Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Uno di cui mi dice che è stato male, che era quaranta chili meno (quaranta, sottolinea facendo ta-ra-ta-ta), che adesso sta meglio ma che se l'è vista brutta. Uno che lo prendevano in giro, che gli dicevano non vali niente, che voleva fare l'attore ma la timidessa se lo mangiava. Uno che ci parla come in un acquario che in effetti il vagone della metro ci somiglia a un acquario. Uno così scende a Termini. Noi no.
Fanno come le persone i libri. Capisci che magari ti rimarranno vicini negli anni, per anni. Ti separerai da loro come da una persona ma ti ricorderai di quella copertina, del luogo in cui l'hai comprato, di tutte le occasioni che lo hanno anticipato, preceduto. Ti sembrerà un grande fiocco che hai srotolato nel tempo. Con gesti piccoli: timidi, accorti o imbarazzati. Penso a tutto questo mentre ho nelle mani il libro di Annalisa Manstretta "La dolce manodopera" (Moretti&Vitali). Mi chiedo se ricorderò tutti gli anticipi di questo gesto. Se dalla mia vita sparirà questa voce e - se nulla sparisce - in quale zona si anniderà. Penso ai sogni che faccio e che sono tanti e che sono lì e che me li ricordo sempre di più. A questi giorni. E all'altra mattina che ho finito di portare al pascolo le mucche facendo scender loro un pendìo ripidissimo, un fiume che guadavano e io che dall'alto della montagna facevo un gesto solo ed era tutto lì. In quell'intenzione, il mio essere capomandria. E dopo mi sono svegliato e non ero stanco. (Fin qui io. Da qui la Manstretta).
La gente contadina ama le cose familiari fa piani a lungo termine non segue i sentieri polverosi dei nomadi pensa per generazioni. Tu sei stato lontano in un'altra lingua per anni e voli via con l'aeroplano mentre sto seduta a leggere in cucina. Sorridi, però, e negli occhi si vedono rimesse accoglienti per attrezzi e bestiame.
La recensione del libro di Yasmina Reza (L'alba la sera o la notte - Bompiani) su Sarkozy uscita il 5/12/2007 su l'Adige.
Sarkozy dietro le quinte di ROBERTO CARVELLI Quali che siano la nostra percezione e la nostra convinzione le ultime elezioni politiche francesi hanno dato l'idea di un paese in rinnovamento. Era vero o lo sarà? È presto per parlare ma, di certo, il tema dello scontro non è apparso quello tra due vecchiezze che si somigliano ma tra due visioni dell'operare politico. Alla maggior parte dei commentatori italiani bipartisan è sembrato già qualcosa. E curiosità la richiedeva il tenore dei personaggi: a loro modo due supereroi della vita famigliare - così si presentavano salvo scoprirsi appena all'indomani del voto entrambi in irrimediabile crisi coniugale. Siamo entrati così nel vivo della recensione del libro di Yasmina Reza, notissima e rappresentatissima (non solo Oltralpe) drammaturga francese (di origini iraniane) da noi conosciuta soprattutto per la narrativa. In «L'alba la sera o la notte» (Bompiani, 15 euro), vòlto in francese dal traduttore, editor, scrittore Sergio Claudio Perroni, la scrittrice racconta il dietro le quinte del personaggio-persona Nicolas Sarkozy. E di confidenze ce ne sono state diverse se la Reza ha potuto pedinare lo statista nei giorni prima delle elezioni cogliendo vizi e debolezze ma pure pregi. Se il libro dovesse essere qualcosa di commestibile l'idea sarebbe uno di quei formaggi molto fermentati che fanno i buchi dove «buchi» non sta a dire mancanze. Tutt'altro.
La Reza lascia spesso il lettore su una riflessione. La fa quasi precipitare nel racconto con significatività. Una frase, pausa, si passa a un'altra giornata del tour de France del pretendente all'Eliseo. Questo approccio ulteriore rende il libro non un noioso diario di viaggio né un instant book pre-elettorale ma un libro in sé. Non ci è dato sapere se c'è un calcolo o una "marchetta" dietro a cotanta risonanza ma se ci fosse stato dolo la Reza ne uscirebbe innocente o con molte attenuanti. Questo non è un libro che scade, fogli in attesa del macero o del cassonetto ma un romanzo che entra a buon titolo nella produzione di uno scrittore arricchendola. Il tema politico è spesso declinato in Francia con una naturalezza né imbarazzata né sottomessa e mi viene da pensare a due recenti film - francesi almeno per ambientazione e produzione - quelli di Guediguian dedicato alla fine di Mitterand, «Le passeggiate al Campo di Marte», e quello surreale e iconoclasta del georgiano Iosseliani, «Giardini in autunno». Dopo averli visti mi sono domandato chi in Italia avrebbe potuto osare tanto e con tanta classe (anche deviando dal proprio percorso filmico). Altrimenti me lo sono ripetuto pensando all'eventuale giornalista o scrittore al seguito di nostri sfidanti dell'agone scorso. Ma con ulteriori perplessità. Il Sarkozy pensiero è rappresentato a volte sul filo della cronaca a volte nella contraddittorietà dell'analisi. Come appare l'uomo politico? Un decisionista, un coraggioso, un egoista allenatissimo, un calcolatore ma pure un leale. Spesso uno che «non smette mai di agitare la vita» forse nel terrore dell'horror vacui. A volte si coglie lo spirito del bambino, altre la freddezza dell'uomo. Il mito di sé: «So essere solitario nelle decisioni». Il calcolo: «Sarei tentato di aprire un pochettino sull'eutanasia». Ma il tema più sollecitato rimane il coraggio. Ancora Sarko, napoleonicamente (i vignettisti francesi devono aver avuto un «destro» facile): «La mia non è una battaglia politica, la mia è una battaglia ideologica». La Reza non sta in disparte. Chiosa («Essere il favorito, che disincanto per un amante delle avversità»), critica e cita «L'attaccamento non è altro che insufficienza di senso della realtà» (dalla Weil). Poi chiude benissimo con metafora, rivelando la sanità, in questo caso almeno, della laicità e del distacco.
E altre altre cose...Di cui si è parlato. Celan e l'uso del trattino che interrompe il discorso (anche in Caos calmo), dei tonnarelli alle melanzane con ricotta salata. Cose di cui avrei voluto che si parlasse: dei babbonatale animati che sembrano afflitti da un'emiparesi temporanea e spaventano i bambini, della durata di uno spazzolino da denti. Cose di cui si sarebbe potuto parlare: delle parole "soluzione salina" e tutte le altre con -lina: alcalina, aspirina, piccolina, salitina, maghrebina. Una serata è sempre troppo breve. L'amicizia dovrebbe essere fatta di silenzi e anni. Paravidino (è un autore di teatro): una parola che in questi giorni mi risuona nella mente continuamente. E certo dipende dalla visione di Peanuts (da vedere!). Ma è la parola che funziona. Dannatamente. Paravidino. Provo ad immaginare un significato, così, per provare ad aggiungerla al vocabolario. Sarebbe un aggettivo? Non so dire.
C'è un film delizioso. Se nelle vostre città lo proiettano non perdete tempo e andate. Se lo fanno in una città vicina rompete il porcellino e raggiungete il fortunato cinema. Il film si intitola Meduse e ne potremmo parlare un bel po'. Potremmo esercitarci a vedere le cose come quando bambini si annotava su un taccuino il passaggio di animali e altri eventi naturali. Qui ci sono dei personaggi: alcuni forse non sono persone ma personaggi; altri sono funzioni. Vedere Meduse mi ha fatto un po' questo effetto: l'effetto di una caccia ai particolari, scie che illuminino passaggi infinitesimal, movimenti e piccoli scarti del muscolo del cuore. E' raro vedere bellezza filmica e narrativa tardo-adolescenziale. Le pellicole, in genere, prediligono la fascia dei consumi (la tv ci si inebria addirittura), i trentenni o i bambini. Ma anche quella dei tradoadolescenti potrebbe esserlo anche se in maniera critica e perciò...avrei molto da dire su questo sogno ad occhi aperti che si chiama Meduse ma mi fermo un attimo.
Altre cose...(oltre al film di Keret e Geffen). Sto leggendo Caos Calmo (Veronesi), Non c'è più tempo (Carraro). Ho letto con piacere L'amorosa inchiesta (di La Capria) e Cuore di Mamma (Rosa Matteucci). Ho aspettato un po' per farlo per contiguità di scrittura. Ho aspettato di mettere la parola FINE o QUASI FINE. Ogni tanto la distanza serve. Per rigore, per decoro non è male fare un passo indietro. Per onore bisognerebbe marciare. Interessante la voce polimorfa della Matteucci, fuori registro in senso buono e di notevole capacità trasfigurativa. Bellissima la lettera, prima, alla prima fidanzatina nel libro di La Capria. Mi prendo pausa. Mi affascino con Heimat (ho finito di vedere il primo ciclo e mai avrei pensato tale e tanta semplice bellezza in un film a puntate. Un film pieno di rigore, poesia e anche qualche svarione - in senso solo di campio di registro improvviso - sarcastico che ne aumenta il coefficiente di verità (poesia di poesia troppo sarebbe)...basta che è una parentesi già questa!). Ho letto le Epistole di Orazio. Avoledo (Tre sono le cose misteriose). Molte altre pagine e molti altri film. Ho rivisto Betty Blue di Beineix e mi sono un po' intristito: dove c'era abbandono e senso ora c'è privazione e catastrofe (ricordiamo selettivamente). Altre cose, anche. Altri libri e altri film (mi rendo conto che non faccio mai in tempo a tenere nel blog il diario delle letture e delle visioni).
Giorni fa pensavo, guardando una pubblicità di un noto artista alla tessera della metro, a come gli sponsor dovrebbero obbligare i loro testimonial all'uso anche solo saltuario del prodotto o servizio rappresentato. Pensavo così e per esteso riflettevo anche sulla rarità di incontri con gente nota nella metropolitana. Parlo di Roma. Poi, pochi giorni dopo su Internazionale questo articolo di Goffredo Fofi. Pensavo di linkarvelo poi ho avuto da fare poi L. Ecco
Il primo metrò
I passeggeri dell'alba hanno espressioni pensierose e portano il peso di un sonno incompiuto
Internazionale 720, 22 novembre 2007
Sulla metropolitana di Roma non si incontrano mai facce note. Non ci sono giornalisti famosi, politici, personaggi televisivi, scrittori o attori. A nessuna ora del giorno e della notte.
Io sono un frequentatore quotidiano e assiduo del metrò, e ricordo solo di aver incrociato, tanto tempo fa, un frettoloso Gianni Amelio diretto a Cinecittà. Non mi stupisce più di tanto.
La sotterranea è poco accogliente ed è rumorosissima, ma non per colpa dei tanti viaggiatori, che anzi sono silenziosi quasi fossero intimoriti da questo preannuncio di discesa al purgatorio. La colpa è dell'alto e talvolta altissimo volume della musica (pessima) della radio interna o delle pubblicità diffuse dagli schermi che pendono dai soffitti delle stazioni principali.
C'è una legge sull'inquinamento acustico, ma qualcuno ha mai verificato i livelli di tanti ambienti pubblici come questo? La "qualità della vita", la vivibilità della città dipende anche da queste "minuzie", però ossessive e isterizzanti. Ma le autorità badano al bilancio e, coscienti o meno, aiutano gli utenti a non pensare. Su questo non c'è distinzione tra destra e sinistra, l'accordo è assoluto.
D'altronde, come stupirsi che a frequentare la metropolitana sia soltanto una parte della popolazione, la meno fortunata? Leggo sui giornali un rapporto di Legambiente secondo cui a Roma ci sono 70 automobili ogni 100 abitanti (abitanti, non nuclei familiari) contro le 32 di Berlino e le 26 di Parigi.
Ma a Parigi il comune privilegia da sempre il trasporto pubblico e a Berlino c'è la metropolitana forse più silenziosa e civile del mondo. Settanta automobili ogni 100 abitanti! Non guido e faccio dunque parte del 30 per cento che non ha l'auto. Per di più amo poco i tassisti, ma vivo nel paese di Padoa Schioppa, di Marchionne, degli economisti più accreditati, che ritengono che il segreto della ripresa economica stia ancora nell'aumento della produzione di automobili…
Sto divagando, ma "tutto si tiene". È degli stranieri in Italia, a partire da Roma, che volevo parlare. Io sono mattiniero, lavoro meglio nelle prime ore della giornata, vado in ufficio all'alba e il metrò comincia a essere affollato prima delle sei. Ma di stranieri.
A occhio, a quell'ora gli stranieri sono 70, forse 80 passeggeri su cento. Giro l'Italia e ho visto che lo stesso vale per la metropolitana di Milano, per i tram e gli autobus di tutte le città italiane. Nei volti assonnati degli uomini e delle donne, giovani o adulti, che vanno al lavoro in quelle ore, mi sembra di riconoscere volti e situazioni del passato: i tram dell'alba nella Torino o nella Milano del boom, la "circolare" di Roma, gli autobus napoletani degli anni settanta e ottanta.
Allora si trattava di italiani e solo di italiani, e di settori sociali ben definiti anche se in certi anni, al nord, erano più i meridionali che i settentrionali. Adesso si tratta di stranieri, che hanno sostituito gli italiani in quei lavori che non amiamo più fare – con ragione – e che esigono almeno due traversate quotidiane della città e delle periferie.
Alle cinque e mezzo, alle sei del mattino si può star sicuri che i delinquenti dormono, sono andati a letto da poco, e che i rumeni che viaggiano in metrò sono persone normali, per bene. I passeggeri dell'alba sono uomini, donne, ragazzi che hanno espressioni pensierose, talvolta trasognate nel peso di un sonno incompiuto e di sogni malamente interrotti. Tacciono.
Solo qualcuno scambia poche parole con un amico o collega che ha la sua stessa destinazione. Non so perché, ma all'alba sono rari gli africani, eccetto quelli che trascinano i grossi pacchi con le cose che esporranno agli angoli di strada dove si sono conquistati il diritto, scritto o non scritto, di mercanteggiare. Ci sono asiatici ed europei dell'est, ma in gran maggioranza europei.
Hanno volti segnati dalla fatica e dall'esperienza come li avevano i proletari italiani di ieri e che non hanno mai, per esempio, i politici o gli intellettuali di oggi, unificati e omologati dalla pace e dai consumi: e sembrano (sembriamo) usciti da una trasmissione televisiva o, al meglio, da un cartone dei puffi.
Ho sempre avuto una sorta di passione per i volti, e rimpiango la scomparsa, nella pittura, della grande arte del ritratto, che resiste a volte in fotografia. Da giovane mi perdevo a scrutare i volti delle persone che incrociavo sugli autobus, nelle strade, nei mercati: cercavo di indovinare chi fossero, che vita avessero, quali desideri. Da che regione venivano, che lavoro facevano, per chi votavano, che aspirazioni li muovevano, e perfino se erano buoni o cattivi.
Quasi sempre i volti mi "parlavano", li si poteva "leggere" e leggere in loro l'Italia. Le probabilità di indovinare erano alte. I volti di oggi sono monotoni, sembrano pacificati e non lo sono, ma mostrano gli stessi costumi e desideri, sentimenti, pensieri simili, come le loro espressioni, gonfie, poco riflessive, che dietro hanno rovelli tutti uguali.
I volti degli stranieri non sono così, perché gli stranieri sono ancora poveri. Nei giorni in cui si parlava tanto e troppo di rumeni, mi chiedevo chi fosse rumeno e chi no ma ci rinunciavo subito. Le facce dei metrò dell'alba non sono di rumeni o di afgani, di serbi o di italiani, sono di proletari.
http://www.internazionale.it/firme/articolo.php?id=17641
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