Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Conto fino a dieci. Aspetto a parlare. Uno due tre quattro cinque sei sette otto nove... A nove ho un cedimento. E' normale, dice, a nove odora il dieci. A nove il dieci puzza. A nove cedo o sto per. Dieci. I numeri non contano. A dieci spesso non è ancora il caso di cedere al parlare. Bisogna ricontare, dice. Dieci? Sì, dice. Ma quando è il momento giusto? Mai, dice. Non è mai il momento giusto. Conto ancora fino a dieci.
Come un esame appena passato dopo tentativi e delusioni. Due o tre volte e non ancora. Poi il via libera ed è strano. Lo stesso esame, gli stessi libri. Lo stesso professore, le stesse domande. Forse le stesse risposte. La stessa preparazione - ti sembra. Di sicuro la stessa aula, un tavolo o un altro. Ma tu sempre quello. Nessuna emozione. Ora sono qui con queste scarse certezze, con questo vestito beige, con questo silenzio di qualche giorno e le mani lisce, i capelli corti, le poche parole. Ora sono qui e qui resto finché non fa luce sulle domande. Finché non fa giorno e si chiarisce questo mistero del caso. Quello che fa brillare e opacizza le stesse cose, alla stessa ora, nello stesso giorno.
Di Carvelli (del 13/06/2006 @ 12:55:40, in diario, linkato 1984 volte)
Sempre da Il primo amore Tiziano Scarpa su Maupassant e Lui meme (Sull'acqua)
Anticipazione #6
Al termine di un decennio prodigioso, in cui ha scritto sei romanzi e centinaia di racconti, oltre a svariati testi teatrali, poesie, articoli, dopo aver narrato qualunque situazione, la vita urbana e quella in campagna, la pace e la guerra, ritraendo tutte le classi sociali, in questo mondo e in quell’altro (tanto da aver fatto sospettare a qualcuno che di lui esistano due omonimi, il narratore realista e l’altro, autore di racconti soprannaturali), a nemmeno quarant’anni, poco prima di sprofondare nella malattia, ecco che questo formidabile scrittore sfocia in un libro inclassificabile, inaudito.
Ha raccontato tutto, ha attraversato un immenso continente di storie, di scritture narrative: ora sbuca in un paesaggio mai visto, una forma d’arte completamente nuova, assolutamente libera, e feconda per l’avvenire.
Apparentemente Sull’acqua racconta con tono confidenziale una breve navigazione da Saint-Tropez a Montecarlo, concedendosi qualche divagazione: indimenticabile quella che ricostruisce le vicissitudini del cadavere di Paganini (sembra quasi che l’autore, consapevole della sua fine imminente, stia cercando di imparare come stare al mondo da morto).
Ma Sull’acqua è un libro che si sporge sul secolo venturo, anticipandone le sperimentazioni più ardite. Dopo aver narrato il narrabile in una carriera letteraria bruciante, con questo libro l’autore inventa una scrittura dove può succedere qualunque cosa, racconto e pensiero, ci offre il capostipite di una forma inedita, né romanzo né reportage, né diario né saggio, ma tutte queste cose insieme.
I nostri complimenti all’editore, che ripresenta Sur l’eau ai lettori italiani con convinzione, in edizione tascabile, pur relegando questo capolavoro in una collana di letteratura di viaggio, e manifestando così lo sconcerto che può provocare una scrittura senza gabbie di alcun genere.
Ne riproduciamo alcune pagine profetiche che prefigurano la scissione autoanalitica dell’uomo contemporaneo. (T.S.)
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Il fatto è che porto in me questa seconda vista che è al tempo stesso tutta la forza e tutta la miseria degli scrittori. Scrivo perché capisco e soffro per tutto ciò che è, perché lo conosco troppo bene e soprattutto perché, senza poterlo gustare, lo osservo in me stesso, nello specchio, nel mio pensiero. Che non si provi invidia per noi, che ci si compianga, perché ecco in che cosa l’uomo di lettere differisce dai suoi simili.
In lui nessun sentimento semplice esiste più. Tutto ciò che vede, le sue gioie, i suoi piaceri, le sue sofferenze, le sue disperazioni, diventano istantaneamente soggetti di osservazione. Egli analizza nonostante tutto, nonostante se stesso, incessantemente, i cuori, i volti, i gesti, le intonazioni. Non appena ha visto, qualsiasi cosa abbia visto, gli ci vuole il perché! Non ha uno slancio, non un grido, non un bacio che siano schietti, non una di quelle azioni improvvise che si fanno perché le si devono fare, senza sapere, senza riflettere, senza capire, senza rendersi conto poi.
Se soffre, prende nota della sua sofferenza e la archivia nella sua memoria; si dice, tornando dal cimitero dove ha lasciato colui o colei che amava di più al mondo: “È singolare quello che ho provato; era come un’ebbrezza dolorosa, ecc…” E allora si ricorda tutti i dettagli, gli atteggiamenti dei vicini, i gesti falsi, i dolori falsi, i visi falsi, e mille piccole cose insignificanti, osservazioni estetiche, il segno della croce di una vecchia che teneva per mano un bambino, un raggio di luce su una finestra, un cane che attraversò il mesto corteo, l’effetto del carro funebre sotto i grandi tassi del cimitero, la faccia del becchino, la contrazione dei lineamenti e lo sforzo dei quattro uomini che calavano la bara nella fossa, mille cose infine che un brav’uomo che soffre con tutta l’anima, con tutto il cuore, con tutte le sue forze, non avrebbe mai notate.
Egli ha visto tutto, trattenuto tutto, suo malgrado, perché è innanzi tutto un uomo di lettere e ha la mente costruita in modo tale che la ripercussione, in lui, è ben più viva, più naturale, per così dire, della prima scossa, l’eco più sonora del suono primitivo.
Sembra avere due anime, una che nota, spiega, commenta ogni sensazione della sua vicina, dell’anima naturale, comune a tutti gli uomini; e vive condannato a essere sempre, in qualsiasi occasione, un riflesso di se stesso e un riflesso degli altri, condannato a guardarsi sentire, agire, amare, pensare, soffrire e a non soffrire, a non pensare, a non amare, a non sentire mai come tutti gli altri, schiettamente, francamente, semplicemente, senza analizzarsi dopo ogni gioia e dopo ogni singhiozzo.
Se parla, la sua parola sembra spesso maldicente, unicamente perché il suo pensiero è acuto e scompagina le molle nascoste dei sentimenti e delle azioni altrui.
Se scrive, non può astenersi dal mettere nei suoi libri tutto quello che ha visto, tutto quello che ha capito, tutto quello che sa; e questo non escludendo neanche i genitori, gli amici, mettendo a nudo, con un’imparzialità crudele, i cuori di coloro che ama o che ha amato, esagerando persino, per accrescere l’effetto, unicamente preoccupato della sua opera e per nulla dei suoi affetti.
E se ama, se ama una donna, la seziona come un cadavere in un ospedale. Tutto ciò che ella dice, che ella fa, viene istantaneamente pesato su quella delicata bilancia dell’osservazione che egli porta in sé, e classificato in base al suo valore come documento. Se egli si getta al collo in uno slancio impulsivo, egli giudicherà l’atto a seconda della sua opportunità, della sua giustezza, della sua potenza drammatica e lo condannerà tacitamente se lo sente falso o mal fatto.
Attore e spettatore di se stesso e degli altri, non è mai attore soltanto come le persone semplici che vivono senza malizia. Tutto intorno a lui diventa di vetro, i cuori, gli atti, le intenzioni segrete, ed egli soffre di uno strano male, di una sorta di sdoppiamento, che fa di lui un essere terribilmente eccitabile, difficile, complicato e noioso persino per se stesso.
Inoltre, per la sua particolare e morbosa sensibilità, è come uno scorticato vivo per il quale quasi tutte le sensazioni sono diventate dolorose.
Rammento i giorni neri in cui il mio cuore fu talmente lacerato da cose scorte un secondo, che i ricordi di quelle visioni restano in me come piaghe.
Un mattino, in avenue de l’Opéra, in mezzo alla folla tumultuosa e festante inebriata dal sole di maggio, vidi passare a un tratto…
Guy de Maupassant, Sull’acqua, traduzione di Barbara Besi Ellena, Edizioni Ibis, pagg. 75-78.
Di Carvelli (del 13/06/2006 @ 14:20:55, in diario, linkato 3857 volte)
Emendamento al precedente post/citazione da Blanchot dove si diceva "me ne pento" leggasi "me ne scuso". Il refuso è da imputare a questa peculiarità della mia scrittura sovente vituperata di vergare la s come una p (nel corsivo minuscolo). Provo a ricordare quando e perché e arrivo all'età di anni 12 o 14 credo per imitare la scrittura di...Ora non ricordo di chi...forse di Angelo Branduardi, mito di allora? Davvero non ricordo. Ma la s è rimasta tale.
Cito nuovamente:
"Sì ho parlato a troppa gente, oggi questo mi sorprende; ogni persona è stata per me un intero popolo. Un così immenso altro mi ha reso me stesso molto più di quanto avrei voluto. Adesso, la mia esistenza è di una solidità sorprendente; anche le malattie mortali mi giudicano coriaceo. Me ne scuso, ma è necessario che io seppellisca qualcun altro prima di me."
Mi sono svegliato con delle parole nella mente. Potrebbe essere l'inizio di un racconto o la coda di un sogno. Le parole erano queste: "Deve essere successo qualcosa..." O: "Cosa è successo che ora noi non siamo più noi?" O: "Come è iniziato che adesso dove era amore sono odio e dolore." MI è sembrato un inizio di racconto. Come il dormiveglia di DONNE SULL'ORLO DI UNA CRISI DI NERVI in cui si mettono profeticamente in bocca all'uomo i pensieri della donna ("Ingannami...dimmi che mi ha sempre aspettato"...cito a memoria) ed è sogno ma anche realtà in un nastro contrario. Mi sono ricordato quel sogno tormentoso poi la sveglia il telefono... "Come è successo?" E mi sono tornati in mente i versi di Mattatoia (un talento che lavorando sul breve concentra dei piccoli universi da passeggio come gelati amari: se un giorno vedranno la carta il libro non potrà che essere con i manici) il cui blog redivivo consiglio vivamente intanto partendo dal passato http://mattatoia.blog.dada.net/ Due poesie. Questa
Una curva della voce
un andare per mano slegati,
ci deve essere stato
un battito di ciglia a destra
mentre io stavo a sinistra,
un respiro spezzato
qualcosa che non ho capito
E questa
E dunque è un addio, questo
che mi avvolge
le lenzuola
e mi porge
uova alla coque col sale,
triste come un regalo
che torna indietro,
un incartamento venuto male..
Segnalo da www.ilpostodeilibri.it il prezioso lavoro di Gaja Cenciarelli e Angela Scarparo dal cui mi permetto di estrarre...
Le donne felici (almeno un po’) sono quelle capaci di fuggire, non quelle che stanno a casa.
Un’altra cosa che si scopre da parte di scrittori meno cattolici e più rivoluzionari (non ho detto più grandi, Dostoevskij è sì grande, ma reazionario, e non c’è nulla di male in questo) è che per essere felici bisogna fuggire dalla casa paterna. Bisogna rifiutarne la morale, il diritto. Questo ha in mente Mathilde de La Mole dopo che si è innamorata di Julien Sorel ne Il rosso e il nero, meraviglioso romanzo di Stendhal. O bisogna fuggire dalla casa del fratello conservatore e rompicoglioni, come fa Angela Pietranera ne La certosa di Parma. altro moderno romanzo stendhaliano. Angela che nella fuga, nella mancanza di denaro e in un quartierino a Milano riesce, se non a essere felice, almeno a starsene tranquilla. Sono tutte indicazioni precise, queste: indicazioni di vita, di morale, di diritto, di diritti, e quindi anche politiche. Così come è politico, quel personaggio di donna anziana creato da Dickens. Una signora settantenne, che passa il suo tempo in fuga, con una casa provvisoria, (la sua casa è dentro di sé, sembra dire!) raccattando (siamo nella metà dell’800) bambini abbandonati per spirito di solidarietà. E’ forte. Sa tutto E’ una della poche che (con quel senso di anticipazione tipico dei bravi artisti, Dickens descriva) mentre muore dentro una fabbrica dove ha cercato rifugio, ci racconti quanto di brutto e di disperante possa portare la rivoluzione industriale. Un’altra indicazione: Middlemarch, George Eliot. Una donna intelligente, istruita, bella e brava, nella casa del marito (istruito, ma noioso e borghese) trova la più completa fra le infelicità. Ma che bisogno aveva questa meravigliosa, di questo marito, ti viene da chiederti? E ancora: La lettera scarlatta, Hawthorne. La fuga imposta alla protagonista che ha fatto una figlia fuori dal matrimonio si rivelerà una fortuna. Passati i primi tempi, lei, attraverso il rapporto con la bambina, lei che ha rinunciato a una solida casa in Europa, si libererà della morale che le ha imposto l’esilio – che era anche la sua – per trovare qualcosa che assomigli alla felicità. Libera dai padri – c’è la storia di una delle prima colonie americane in questo libro – dal padre, dalla casa, dalle case. Con una piccola casa dentro di sé, per sé, per sempre. Perchè chi la casa ce l'ha dentro di sé per una volta assumerà un'abitudine a cui farà fatica a rinunciare.
Il resto in www.ilpostodeilibri.it/joyce_55.htm#1
Post-illetta mia
Mi affascina l'idea di animare l'inanimato o meglio di restituire l'anima (è un vero e proprio atto di risarcimento) agli oggetti. Forse è che non siamo più animisti, siamo troppo antropocentrici, siamo consumisti...boh magari c'è statto un atto che ci ha separato dalle cose. E non dev'essere stato come mangiare una mela vietata. Forse però ogni giorni degli atti ci possono restituire le cose e ci dobbiamo provare. Come se fosse una piccola missione verso quello che riteniamo senza anima (inanimato). E invece moriamo per aver respirato una sostanza, bevuto o mangiato cose che non ci fanno bene, investiti dalle macchine. O ci ammaliamo per le cose. Insomma forse bisognerebbe dire che "le cose non sono le cose". Forse.
Fragole impastate con sapone come un dentifricio infantile. L'odore dei copertoni bruciati e poi la pila del fumo vista lontana. "Pagliericcio" una parola che ti piace. Iol ricordo di tre sabati fa: all'improvviso su via La Spezia (destino dei nomi) l'odore del mare. Tanti chilometri, forse poche macchine, la via che incava l'aria di Ostia...nessuna spiegazione ha ragionevolezza. L'odore della salsedine in piena città a chilometri dalla sabbia. Tutto questo fa felicità. Solo con il naso. Nient'altro.
Nient'altro, tutt'altro: oggi parlavo così: per grandi partizioni di cose, deciso, definitivo, per insiemi compiuti. Domani sarò più indeciso ma forse poi risceglierò questo parlare per tutto e niente. Tutto e niente.
Ogni tanto ci si apre un vuoto ed è come se fosse un piccolo squarcio di niente sul niente. Non è definitivo quello che pensiamo, né quello che scriviamo, né niente di quello di cui abbiamo avuto esperienza sinora lo è. Alla fine il tempo sta meglio sugli oggetti che su noi. Lì produce danni, lì segna enfasi o riprove. Meglio è quello che accade in un seminterrato, nell'estemporaneità di una metropolitana fuori dall'orario di punta. Noi, siamo unacartina muta: si vede tutta la nostra geografia di dolori o piaceri ma non se ne individuano tempi e cause e alla fine sembriamo un rebus senza numeri (e quindi senza parole). Meglio gli oggetti, meglio gli ambienti. Specie se vuoti. Meglio pensare così e andarsene in giro con questo mite proposito dell'inferiorità rispetto alle cose o solo un pareggio, un uguale, un come tutto il resto. Niente di speciale, insomma.
I quadri qui riprodotti sono di Andrea Chiesi (Modena 1966).
Un piede avanti all'altro e vanno a mensa o al bar per il caffè. Le parole sollevano il velo del niente della forma. Gratifiche e promozioni. Promozioni e gratifiche. Buoni e buoni. Mai buoni a nulla. Il mio grado. Il tuo grado. E' tempo di scrutini. Di promozioni o di previsioni. Ma fermarsi è più simile a retrocedere e molte cose vengono date per scontate. Tipo: meriti, demeriti, diritti, doveri. Un piede avanti all'altro e finisce la pausa-pranzo. Senza premi se non immaginari. Pensati. Prefigurati. Attesi.
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