Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Se il mondo è morto di Franco Arminio
Ho cinquant’anni. Quando ne avevo venti non pensavo di arrivare a questa età. Mi sentivo in una combustione che mi avrebbe bruciato prima. Non ero malato, ma sentivo il mio cuore battere troppo in fretta e alla cieca. Con un cuore così, pensavo, non si può andare lontano nel tempo. Usavo il mio cuore per scriverci sopra, lo battevo come si batte un tappeto. Non scrivevo col cuore, scrivevo sul cuore. Una scrittura a oltranza e senza progetti precisi. Non facevo libri. Scrivevo e basta. A volte uscivo con la donna che poi è diventata mia moglie, e prima e dopo l’amore le dettavo i miei versi. Eravamo in una centoventisette verde, in un’Irpinia appena ferita dal terremoto. Tutta quella scrittura era una specie di salasso, un modo per scalciare via da me l’ansia che mi assediava. C’è chi si avventura in lunghi viaggi, chi cerca di disperdere l’ansia muovendosi nello spazio. Io non mi spostavo quasi mai. Ero un avventuriero rimasto a casa e l’ansia cercavo di disperderla estraendo dal mio corpo una montagna di parole. Alla fine, senza che me ne accorgessi, la mia vita ha preso questa forma che mi rendeva al tempo stesso minatore e miniera.
Adesso la mia vita è un poco cambiata. Il paese in cui vivo non è più ferito, è morto. Forse pure il mondo è morto. È un’idea che ultimamente condivido con una persona molto cara. Ne parliamo spesso del fatto che il mondo è morto. Non so bene se pensiamo la stessa cosa, forse si, ma non importa.
Quando ho iniziato a scrivere questo testo non avevo la minima idea di cosa volessi scrivere. Si comincia da una frase, poi se ne fa un’altra. I miei testi nascono dalle simpatie che le diverse frasi hanno tra di loro. Forse un testo per riuscire bene deve avere la fortuna che questa simpatia tra le frasi vada avanti fino alla fine, una simpatia sincera, non appesa alle necessità dell’argomento e neppure dello stile. La simpatia misteriosa che alcune cose del mondo hanno per altre cose del mondo. Anche le frasi sono cose del mondo. Io sto in mezzo a loro, in mezzo alla natura, in mezzo alle persone, ci sto sempre con molta ansia. Non è più l’assedio di un tempo, però, non ho bisogno di scrivere a oltranza e il cuore non è più quello di una mosca appoggiata su una ragnatela.
Se il mondo è morto ci si può preoccupare meno anche della propria vita, si può affrontare la giornata senza l’assillo di dover risolvere chissà cosa, di arrivare chissà dove.
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Molti anni fa tenevo in mano un libro di Raymond Carver. Erano molti anni fa e non c'era ancora minimum fax a cui la fortuna italiana di Carver dovrà sempre moltissimo. Era una riunione di redazione di una rivista appena nata a cui partecipavo e una tipa doveva aver capito male il mio nome così mi chiese "è il libro che hai scritto tu?". Il libro era della Pironti, un libro di poesie appena uscito che recensivo e che ho ancora insieme con l'intera MinFax collection dell'autore e a qualche garzanti. Le ripubblicazioni einaudi per quanto belle non mi tentano (così come per John Fante rimango legato a Marcos y Marcos) ma ho preso in prestito dalla biblioteca l'antologia ultima dell'autore americano (destinata da Carver stesso a raccogliere il meglio dei suoi racconti), Da dove sto chiamando . Ho letto tre racconti. Uno si intitola Intimità ed è la storia di un tipo che va a trovare la sua ex moglie dopo 4 anni e alle 9 del mattino in casa di lei (il nuovo compagno fuori per lavoro). E' sempre duro il rapporto con le ex sarà che qualcosa rimane, per dirla con De Gregori, tra le pagine chiare e le pagine scure (era così?). Carver rende con perfezione questa atmosfera ibrida ma sentimentale. Che è tutta in un "Dice:" con cui vengono presentate le affermazioni della donna. A voi un brano che si conclude con una strepitosa battuta:
"Non ci stringiamo la mano e neanche ci baciamo. Mi fa accomodare in soggiorno. Appena mi siedo, mi porta un caffè. Quindi comincia a tirare fuori tutto quello che le passa per la testa. Dice che le ho causato un sacco di angoscia, l'ho fatta sentire inerme e umiliata. Non c'è da sbagliarsi, mi sento subito a casa".
Questa notte ho ripreso a leggere Vasilij Grossman. Verso pagina 80 c'è una lettera bellissima di una madre a un figlio. Ci sono punti molto belli come quando la donna descrive la visione di un gruppo di ebrei per strada distinguendola da altri gruppi umani sulla strada. E' bello quando esprime la peprlessità sulla morte annunciata di uomini che sanno fare bene mestieri. Come se non si capacitasse. Ma la frase che mi ha colpito (e in fondo sta bene addosso a queste meditazioni) è questa:
Qui ho capito che la speranza non ha quasi mai a che vedere con la ragione, che la speranza è illogica e, credo, figlia dell'istinto.
Premetto che non ho nulla contro il cetriolo in sé. Né come concetto assoluto né come concetto reale. L'ortaggio, il nutrimento. Il vantaggio del suo basso contenuto calorico. Il fatto che so che alcuni sono intolleranti allo stesso come al cocomero eccetera. Saussurrianamente potrei pure distinguere significato e significante e non mi sfugge il fatto che sia una limpida metafora per altro. Metafora che non mi è avulsa. Come metafora, come giro di parole per dire cose sgradevoli (e qui parlo per me). Metafora che ritengo pure di aver usato e forse talvolta abusato. Con ingenuità e infantilismo. Sono consapevole altresì che ne esiste un uso strumentale e che tale uso (improprio) sia scandaloso per alcuni. Eppure fino a qui ho pieno rispetto e non mi scandalizzo. Tutt'altro. Ma - e non credo che sia qui la prima volta che lo manifesto - mi irrita l'uso del sesso in pubblicità. Non mi piace. Ma non perché mi irriti in specie morale o tocchi una sfera pudica. No, mai. E' solo che non mi piace l'associazione sesso/vendita. E non voglio allargare il campo: non parlare di strade, né di politica, né di leggi di tutela. E di certo c'è un discorso "femminile" che non posso far finta di ignorare. Ma al di là di qualsiasi di questi discorsi e fatto salvo qualsiasi uso secondo o terzo di quell'ortaggio di cui sopra mi piacerebbe che chi vende maglioni, macchine, merendine, salotti o cucine quello vendesse. E magari anche lo status symbol di quello ma non il privato in quello. Ma viviamo un'altra stagione e, fuori stagione, e fuori contesto, sappiamo ora che il privato (l'iperprivato) è sempre più pubblico e pubblicizzato. E questo non mi piace. Proprio perché amo pervicacemente il privato tra l'altro confermandomi nel fatto che esista questa parola opposta a un'altra che qui riutilizziamo noiosamente e un po' indispettiti: pubblico.
Di seguito la querelle. www.affaritaliani.it/coffeebreak/sisley_modelle170910.html
Ho smesso di credere al caso come si smette di fumare. All'improvviso non ho più comprato il pacchetto. Eppure ho spesso voglia di fumare. Spesso, se vedo gli altri accendersi una sigaretta, sono tentato di chiederne una. Anche se so che nuoce gravemente alla salute. Anche se so che è un brutto vizio, anche dispendioso. Ho smesso di credere al caso, alle coincidenze. Si può dire che sono fuori pericolo. Di tempo ne è passato e davvero si potrebbe dire che ormai non fumerò più. Anche se è un campo in cui anche la scienza mette molti “forse”. Eppure sono fermamente convinto che non mi farò ingannare dalle fatalità come se fossero un prodotto autonomo di un’imperscrutabile volontà superiore, o inferiore. Insomma, se avrò la forza di dire sempre no un giorno guarderò al me che credeva nel caso con un po’ di compatimento. Come si parla a distanza di uno che ha avuto un brutto vizio o un male da cui è guarito. Ma anche i medici su questo avanzano continui allarmi di recidive. Che vizio stupido che avevo, penserò. E quando vedrò gli altri accendersi un “che coincidenza!” li guarderò con quella pena che si ha verso chi non riesce a fare a meno di qualcosa che gli fa male. Solo talvolta, in giorni un po’ speciali, penserò “cavolo, se fumassi ancora… a quest’ora mi accenderei una bella sigaretta e chissenefrega di tutto…” Ma resisto. Resisterò, lo so. E resisto, resisterò perché ho sufficienti prove nel tempo per poter pensare così. Il Caso non esiste, le Coincidenze obbediscono in realtà a una meccanica – a volte a me incomprensibile – che però dà sempre risultati probabili e avvicinabili.
Ho pensato tutto questo ieri osservando il mio gatto Google. Un gatto trovato e per giunta ineducato (prima dalla Natura e poi da me). E anche se andrebbe da sé, un gatto autonomo in maniera anche più autonoma dell’autonomia della specie. Non posso pensare che non mi voglia bene. Come molti – per fortuna non solo animali – mi ha mostrato nel tempo di volermene. E’ il modo di quel “volere” che non mi è del tutto chiaro. Rarissimi accessi di dolcezza, commoventi, appaganti, in mezzo a una continua aria di sfida, litigiosità, competizione. Sta lì che sembra dirmi “conquistati il mio amore, la mia fiducia”. E tutto questo, purtroppo, non è la prima volta che accade nella mia vita. Tutto questo è la mia vita. Ragion per cui ieri ho ripensato al Caso come al continuo e inflessibile ripetersi di un evento speciale ma singolare (e proprio) che abbraccia tutta la mia vita indipendentemente da qualsiasi scelta ma con regolarità. Forse se stessi attento riscontrerei questa associazione di leggi nella crescita delle mie piante, nel rapporto con il droghiere, nell’acquisto delle moto, nella scelta dei vestiti.
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