Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Premetto che non ho nulla contro il cetriolo in sé. Né come concetto assoluto né come concetto reale. L'ortaggio, il nutrimento. Il vantaggio del suo basso contenuto calorico. Il fatto che so che alcuni sono intolleranti allo stesso come al cocomero eccetera. Saussurrianamente potrei pure distinguere significato e significante e non mi sfugge il fatto che sia una limpida metafora per altro. Metafora che non mi è avulsa. Come metafora, come giro di parole per dire cose sgradevoli (e qui parlo per me). Metafora che ritengo pure di aver usato e forse talvolta abusato. Con ingenuità e infantilismo. Sono consapevole altresì che ne esiste un uso strumentale e che tale uso (improprio) sia scandaloso per alcuni. Eppure fino a qui ho pieno rispetto e non mi scandalizzo. Tutt'altro. Ma - e non credo che sia qui la prima volta che lo manifesto - mi irrita l'uso del sesso in pubblicità. Non mi piace. Ma non perché mi irriti in specie morale o tocchi una sfera pudica. No, mai. E' solo che non mi piace l'associazione sesso/vendita. E non voglio allargare il campo: non parlare di strade, né di politica, né di leggi di tutela. E di certo c'è un discorso "femminile" che non posso far finta di ignorare. Ma al di là di qualsiasi di questi discorsi e fatto salvo qualsiasi uso secondo o terzo di quell'ortaggio di cui sopra mi piacerebbe che chi vende maglioni, macchine, merendine, salotti o cucine quello vendesse. E magari anche lo status symbol di quello ma non il privato in quello. Ma viviamo un'altra stagione e, fuori stagione, e fuori contesto, sappiamo ora che il privato (l'iperprivato) è sempre più pubblico e pubblicizzato. E questo non mi piace. Proprio perché amo pervicacemente il privato tra l'altro confermandomi nel fatto che esista questa parola opposta a un'altra che qui riutilizziamo noiosamente e un po' indispettiti: pubblico.
Di seguito la querelle. www.affaritaliani.it/coffeebreak/sisley_modelle170910.html
Ho smesso di credere al caso come si smette di fumare. All'improvviso non ho più comprato il pacchetto. Eppure ho spesso voglia di fumare. Spesso, se vedo gli altri accendersi una sigaretta, sono tentato di chiederne una. Anche se so che nuoce gravemente alla salute. Anche se so che è un brutto vizio, anche dispendioso. Ho smesso di credere al caso, alle coincidenze. Si può dire che sono fuori pericolo. Di tempo ne è passato e davvero si potrebbe dire che ormai non fumerò più. Anche se è un campo in cui anche la scienza mette molti “forse”. Eppure sono fermamente convinto che non mi farò ingannare dalle fatalità come se fossero un prodotto autonomo di un’imperscrutabile volontà superiore, o inferiore. Insomma, se avrò la forza di dire sempre no un giorno guarderò al me che credeva nel caso con un po’ di compatimento. Come si parla a distanza di uno che ha avuto un brutto vizio o un male da cui è guarito. Ma anche i medici su questo avanzano continui allarmi di recidive. Che vizio stupido che avevo, penserò. E quando vedrò gli altri accendersi un “che coincidenza!” li guarderò con quella pena che si ha verso chi non riesce a fare a meno di qualcosa che gli fa male. Solo talvolta, in giorni un po’ speciali, penserò “cavolo, se fumassi ancora… a quest’ora mi accenderei una bella sigaretta e chissenefrega di tutto…” Ma resisto. Resisterò, lo so. E resisto, resisterò perché ho sufficienti prove nel tempo per poter pensare così. Il Caso non esiste, le Coincidenze obbediscono in realtà a una meccanica – a volte a me incomprensibile – che però dà sempre risultati probabili e avvicinabili.
Ho pensato tutto questo ieri osservando il mio gatto Google. Un gatto trovato e per giunta ineducato (prima dalla Natura e poi da me). E anche se andrebbe da sé, un gatto autonomo in maniera anche più autonoma dell’autonomia della specie. Non posso pensare che non mi voglia bene. Come molti – per fortuna non solo animali – mi ha mostrato nel tempo di volermene. E’ il modo di quel “volere” che non mi è del tutto chiaro. Rarissimi accessi di dolcezza, commoventi, appaganti, in mezzo a una continua aria di sfida, litigiosità, competizione. Sta lì che sembra dirmi “conquistati il mio amore, la mia fiducia”. E tutto questo, purtroppo, non è la prima volta che accade nella mia vita. Tutto questo è la mia vita. Ragion per cui ieri ho ripensato al Caso come al continuo e inflessibile ripetersi di un evento speciale ma singolare (e proprio) che abbraccia tutta la mia vita indipendentemente da qualsiasi scelta ma con regolarità. Forse se stessi attento riscontrerei questa associazione di leggi nella crescita delle mie piante, nel rapporto con il droghiere, nell’acquisto delle moto, nella scelta dei vestiti.
Spiaggia è una parola, lontana. Oggi. La dico sottovoce, tra me e me. Per essere sicuro che nessuno mi senta. Spiaggia: penso e dico tra me oggi. La dico piano perché non so se, alla fine, mi va di andarci veramente con qualcuno. O da solo. Ancora non so. Magari è solo per ricordare. Qualche mese fa. O anni fa. Un posto preciso. Penso spiaggia e alla fine mi viene pure voglia di andarci. Alle volte, anche se non sempre, le parole sono (o diventano) proprio le cose che dicono.
In un capitolo del libro di Bichsel di cui ho già parlato, Il lettore, il narrare, sintomaticamente intitolato Storie che ha scritto la vita, lo scrittore svizzero cita Oscar Wilde - "Capita molto più spesso che sia la vita a imitare l'arte che non l'arte la vita" - e riflette sulle dinamiche di scambio tra le due. In realtà è anche un pretesto per ragionare dell'imitazione tra scrittori. Tra chi scrive al modo di. E scrivere al modo di spesso significa vivere dentro l'Universo di un altro scrittore quasi come in un incubatore artificiale che suggerisce naturalmente sviluppi innaturalmente altri, eterologhi diciamo così. Sì, esiste una letteratura eterologa. In certi casi dichiarata, in altri suggerita da altri, filiata da critici che sanno (sono in grado/ ritengono opportuno) cogliere parentele e le evidenzano. Letterariamente viviamo un periodo di allineamento a un canone di comodo inscaffalamento. Come in ogni campo della scienza della vendita si chiede ai libri di conformarsi a un gusto (il molto dolce, molto grasso dell'industria dolciaria, in letteratura corrisponde al molta trama, molti sentimenti). E abbiamo omesso il genere (si dovrebbe dire i generi ma ormai - rinnovata mercificazione - genere è "il genere" ovvero il poliziesco/hard boiled/giallo e sfumature di colore) prova ennesima del Canone. Ci si attende ora che al bio dell'alimentare faccia seguito una tracciabilità dello scrivere.
Sono andato a vedere The social network ma contrariamente alle attese non ho incontrato un film sulle origini di Facebook bensì sull'odio e sul riscatto. In definitiva la storia dell'umanità è storia di riscatto (e anche un po' di odii). Una specie di moto perpetuo di reazione e di rivoluzione, una sorta di agitazione vs uno stato di quiete e di stasi. E quindi perché non dovrebbe esserlo anche un film su una delle più grandi invenzioni comunicative dato come forma di emancipazione dallo stato di nerditudine dell'inventore (nel film il bravissimo, magistrale Jesse Eisenberg). Una prospettiva un po' orizzontale direte. Ne convengo. Fincher, il regista, è bravo e si sa e forse dovremo apprezzare la scelta di andare sui fini secondi per liberarci dall'impossibile semplificazione della genialità. Ero in definitiva preparato a vedere qualcosa di diverso. In parte. Avevo letto prima di andare al cinema la lunga recensione di Zadie Smith (uscita su The New York Review of Books da noi su Internazionale). Disattesa anche l'attesa della bellissima Creep a coro femminile che tempesta i trailer ma manca nel film. Peccato.
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