Immagine
 letto da giulia... di Carvelli
 
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Cogliamo fiori, prendili tu e lasciali sul grembo,/ e che il loro profumo renda soave il momento -/ questo momento in cui tranquillamente non crediamo in niente,/ innocenti pagani della decadenza./ Almeno se sarò ombra prima, ti ricorderai poi di me/ senza che il mio ricordo ti bruci o ti ferisca o ti commuova,/ perché mai intrecciammmo le mani, né ci baciammo,/ né fummo altro che bambini.

Fernando Pessoa
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Di Carvelli (del 01/08/2006 @ 08:31:56, in diario, linkato 2026 volte)

Un libro è la sua copertina? Un libro è anche la sua copertina? Forse no ma la tara di questo cambio di immagine  nell'edizione economica del libro della Munro (Nemico, amico, amante... che semplifica un titolo inglese forse per noi meno significativo, per noi oggi?) opacizza la bellezza della prima edizione (la bella fotografia di Fulvio Ventura della donna ad un caffè). La domanda è: è giusto che l'edizione economica mantenga l'immagine della prima? E' giusto che sia la versione low cost dell'altra? Vorrei fare la stessa dissertazione su Dance dance dance di Murakami o rivelare la mia affezione per Un cuore così bianco nella versione Donzelli. Inutili edonismi? Affezioni? L'altro giorno uno scrittore (durante una presentazione di Perdersi) sottolineava come solo ora gli è permesso di dire la sua sulle copertine. Lo diceva giustificandosi per l'immagine in copertina di uno dei suoi primi libri. Quanto è importante poter dire la propria sull'immagine in copertina?

 

 

Allego di seguito un'inchiesta di qualche tempo fa da www.librialice.it

Inchiesta - Quanto conta la copertina?

Che ruolo riveste la copertina in un successo editoriale? E abitualmente chi la sceglie? Abbiamo rivolto queste domande ad alcuni attori del mondo del libro: scrittori, editori, grafici. Le risposte costruiscono un quadro piuttosto completo della situazione italiana, ma anche di quella internazionale. Una linea sembra prevalere: la copertina ha un ruolo abbastanza importante nel lancio di un libro e ne può indicare i contenuti in modo addirittura stupefacente, ma può anche essere “respingente”. È una scommessa e un rischio, comunque una scelta in generale molto ponderata.

Gli autori

Abbiamo chiesto ad Antonia Byatt, scrittrice con particolare competenza in ambito artistico, che importanza attribuisce alla copertina, in particolare per il suo Natura Morta così evocativo già nel titolo, e se sceglie, almeno nella versione originale, le immagini che vengono proposte al pubblico.
Sì io richiedo che venga stipulato e precisato nel contratto una clausola che mi consenta di approvare la scelta della copertina. Tuttavia non credo che uno scrittore capisca sino in fondo il meccanismo del marketing editoriale che portano a una determinata decisione. È ridicolo che gli scrittori, come spesso fanno, portino fotografie fatte da amici... Io non lo farei mai, ma mi interesso di copertine e mi permetto di suggerire delle immagini. Nel caso di Zucchero, ghiaccio, vetro filato c’è un’immagine polare con ghiaccio e neve che sono stata io a suggerire dopo averla trovata in Norvegia. Ho visto che funziona molto bene su sfondo giallo (in edizione britannica) e altrettanto bene su quello bianco dell’edizione Einaudi. Non mi piacciono le fotografie utilizzate per le copertine, specie se sono ritratti. Con un’unica eccezione: è stato ristampato di recente negli Stati Uniti il mio primo libro, The Shadow of the Sun (L’ombra del sole) con una fotografia di due piedi: sono due piedi degli anni 50 e non si vede il viso perché la testa è completamente tagliata. È un’immagine che amo moltissimo, con quella luce che viene da dietro... Preferisco comunque riproduzioni di disegni e dipinti, come quello di Casorati della copertina italiana di Natura morta. Alcuni anni fa andai a Torino per un seminario alla scuola Holden ed ebbi occasione di cenare da Casorati. Questo quadro mi piacque talmente che lo convinsi a cedermi i diritti di riproduzione.
Il romanzo che ha reso molto popolare in Italia David Grossman, Che tu sia per me il coltello, ha un ritratto in copertina estremamente evocativo, forse una delle concause del successo immediato del romanzo sul grande pubblico. Anche il titolo è davvero carico di suggestioni: lo scrittore israeliano ha sempre, anche nei romanzi successivamente usciti in Italia, mostrato particolare cura per questo tipo di scelte. Ma a chi va il merito di tutto ciò? Ecco come lo scrittore ha risposto:
La casa editrice mi consulta sia a proposito dei titoli che delle copertine, però mi fido del mio editor perché so che conosce gli editori italiani molto meglio di quanto li conosca io. Quello che posso dire è che so molto bene ciò che non voglio: ho sempre la possibilità di scegliere, per esempio, fra le fotografie che verranno messe sulle copertine dei miei libri. Conoscerete, forse, l’aneddoto che sta dietro la copertina di Che tu sia per me il coltello, questa storia sorprendente, stupefacente, che recentemente si è conclusa purtroppo con la morte della donna del ritratto. Quanto ai titoli: in ebraico i titoli dei miei libri sembrano bizzarri, quasi incomprensibili, ma è successo che dopo un po’ siano diventati frasi entrate nel linguaggio comune, quasi degli slogan, applicabili a diversi aspetti della vita. È successo per Il libro della grammatica interiore, è successo per Vedi alla voce: amore e anche per Ci sono bambini a zig-zag. Forse in Italia il clima, da questo punto di vista, è più conservatore. Per esempio, il titolo del primo racconto di Col corpo capisco (quello a cui ho accennato) è stato tradotto in italiano con “Follia”, in ebraico invece è una parola che ho inventato, cioè ho creato un neologismo, che letteralmente significa “render se stessi folli”, più precisamente ancora, “infiammare se stessi fino a portarsi al grado della pazzia”. È esattamente quello che fa Shaul, il protagonista. Mi chiedo come potrebbe mai essere tradotta un’idea del genere in italiano, ed è per questo che è stata scelta una traduzione forse più conservatrice come, semplicemente, “Follia”, che non copre, però, l’intero significato del neologismo ebraico.
A uno scrittore italiano molto noto e amato, Giuseppe Culicchia, libraio in un passato non remoto, chiediamo quanto la copertina di un libro abbia importanza, secondo lui, nel determinare il successo o l'insuccesso di un’opera
Sì, in base alla mia esperienza di libraio devo dire che la copertina di un libro ha naturalmente la sua importanza nel determinarne il destino. Ricordo su tutti il caso dell'esordio di Banana Yoshimoto: Kitchen aveva una copertina molto bella, piena di giapponesine, capace di attirare l'attenzione del cliente e di incuriosire (come peraltro, va detto, il nome dell'autrice).
Raramente l'autore ha la possibilità di scegliere la copertina. E, fermo restando che i grafici dovrebbero poter fare il loro lavoro di grafici, non sempre è un bene. Per quanto mi riguarda ho scelto la fotografia per la copertina del Paese delle meraviglie perché mi pareva che contenesse tutto il libro: vitalità dell'adolescenza, voglia di ribellione, innocenza, e però anche l'incombere di qualcosa. e poi c'era la quercia, insomma era a mio modo di vedere perfetta. non ho condiviso la scelta del lettering, ma non si può avere tutto.
A chiudere questa panoramica Elena Loewenthal, che ha scritto narrativa e saggistica, due generi che richiedono sicuramente un approccio grafico differente. Quale importanza attribuisce alla "giusta copertina" per il successo di un libro? Con quali criteri sono state scelte le sue copertine?
Ho un rapporto viscerale con i miei libri, per me la copertina viene come dire dopo tutto il resto. Però so che ci sono ragioni commerciali importanti e per questo mi affido sempre all'editore, che ne capisce più di me... Diciamo che cerco di rispettare le sue scelte, se non vedo proprio qualcosa che sento estraneo a ciò che ho scritto. Il mio editore mi sottopone sempre le prove di copertina, ne discutiamo democraticamente. Ma da parte mia cerco di rendermi conto che, per la scelta della copertina, l'editore ha di gran lunga più esperienza di me.


Gli editori

Particolarmente interessante il parere di Giulio Mozzi, che si colloca a metà strada tra quello dell’autore e dell’editore. In realtà riveste entrambi i ruoli, e può darci un’idea di come si compensino le esigenze e le scelte.
Quale importanza può avere la "giusta copertina" per il successo di un libro per un autore-editore?
Non rispondo né come autore né come editore: ma come lettore. So benissimo che una copertina fatta in un certo modo può provocare l'estensione del braccio destro e la presa in mano del libro. Poi, ovviamente, nel libro ci si guarda dentro. Ma ci sono copertine che trovo respingenti (quelle con i pittori fiamminghi, quelle con il modernariato pop illucidito con Photoshop ecc.) e copertine che trovo attraenti (quelle di carta non patinata, quelle con piccoli segni fatti a matita, quelle con colori saturi ecc.). La copertina quindi è importante. (Lo stesso discorso vale per i dischi).
Tornando all’attacco, come autore chi sceglie le tue copertine e, se le scegli tu, con quali criteri?
In dodici anni che pubblico, mi è successo di tutto. Per il primo libro di racconti (presso l'editore Theoria) proposi un'immagine, che fu accettata. Per il secondo (Einaudi), quando dissi che avevo delle proposte da fare mi dissero che non era affar mio. Per il terzo (Mondadori) l'editore mi fece una proposta che mi convinse subito. Per i primi due libri fatti in Einaudi Stile Libero, vidi la copertina quando mi arrivarono le copie a casa; per il terzo mi fu chiesta un'opinione, quando la espressi qualcuno si irritò, sul libro trovai l'immagine che meno mi andava a genio. Per il poema e l'ultimo libro di racconti (Einaudi) portai delle immagini e nessuno ebbe niente da ridire.
Quanto ai criteri: non saprei dire. Secondo me non ha molto senso parlare di "copertina": è più giusto parlare di "confezione", includendo nella confezione anche il titolo. L'ultimo libro che ho fatto, a quattro mani con Dario Voltolini, Sotto i cieli d'Italia, ha un titolo che è stato generato dall'immagine della quale mi ero innamorato. Il criterio, se un criterio è, è questo: il libro è un oggetto, ogni sua parte deve corrispondere alle altre.
Nelle vesti di editore invece come ti comporti? decidi tu, decidono gli autori, scegliete insieme?
Dipende. C'è l'autore propositivo, e l'autore che no. C'è l'autore ipercritico e quello al quale va bene tutto. In linea di massima decide il gruppo di redazione; accogliendo volentieri suggerimenti dell'autore; e tenendo conto delle sue osservazioni. Non credo che si possa stabilire un criterio. Una collana ha una sua logica grafica, immaginifica. Si può anche dare il caso di un libro per il quale sia impossibile trovare la copertina giusta, a meno di stravolgere la logica della collana. Eccetera. Tutto sommato, credo che sarei per l'improvvisazione, per il "volta per volta". Ma questo, in una casa editrice, è difficile (e rischioso) da fare...
Un copertina “sbagliata” può danneggiare un buon titolo? Lo chiediamo a Luisa Sacchi, direttore editoriale della casa editrice Fabbri
Titolo e copertina certo sono determinanti nell'incentivare l'acquisto o al contrario nello sfavorirlo. Ma anche nel creare un'aspettativa di temi, tenore, sapore che potrebbero poi essere deluse.
Quindi la scelta della copertina è un lavoro delicato e difficile: i criteri? leggere sempre il libro, pretendere che anche il grafico e l'illustratore lo facciano. Scegliere quindi grafici e illustratori che abbiano una vera passione per i testi.
Non esistono compartimenti stagni nel nostro lavoro, la passione per la lettura, l'attenzione per il nostro lettore, il rispetto per il nostro autore devono vederci uniti. Non è importante chi sceglie: a volte l'editor, a volte il grafico, a volte l'autore, più raramente il direttore editoriale. È importante invece come si sceglie. È un lavoro infatti che richiede molta cultura, curiosità e ricerca. Bisogna poi avere in mente molte immagini per trovare quella giusta e amare la fotografia, l'arte, l'illustrazione, non solo la lettura.

A Marco Zapparoli e a Claudia Tarolo, (gli editori marcos y marcos) che hanno sempre avuto copertine particolari e inconfondibili per i loro libri chiediamo “come” e “quando” nasce una copertina.
L'idea per la copertina in marcos y marcos nasce quando i due marcos – Marco Zapparoli y Claudia Tarolo - si rendono conto che è venuto il momento di pensarci e riescono a ricavarsi uno spazio bello sgombro da dedicare solo a quello.
Si parte, naturalmente, parlando del testo: tentando di intuirne la
tonalità, di lasciarne affiorare quadri e immagini. Attraverso un confronto sempre più serrato si arriva al soggetto vero e proprio, procedendo per tentativi, continuando a correggerci a vicenda fino all'idea che convince tutti e due. Che è sempre la somma di più idee. Entra in scena così Lorenzo Lanzi, dal 1997 disegnatore esclusivo della Real Casa.
In un lasso di tempo che, a seconda dell’urgenza, va da tre ore a tredici
giorni, Lorenzo prepara due bozzetti a matita. Lì si vede quanto ha raccolto dell’idea di partenza, dopo averci aggiunto e/o tolto del suo. A volte tutto si presenta già più che bene, e normalmente le copertine migliori sono quelle in cui la “trasformazione” avviene al primo colpo. Altre volte, occorre rifare. e rifare. e tri-fare.
L’autore deve già fare l’autore: fatica non da poco. Per gli aspetti grafici e commerciali meglio riposare nelle salde mani dell’editore, che normalmente
di queste cose si intende. Capita, naturalmente, che dica la sua; ma è meglio per tutti che non diventi una regola.
Una copertina brutta può frenare le vendite, ma forse la cosa peggiore è una copertina sbagliata. Una copertina sbagliata può dare del libro, del suo contenuto, un’idea diversa da quel che è. Quindi, mette il libro nelle mani sbagliate. Il lettore si aspettava un libro completamente diverso!
E il lettore deluso non consiglia poi a nessuno il libro: per noi questa è la cosa peggiore.


Il punto di vista dei grafici

Interessante vedere l’argomento anche dal punto di vista dei grafici che realizzano i disegni ideando un’immagine espressamente legata a quel titolo. Non dunque copertine ricavate da disegni o fotografie preesistenti, ma un lavoro fatto ad hoc in collaborazione con l’autore. È ciò che accade con le edizioni statunitensi di Haruki Murakami che collabora strettamente con i grafici delle case editrici Alfred A. Knopf e Vintage Books
Haruki Murakami lascia molto spazio a Chip Kidd e John Gall che lavorano con lui da molti anni, fornendo loro il manoscritto del romanzo per permettere una lettura meditata del testo. La collaborazione è così riuscita ad “invadere” anche l’area editoriale giapponese: After the quake, con la colorata ranocchia, è diventata anche la copertina dell’edizione giapponese del libro. Segno evidente della soddisfazione dell’autore e della risposta del mercato editoriale.
Come nasce il disegno di una copertina? Chip Kidd dichiara a proposito di una delle più fortunate dei romanzi di Murakami, The Wind-Up Bird Chronicle (L’uccello che girava le viti del mondo):
Murakami non descrive mai la forma dell’uccello protagonista, e in questo caso ho infranto una delle mie regole principali: ho realizzato un’immagine che rappresentasse il titolo alla lettera. Generalmente non si tratta di una decisione giusta, e può sembrare quasi un insulto al lettore. Cosa salva questa scelta specifica è l’astrazione. Nel romanzo quello che il narratore chiama “the wind-up bird” è molto presente anche se non si vede mai. Così ho realizzato un uccello così grosso che solo una parte di esso possa essere percepito singolarmente sulla superficie del libro. E per esprimere ciò che può celarsi dentro un simile uccello, ecco un buco che rimanda a un altro livello.
A John Gall invece il compito di disegnare le copertine delle edizioni paperbacks. Secondo quali linee di lavoro?
I libri di Murakami sono contemporaneamente misteriosi, surreali e un po’ fantascientifici. Ha sviluppato temi antichi come donne scomparse, acque che scorrono, misteriose cavità del terreno. Così come molte azioni, che risultano essere normali, nelle sue storie vengono descritte in un modo particolarmente accattivante: preparare il pranzo, fare la spesa... Volevo copertine originali ma tranquille al tempo stesso. E volevo colori che richiamassero la cultura giapponese contemporanea. Alla fine ho realizzato con pochi elementi una grande quantità di disegni così come accade a Murakami, non dimenticando il gusto un po’ vintage, che anche lui possiede, per cose come il jazz e in whiskey.
Quale la differenza sostanziale dal punto di vista grafico tra la copertina dell’edizione rilegata e quelle tascabile?
La grande differenza è che è necessario mettere più informazioni in una copertina più piccola destinata a un pubblico ancora più vasto. Oltre al titolo spesso vengono inseriti quote, una frase che richiami il successo di vendite della prima edizione, qualcosa sull’autore e talvolta su un premio vinto. Inoltre la copertina deve essere accattivante e richiamare l’attenzione del lettore, perché l’edizione economica non è supportata dalle recensioni.

Di Grazia Casagrande e Giulia Mozzato

Data dell'ultimo aggiornamento: 17 febbraio 2005

www.librialice.it/news/primo/inchiesta_copertina.htm 

 

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Di Carvelli (del 31/07/2006 @ 11:16:42, in diario, linkato 11094 volte)

Recupero un bell'articolo/racconto di Errico Buonanno (uscito su il manifesto qualche tempo fa) che è riuscito a storicizzare e attualizzare un'ossessione infantile ridonandole tempo e spazio. Con brio. 

Il mondo perduto di nonno Ugo
di Errico Buonanno


Non sono passati poi molti anni da quando imperversava la pubblicità della «città del mobile». Il suo patron, ora dimenticato, preconizzava un'Italia diversa, e scopriva Moana...

Dopo due viaggi avanti e indietro su una Salaria nuvolosa, alla ricerca di un fantasma, Roma-Monterotondo, Monterotondo-Roma... mi fermo ad un bar. «Scusi, ma qui siamo già oltre il chilometro diciannove?» Sì, ma di poco: è il ventidue. Bevo il caffè ed intanto scruto la barista che sembra buona e disponibile anche alla chiacchiera. Prendo coraggio: «Senta, ma esiste... esiste ancora la Città del Mobile?» Crede di sì, ma non ne è certa. «E... Nonno Ugo?» Sorride, non può farne a meno, e mi conferma: «È vivo. Però è molto vecchio. Non fa più `Nonno Ugo', ormai.»

È vivo...

Rimonto in macchina e riparto in direzione della capitale. La strada è stretta, incorniciata da un filare d'alberi e da diecine, centinaia di cartelloni pubblicitari di autosaloni, magazzini. Eppure, di Città del Mobile neanche l'ombra («chilometro diciannove e seicento», diceva un tempo la réclame). Che sia magari diventata quel grande centro arredamenti - tanto pubblicizzato sulle radio locali; sedici filiali soltanto nel Lazio - che sorge proprio alla mia destra? Svolto, parcheggio. Sul tetto della costruzione ancora trionfa la scritta, cadente: «Rossetti». Era qui.

C'è stata un'epoca in cui, ce ne rendessimo conto o no, il grande boom, spiritualmente, era tornato. Epoca in cui, con la stessa fiducia, la stessa aria scanzonata che nascondeva gli ultimi brividi della Guerra Fredda e i nostri eterni complessi d'inferiorità internazionale, ci lanciavamo ancora avanti con progetti arditi: si sperperava, si speculava, si costruiva con un identico, incrollabile senso d'immortalità, con un identico sorriso. Candidamente, preparavamo già la strada a questi giorni di noia e paura, senza peccato, come un ruggente capodanno. Per Roma, per il quartiere Salario, per le nascenti, rivoluzionarie televisioni private laziali, quell'epoca, gli anni `80, furono l'epoca di Nonno Ugo. Chi è questo simbolo del tempo perduto?


Un uomo vincente
Al principio della nostra storia Ugo Rossetti era già un uomo a modo suo vincente. Proprietario di un mobilificio tra i più imponenti del paese, battezzato faraonicamente Città del Mobile Rossetti, vendeva con buoni guadagni arredamento per ragazzi, camere da letto e salotti, leader supremo del settore fino giù a Rieti e alle terre ciociare. Basso, grassoccio, i baffi bianchi su una facciozza bonaria: nessuno avrebbe sospettato che quella faccia sarebbe presto divenuta icona.

Parlando col senno del poi, possiamo dire che quest'uomo aveva avuto delle geniali intuizioni berlusconiane prima di Berlusconi stesso. Da imprenditore già avviato capì, all'inizio degli `80, che l'autentica svolta poteva venire solo divinizzando la propria persona, rendendosi personaggio, creando il mito. Si chiamò Nonno Ugo - Piccolo Padre della via Salaria -, si proclamò «sindaco» della sua Città del Mobile e, primo fra tutti, tappezzò Roma e dintorni di cartelloni mastodontici che lo ritraevano sorridente con la nipotina Deborah: «Nonno Ugo è il nonno più buono del mondo! Evviva Nonno Ugo!». In breve tempo, un commerciante come tanti era saltato nello spazio della fantasia popolare («Stai sempre in mezzo, come Nonno Ugo!»).

Erano gli anni in cui nascevano le tv private. Nonno Ugo lanciò su tutte le frequenze regionali la più massiccia campagna di spot che si fosse mai vista. Non gli bastava: osò di più. Capì in un attimo la vera potenza dello show, e reclutò al più presto una piccola schiera di attori in declino, presentatori un po' spiantati e ragazzotte di belle speranze. Nell'anno 1985 un mini-varietà condotto da Silvio Noto assegnava il Premio Venere Città del Mobile alla «donna più bella del mondo», una ragazza sconosciuta che si muoveva sensualmente nei locali del mobilificio: una scoperta, Moana Pozzi.

Ma Ugo Rossetti aveva occhio anche ai bambini: una sigletta proverbiale, con la sua nipotina Deborah che dipingeva una stanzetta di mille colori («Sì, sì, sì... giallo!») su sottofondo dei Ricchi e Poveri, introduceva una trasmissione che per noi, nati sul finire degli anni `70, ha ancora un certo che di mitico, di storico, un concentrato di estetica trash: lo «Sputagiò». Niente popò di meno che Pierino, alias Alvaro Vitali, conduceva questo spazio in cui i bambini erano invitati a picchiare con un martellone in gomma su una speciale macchinetta che sputava giocattoli vari. Accanto a lui, Tata di Ovada, ex impiegato datosi all'arte del clown, che presto avrebbe soppiantato del tutto Pierino nella conduzione del programma...


Un mondo buono e rattoppato
«Dov'è finito tutto questo?» mi domando, mentre una provvida commessa mi assicura che la nuova azienda non dipende dai Rossetti. In quest'istante, esattamente, mi rendo conto del tempo trascorso, vedo la discrepanza tra quest'efficienza asettica e il mondo buono e rattoppato di quegli anni. Esco e passeggio lungo capannoni in disuso, strade sterrate, due cani randagi che mi annusano le scarpe. È qui che, sulla porta di un cadente box dismesso, sta affisso un cartello: «Affittasi. tel. 320-17...» e sotto scritto: «Nonno Ugo».

Mi guardo attorno con il cuore in gola. Sul muro accanto c'è un'indicazione anomala: «Nuova Democrazia Cristiana, sezione De Gasperi». Una freccia indica una porta. La stessa porta è sormontata da un cartello: «Città del Mobile Rossetti». Ma non è affatto una città: è una stanzetta, un nonnulla! Dove mi trovo? Cos'è questo? Una donnina esce un po' sospettosa per domandarmi che vada cercando.

«Mi servirebbe... una libreria... Ma siete ancora la Città del Mobile? È tutto qui?»

«Smerciamo le ultime giacenze.»

«E Nonno Ugo?»

Ride: «Ha telefonato adesso. Venga». All'interno, un paio di letti, pochi comodini. E una gigantografia di Ugo con la piccola Deborah.

Forte, intuitivo, anticipatore per istinto, c'è stato un tempo in cui il Rossetti s'era lanciato nella fiction, ovvero le telenovelas, quelle che all'epoca dal Sud America invadevano i nostri giovani teleschermi e che condiva chiaramente con il suo stile personale. Primo copione: lui e lei devono sposarsi e vanno alla Città del Mobile. Ma il padre della sposa, nobile fiero ed altezzoso, si oppone quando scopre che il ragazzo è un trovatello. Interviene Nonno Ugo che si dichiara «conte di Rocca Rocchetta» e investe il giovane di un titolo nobiliare. Secondo Copione: Renzo e Lucia visitano la Città del Mobile. Ma Don Rodrigo, commerciante senza scrupoli, vuole aggiudicarsi la vendita della camera da letto. L'avvocato elettronico Azzecca-garbugli dichiara: «Chi più alto lo sconto farà, i suoi mobili venderà» e il buon Rossetti spiazza l'altro facendo uno sconto del 50%. Terzo copione: i genitori di Antonio e Cleopatra litigano sullo stile della camera da letto (romana o egizia). «Fior de fioretti... risorvece er problema, Ugo Rossetti!» Nonno Ugo prende una cetra e intona allora uno stornello: «Il problema, questo è chiaro, è un problema di denaro... Fior di napalo, perciò le camere ve le regalo!»

Tale era il sogno di quest'uomo semplice: una celebrità basata sul commercio, ma allo stesso tempo un commercio basato sul paternalismo, sul regalo, sullo scherzo. Lo spazio utopico della Città del Mobile, quello Stato ideale (sicuramente autoritario) che sopravvive nella memoria di noi bambini dell'epoca, era in realtà il punto cruciale, il momento di scelta, la cellula staminale in cui, nell'Italia rampante e tuttavia ancora ingenua di quel secondo e ultimo boom, erano contenute entrambe le strade che potevamo prendere. In Nonno Ugo, è chiaro, c'era Berlusconi. Ma in Nonno Ugo c'era anche l'Italia bracciante, sognatrice, brava gente, l'Italia che stava crollando.

Venne il declino, e fu implacabile. Nel `91 la gestione passò al figlio; lo stesso anno, un grande rave - che blasfemia! - veniva organizzato nottetempo nei locali del mobilificio: gli anni `90 travolgevano con il loro disincanto il grande sogno di Città del Mobile.

In breve tempo gli affari calarono, e Ugo commise l'errore di tradire se stesso, fino a imitare l'uomo che gli era sempre stato subalterno quanto a intuizioni, quanto idee: tra il `94 e il `95 anche lui fece la sua fatale «discesa in campo», candidato sotto i vessilli dello scudo crociato a ogni elezione nei seguenti dieci anni senza riuscir mai a essere eletto.

Cosa è restato di quel mondo?


La macchinetta triturata
Lo Sputagiò è rimasto alcuni anni abbandonato in un angolo del mobilificio. Voci su internet assicurano che l'infernale macchinetta - interamente di cartone - sia quindi stata triturata e fatalmente riciclata.

Giovanni Taffone, alias Tata, «clown della simpatia» (anni sessantacinque), è ancora oggi contattabile presso il suo sito www.geocities.com/tatadiovada/, sul quale offre esibizioni a domicilio, foto e un curriculum in cui si vanta degli «elogi personali del principe Ranieri di Monaco» e di ben due apparizioni televisive durante i primi anni `70. Di Nonno Ugo non si fa parola.

La piccola Deborah Rossetti è oggi una splendida ventiseienne. Si è laureata e sta muovendo i primi passi nella carriera di scenografa con cui continua, a modo suo, la tradizione familiare.

Alvaro Vitali sta lentamente riemergendo da un quindicennio di dimenticanza. Vestiti per l'ultima volta i panni del grande Pierino nel ciclo di spot low-budget per i magazzini Mas di Roma, ha cavalcato l'onda della riscoperta del trash riuscendo a ritagliarsi apparizioni marginali: ha interpretato se stesso nel disastroso lungometraggio Ladri di barzellette e ha affiancato l'imitatore di Montezemolo a Striscia la notizia. L'ultima interpretazione è stata in Domani è un'altra truffa, il film tv di Pingitore con cui al momento, ad ogni modo, parrebbe essersi salvato dall'oblio.

Moana vive ancora oggi, bella e irreale, nel cuore caldo del paese: già mito, già santa. In occasione dei dieci anni dalla sua scomparsa, nel 2005, sono tornate alla ribalta voci insistenti intorno al suo vero destino: che non sia morta e abbia soltanto organizzato questa solenne messinscena per conservarsi sempre giovane nella memoria dei suoi fan?

Dalla villetta prospiciente la Città del Mobile, Nonno Ugo, ottantenne, guarda in silenzio la scritta «Rossetti» sul tetto del suo magazzino. Ha ancora forza, ancora sogni, ancora tutta l'imponenza di chi fu «sindaco» di quell'utopia ruggente: impero gioioso nei più frenetici anni `80, la terza via tra Russia e America, una Euro-Disneyland ante litteram, Milano Due della Salaria. Resta lì, fermo, riflessivo e cerca d'individuare, forse, il punto esatto di frattura, il labilissimo confine tra ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto essere. Ai bordi della capitale, il nuovo avanza.


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Di Carvelli (del 31/07/2006 @ 09:02:34, in diario, linkato 1398 volte)
Non sempre=mai. Qualche volta=sempre. Adesso=fra un po'. Domani=un giorno. Ognuno crea una sua tabella di riferimento. La sua e la sua con un altro. Con altri. Una tabella è in definitiva una taratura, un puntamento. Ognuno è poi costretto (ad altri che cambiano) a riconsiderarla. Piccole modifiche. Leggeri riposizionamenti generati da un puntamento e una taratura diversi. Come è più corretto? Non cambiare o cambiare in base alle circostanze? Il peccato più grave è la fissità ottusa o la aleatorietà? O esiste una gradazione anche qui?
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Da www.giugenna.com

Genna su La Porta: fiction vs faction

Sul Corriere della Sera, pochissime righe a supporto dell'articolo che celebra Luoghi comuni di Pino Corrias: ne è autore Filippo La Porta che, nuovamente, si schiera per la schiavitù della letteratura alla cosiddetta "realtà" e contro l'immaginario. La risposta dell'autore del Dies Irae, Giuseppe Genna [a destra nella foto; a sinistra, Filippo La Porta].

• CARO LA PORTA, LA TUA REALTA' NON E' LA MIA. E NEMMENO LA LETTERATURA
di
GIUSEPPE GENNA

Poiché la critica vera è quasi morta, rappresentata ormai da grandissimi intellettuali come Citati Cordelli Siciliano Canali Mengaldo, dovremmo accontentarci della critica giornalistica? Su questo punto non ho il minimo dubbio: sì. La critica letteraria, sui giornali, accenna, grazie alla capacità di lettori professionali, a suggestioni intorno a un libro, e divulga affinché il libro venga letto. La critica vera, invece, non è critica: è teoria della letteratura o non è. La teoria della letteratura non ha praticamente rappresentanza sui quotidiani o sui mezzi di comunicazione e, da scrittore di ormai lunga navigazione nel cosiddetto "àmbito editoriale", è circa un ventennio (diciamo dalla fine di Alfabeta) che ravviso la pubblica assenza di teoria della letteratura su media massivi (discorso altro, ovviamente, per i libri: ne escono, e di ottimi). Soltanto gli intellettuali di cui ho fatto i nomi sopra sono recentemente intervenuti (e recentemente vale qui per un periodo, diciamo, di cinque anni: il che è tutto dire) con potenza e profondità, per aiutare gli scrittori a chiarire le tenebre in cui sono immersi nell'affrontare il presente. Ogni tanto, però, non si sa come, qualche eccezione sfugge al monolitico discorso del presente mediatico: appaiono brevi pareri che hanno tutto il tono di dettami iscritti nell'ordine di una teoria della letteratura. Come il pezzo di spalla, oggi su Corriere, alla recensione entusiastica a Luoghi comuni di Pino Corrias. Un libro che esce in questa collana, 24/7, e che, va detto, ha tratto in inganno il titolista del prestigioso quotidiano di via Solferino. Il titolo del pezzo sul libro di Corrias è infatti Il romanzo italiano si rimette in viaggio, mentre a rimettersi in viaggio è un giornalista e un narratore come Corrias, che non ha scritto nessun romanzo, bensì una raccolta personalissima di reportage letterari e per questo assai significativa e interessante, capace di coniugare l'occhio clinico di Capote e la pietas di Piovene. Il titolo dà comunque la stura a un brevissimo elzeviro di Filippo La Porta, che non è un teorico della letteratura, bensì un critico direi generalista, il quale stende un non tanto orfico decalogo (anzi: un monologo secco) il cui sunto è: che gli scrittori italiani contemporanei scrivano faction, la letteratura è avulsa dalla realtà, si metta a inseguire la realtà e la racconti. E' una posizione bennota di La Porta, soprattutto per chi nei mesi scorsi ha frequentato la Rete e le polemiche letterarie esplose nella blogosfera. Posizione da cui mi permetto di dissentire e alla quale rispondo, con tutta la stima che porto per un intellettuale intelligente come Filippo La Porta.
Quando si prendono posizioni come quella pronunciata da La Porta, si deve essere cauti, perché si è nel regno della teoria della letteratura, che ha il suo cominciamento nella Poetica di Aristotele e non può scendere al di sotto dell'asticella fissata dallo Stagirita. Altrimenti, si tratta di opinioni: e non è che le opinioni non costituiscano realtà - la realtà essendo fatta di opinioni, anche, e non soltanto di fatti sociologicamente trattati dal regime mediatico, che sarebbero il cerchio di realtà a cui La Porta si ispira, suggerendo a me e ai miei colleghi di inseguire tali fatti e metterci tutti allegramente a inventare il meno possibile, perché l'invenzione è una fola, un immaginario, capace di farti espellere da viscere ambigue romanzi fluviali a ogni stagione. Magari ci fossero più romanzi fluviali a ogni stagione, caro La Porta! Romanzi fluviali alla Wolfe, alla Mailer, alla Roth quando è fluviale, alla Ellis, alla Houellebecq! Gente che, la faction, l'ha fatta quarant'anni orsono (Mailer e Wolfe, soprattutto - dico il Wolfe non tradotto in Italia) e che si è convertita al romanzo puro, al romanzo che, attraverso l'immaginario, scruta le pieghe della storia. E quando fa faction, come il Houellebecq di Lanzarote, è chiaro che la usa come prodromo per la grande narrazione, in questo caso de La possibilità di un'isola.
Per fare teoria della letteratura bisogna avere una solida conoscenza della filosofia, che, in quanto solida, ha talmente saturato i processi sinaptici, da costituirsi in visione del mondo: in visione della realtà. Il problema della posizione enunciata da La Porta è infatti di ordine filosofico: a quale realtà dovrebbero ispirarsi gli scrittori? Che realtà ha in mente La Porta? Dovrebbero i narratori inseguire crimini o grandi fatti? Non insegna nulla il fatto che nessuno tra i grandi scrittori americani si è messo a scrivere un romanzo esplicitamente dedicato all'11 settembre? La Porta sembra convinto che la realtà sia mediata: una falsità filosofica, perché nulla media la capacità d'essere e, quand'anche la rappresentazione mediale influenzasse la capacità di sentire e pensare, resta il fatto che gli scrittori non seguirebbero questa strada: non giocherebbero la partita mettendosi a rincorrere, sul piano del racconto, la realtà che altri mezzi, cronachistici o analitici in maniera indecente e superficiale, sanno raccontare con immagini e retoriche preformattate (come la tv che, rubata la retorica alla letteratura, va in crisi perché, dopo un po', la retorica non basta più: serve l'immaginario). La realtà non è quella a cui pensa La Porta e sfido l'amico Filippo a elencarmi una lista di dieci autori nel mondo che fanno quanto dice lui che dovrebbero realizzare gli italiani contemporanei. Forse Ellroy con il suo ultimo, splendido, Jungletown Jihad? Ma lì siamo ad altezza Burroughs, se non ce ne fossimo accorti. Quali sono le faction che stanno costruendo l'immaginario? Non certo quelle di Carlo Lucarelli, che va a mettere le mani nel fango per portare alla luce un immaginario storico di cui non si sapeva nulla (o se ne sapeva, ma in pochi) e che riesce nel miracolo di compiere l'operazione non con furia, ma calma oratoria. E non certo la congiuntura settantina di Romanzo Criminale di De Cataldo o dell'ultimo Arpaia: romanzi, per l'appunto, fluviali, ispirati certo a una realtà storicizzata (e la storicizzazione è comunque una mediazione mentale: non tanto diversa dalla catodizzazione dell'evento...), ma devianti secondo canoni di cui solo la letteratura vera dispone.
Però, forse, quelle poche righe di spalla in una pagina del Corriere sono quello che sono: un riassunto troppo limitato di quello che negli elzeviri della Gazzetta dello Sport si definirebbe "il La Porta-pensiero". Bisognerebbe concedere a La Porta uno spazio maggiore, per giustificare a dovere cosa pensa che sia la realtà e per difendersi dall'amichevole accusa che gli muovo: cioè che la realtà a cui lui pensa è già di per sé il nemico della letteratura, l'ostacolatore - la realtà mentalizzata e mediata, non la possibilità infinita dello scatenamento a cui conduce l'immersione della storia nell'immaginario della letteratura.

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Di Carvelli (del 28/07/2006 @ 08:42:31, in diario, linkato 1462 volte)
Ormai sembra impossibile dissentire. I picchetti dei distributori incrociano le braccia sull'ingresso della metro. Sembra arduo liberarsi da questo volantinaggio coatto. L'ortodossia rivoluzionaria del giornale a 0 lire obbliga ad allungare la mano. Ci si vede costretti a passare forzando il blocco editoriale delle loro copiette striminzite o ad accettarne il dono. La ritrosia è inattesa. Li spiazza e li delude, li innervosisce. E' la dittatura dell'omaggio, del regalo. Della pubblicità (in senso ultimo) condita con info. Prima espressione: info+intrattenimento+pubblicità=televisione. Da cui (seconda espressione)televisione+carta=free press. Varcato il confine a fatica si entra in vagoni che sono uno sfogliare di ali di farfalla. Un minuto, un'idea, delle idee. Una cultura veloce ma efficace. E forse anche la costruzione (economica cioè gratuita più lo sforzo della vista) di una serie di certezze, sucurezze, sicumere.
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Di Carvelli (del 27/07/2006 @ 12:21:34, in diario, linkato 1482 volte)
Chissà che cosa ricorderemo di questo tempo. La tua testa reclinata appena sulla mia spalla mentre una voce turca dall'altoparlante ci dice di fare quello che sappiamo già: allacciare e slacciare le cinture, alzare e abbassare lo schienale, chiudere il tavolino. La leggera pressione della tua testa, attutita dal cuscinetto leggero dell'orecchio e un sonno che non si può dilazionare, rinviare. Lo stesso sonno di te bambina, di me bambino. Di tutti i bambini di tutte le gite scolastiche e/o familiari. La chiusa sfibrata di una pausa vacanziera, di una gita fuoriporta ("fuoriporta": nella nostra infanzia ignara si tramandava ancora lessicalmente una pianta già superata da piani regolatori tentati e falliti), di un andare altrove - case di parenti? battesimi? cresime? comunioni? degenze ospedaliere? - da cui si tornava spossati e la macchina era un anticipo incolpevole del letto. Appoggiare la testa alla spalla di qualcuno: ecco la radice della serena appartenenza, l'intimità, la sicurezza, la fiducia. Di più. Mi dici che "vuoi di più". Ti dico che "voglio di più". Che non basta, diciamo. Che "non è questo", pensiamo o raccontiamo ad altri noi, noi tutti.  Decliniamo un altro fumoso. Non sappiamo dire come diradare la nebbia di quel che ci manca ma dichiariamo cecità e scontentezza. Al massimo piangiamo tempi migliori. Di noi migliori. Ma un giorno, chissà quando, ricorderemo solo quella sopportabile (perché onorevole, fiduciosa, intera) pressione di un orecchio e di una testa. Non più di questo.
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Di Carvelli (del 27/07/2006 @ 08:54:24, in diario, linkato 1599 volte)
Non dirò mai, ad esempio, "tre etti (e tutte le sue varianti) di pane sciapo (e tutte le sue varianti)". Non dirò mai "è rimasto del pane senza sale?". Non dirò mai "va bene lo stesso" a chi rimarca che quella forma è sciapa. Viceversa, dove servirà (Toscana? Umbria?) sarò pronto a specificare che lo voglio proprio col sale e che "no se è senza sale no". Piuttosto niente (mi dirò a mente) o a loro "è rimasta un po' di pizza? panini all'olio?" Perfino il pane in cassetta, i crackers, i grissini... Ma il pane sciapo no. Eppure ieri sera ho indicato un'unica forma di pane in una rosticceria e ho finito per mangiare pane sciapo. Senza gusto e con rassegnazione.
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Di Carvelli (del 26/07/2006 @ 09:31:56, in diario, linkato 1529 volte)

Il passeggiatore solitario

Leggevo Il passeggiatore solitario di Sebald, un libriccino sulla figura di Robert Walser, e sono rimasto colpito da un passo in cui si cita Walter Benjamin sui personaggio dello scrittore svizzero: essi verrebbero "dalla follia, e da nessun'altra parte. Sono figure che hanno la follia alle spalle e perciò restano sempre impregnate di una superficialità così lacerante, così totalmente disumana, così imperturbabile. Se si volesse riassumere in una parola ciò che hanno di gioioso e inquietante, si potrebbe dire: sono tutte risanate". Non so cosa mi colpisce. La dialettica degli opposti, la sottile linea di confine tra due stati (dell'anima), una spiegazione seconda (lì dove c'è una spiegazione prima)? O forse un presentimento realizzato? Quello di guardare all'opera dello scrittore svizzero (con passione, con ammirazione, con gratitudine) come ad una panacea dell'inquietudine (quali altri scrittori alla mia lettura la stessa sorte? Thoreau? Handke del Canto alla durata? Pessoa del Libro dell'inquietudine?). Quello di aver sempre letto la sua opera come la prova di una guarigione, un medicinale ottenuto per veleno, come un siero benefico per il morso di vipera ottenuto dal suo stesso veleno. 

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Di Carvelli (del 25/07/2006 @ 14:11:12, in diario, linkato 1967 volte)

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Di Carvelli (del 25/07/2006 @ 09:20:26, in diario, linkato 1474 volte)
 Ieri ha piovuto, io zappettavo un po' il giardino della casa e piantavo i rampicanti che avevo nella casa di prima in vaso. Chissà che faccia avranno fatto (le piante) magari la stessa che facciamo noi quando ci togliamo le scarpe dopo una giornata di duro cammino? Magari, come è ovvio, non è una buona stagione per mettere in terra nulla. Ma poi ha piovuto e ho pensato "vedrai che ora quelle (le piante) capiscono che è un'altra stagione e non c'è problema, si adattano subito". La pioggia mi bagnava la maglietta. Io ero rannicchiato a fare il buco. Avevo due gocce di sudore sul labbro superiore, poi è arrivata qualche goccia di pioggia e si è confuso tutto. Non ha piovuto molto ma il cielo era coperto (le piante vedono?). Se fosse piovuto di più forse sarei rimasto lo stesso rannicchiato a scavare e forse un giorno lo farò, magari con un ombrello. Ogni volta (è capitato solo due volte per ora) che scavo in giardino penso di poter trovare qualcosa: perché il quartiere è vecchio e ha visto giorni di guerra terribile. Sofferenze e fughe, separazioni forzate e incertezze poi diventate morte. E una morte terribile, la stessa che in questi giorni ci lascia inermi o ci spinge pensieri ideologici. E' possibile fare ideologia della morte? La cosa che m'impegna di più in questi giorni è essere felice. Dovrei dire "cercare di essere felice" e risulterei più modesto ma cercare non mi dà l'esattezza dell'azione o me la dà nella sua ovvietà. Forse è questo che m'infastidisce. Nel libro che sto leggendo (Jonathan Safran Foer - Molto forte, incredibilmente vicino) c'è scritto: prima "Gli errori che ho commesso sono morti, per me. Ma non posso ritirare le cose che non ho mai fatto" poi "E' meglio perdere che non aver mai avuto". Alle volte le ricette sono buone ma non sono all'altezza gli ingredienti o ci ostiniamo ad usare quelli sbagliati, o a mischiarli male. Stamattina c'era una bell'aria ma non sono riuscito a capire da nulla se fosse o meno piovuto nella notte. Ma faceva fresco (un po' più fresco) e ho pensato che forse dura ancora un giorno la primavera delle mie piante.
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