrivato al Giappone, è solo per riferirsi ai codici dell’esotismo, della tradizione dell’orientalismo francese?
No, a dire il vero ho letto molto poca letteratura esotica, orientalista. Il solo autore occidentale che ha scritto sul Giappone e che mi ha veramente interessato è stato Barthes. Quello che mi è successo è che mi sono appassionato proprio della letteratura giapponese. Avevo già letto gli autori giapponesi che tutti conoscono. Mishima, per il quale nutro una grande ammirazione, Tanizaki, Kawabata, ma soprattutto ho letto nel 1995 l’opera di Kenzaburo Oe e questa mi ha veramente colpito perchè ho trovato in Oe un’opera molto moderna e allo stesso tempo costruita intorno ad un’esperienza patetica un po’ simile alla mia. Tutta la sua opera, a partire dagli anni 60, dipende più o meno dall’esperienza che ha vissuto con suo figlio, che è handicappato mentale. Il grande tema dell’opera di Oe è la paternità, e ci sono molte risonanze che mi hanno interessato, come la questione della malattia e dell’handicap nella società moderna. Sono delle questioni talmente patetiche che è difficile per un romanziere affrontarle. Oe ha fornito la prova che si può trattare questo tipo di patetico senza cadere in forme sentimentali e regressive ma costruendo veramente un’opera romanzesca, e anche intellettuale, sempre rinnovata nel suo rapporto unico con l’esperienza. C’è stata quindi la lettura di Oe e dopo, per capire Oe, mi sono messo a leggere molta letteratura giapponese e nella letteratura giapponese ho trovato molte cose che richiamavano le mie questioni personali. Sarinagara ha ricevuto un’ottima accoglienza da parte degli specialisti di letteratura giapponese e questo è stato un segno di generosità da parte loro perchè di solito gli specialisti non sono contenti quando un non esperto s’interessa alla loro materia. Nel mio caso è successo il contrario e così ho ricevuto molte proposte, molti inviti di universitari in Giappone e in Francia per dialogare sulla letteratura giapponese e di punto in bianco mi sono ritrovato a scrivere dei saggi sulla letteratura giapponese e sul rapporto tra letteratura giapponese e quella occidentale. Ho raccolto tutti questi testi in un volume che forse comparirà in italia, almeno spero, e che si intitola La beauté du contresens, da un’espressione di Proust che si trova in Contre Saint-Beuve, dove Proust spiega che quando si legge un libro si fanno sempre degli errori d’interpretazione, dei controsensi, ma che quando si tratta di un bel libro anche gli errori che ne derivano sono belli. È una formula che mi è molto piaciuta e di cui mi sono servito per dire che noi occidentali non conoscendo i codici della letteratura giapponese incorriamo per forza in errori di interpretazione, ma non importa perchè gli errori che si fanno sono produttori di bellezza e di verità. Ho cercato di pensare alla letteratura giapponese accettando il fatto che parlavo a margine («a côté», ndr) dei libri ma pur sempre a partire da loro.

Questo idea di parlare «a côté» e mi fa pensare al fatto che spesso fra le sue pagine appare l’immagine di un «pas a coté» (passo a lato), cosa intende con questa espressione?
Diciamo che l’esperienza del lutto, e anche del desiderio, è anche un’esperienza della solitudine. Quello che racconto in Le nouvel Amour è che il desiderio separa gli amanti dal mondo. Anche la letteratura è un’esperienza della solitudine. Colui che scrive, è Mallarmé che lo dice, si stacca in qualche modo dal mondo. Fare un passo a lato è questo, è fare questa esperienza di desiderio, di lutto o di creazione che vi mette al di fuori del mondo e che mettendovi fuori dal mondo vi permette di guardarlo.

Mi viene in mente quella specie di teoria della fotografia che lei ha sviluppato nei suoi romanzi, dove, tra le altra cose, dice che la foto ci consente un secondo sguardo sul reale, come se ci permettesse di vedere le cose dal di fuori. La foto è molto importante nella sua opera, cosa l’ha portata alla fotografia?
Non sono fotografo, non faccio foto e come molti detesto guardarmi in foto, allo stesso tempo mi interesso alla foto come arte, ho scritto parecchio sulla fotografia, ma mi sono ritrovato coinvolto, quasi senza accorgermene in una riflessione sulla fotografia che ha preso forme diverse. Nel secondo romanzo, Per tutta la notte, c’è tutto un capitolo centrale costruito a partire da fotografie. C’è poi un mio libro che è stato molto poco letto, ma che per me è comunque importante, che si intitola Pres des acacias, e che mi è stato commissionato da una fondazione. Si tratta di un libro dove io commento delle fotografie fatte in un ospedale psichiatrico, che rappresentano degli autistici.Sono tornato sulla questione con Sarinagara e anche nel libro su Nobuyoshi Araki, il mio prossimo romanzo, che sarà pubblicato tra qualche mese. Nel mio interesse per la foto c’entra ancora Barthes. Bataille mi ha aiutato a strutturare il mio pensiero ma penso che l’influenza maggiore, a livello della sensibilità, sia Barthes, sia per quanto riguarda il Giappone che per la fotografia che per il lutto. Rispetto alla fotografia, quello che mi ha più colpito in Barthes è l’idea dell’immagine come impronta. Già in Tutti i bambini tranne uno rifletto su questa idea dell’impronta. Quello che volevo fare in Sarinagara era di scrivere un romanzo che fosse costruito a partire da una serie di immagini e che fosse allo stesso tempo una riflessione sull’immagine. Attraverso Kobayashi Issa e il genere dell’Haiku rifletto su cosa sia l’immagine poetica, attraverso Soseki sull’immagine romanesca e attraverso Yahama Hata, il fotografo che ha fotografato Nagasaki subito dopo l’esplosione atomica, sull’immagine fotografica. Una parte di Sarinagara è composta di capitoli di due pagine, e la mia idea era che, attraverso l’impaginazione, ogni capitolo corrispondesse a una specie di immagine, come un dittico. Barthes paragona l’haiku alla foto, dice che l’haiku, anche se si passano delle ore a meditarlo, lo si legge in un solo sguardo, come la fotografia. Io volevo produrre in maniera romanzesca qualcosa di simile, dei capitoli che fossero come delle istantanee. Purtroppo nell’edizione italiana non hanno rispettato l’impaginazione, perchè mi sono dimenticato di avvertire l’editore.
Nel libro su Araki, che uno dei più importanti fotografi giapponesi contemporanei, riprendo i miei temi di sempre ma interrogandoli a partire dalle sue fotografie e dalla sua esperienza che mi interessa per la ragione evidente che in Araki è presente la doppia problematica del desiderio e del lutto. Araki ha costruito tutta la sua opera fotografica come un’autobiografia, in particolare intorno alla sua relazione con la moglie che è morta precocemente di cancro. C’è quindi tutta una riflessione sul lutto e sull’amore e poi c’è quell’aspetto che fa di Araki un fotografo erotico e pornografico, che mi interessa ugualmente.

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Di Carvelli (del 14/12/2009 @ 08:53:45, in diario, linkato 712 volte)
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Di Carvelli (del 14/12/2009 @ 08:55:58, in diario, linkato 768 volte)

Finito di leggere L'amore nuovo di Philippe Forest. Una lettura che mi arriva e non entro nei termini delle classificazioni letterarie. Dico solo che è un libro giusto per questo tempo. La non-fiction, la problematicità amorosa. Tre pagine in modo significativo mi segnano: p.81/3. Ma è tutta la vicenda che ha un suo significativo dipanarsi di fatti e sentimenti. Paralleli. Importanti. Cito due passi che ho riletto più volte.

"Lo sapevo bene. Qualcosa non andava. Da sempre. Qualcosa che veniva dal fondo della mia vita e che avrei voluto poter dimenticare del tutto. Una crepa, una fessura da cui minacciava di scivolare via ogni cosa. neanche la felicità nuova di un nuovo amore bastava a colmare il vuoto in cui la mia vita versava. Il male doveva essere troppo profondo e troppo antico. (...) Non ero libero di amare come sarebbe stato necessario per essere felice. Qualcuno aveva deciso al mio posto. Chi? Io stesso? Nessuno, forse. E io mi trovavo inerme. In un certo senso impotente. Sì, è questa la parola giusta: impotente, perché anche se riuscivo a compiere tutti i gesti dell'amore, ogni volta non facevo altro che simulare l'appagamento spensierato cui non riuscivo mai ad arrivare".

"E allora, non c'è più niente da fare. Perché, ironia della sorte, quello che si desidera dal profondo del cuore si finisce sempre per ottenerlo. Tutti forse volevamo la tristezza di una vita separata dal nostro amore più vero, la lunga, triste tortura di esserci lasciati sfuggire la verità che un giorno avevamo avuto a portata di mano. E se ora chiedevamo al mondo quella disperazione, potevamo stare sicuri che, senza esitare, ce l'avrebbe data".

 

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