Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Piuttosto corpulenta si sventola con ampie bracciate. Ha cinquant'anni ma ne dimostra cinque di meno. Ha avuto fino a una decina di anni fa una vita sentimentale molto attiva. Poi si è detta che non era più il tempo di averla. Nel frattempo le capitava sempre meno di essere invitata a serate allegre. Ma, almeno di fronte agli altri, continuava a sembrare allegra. E spensierata. Anche su facebook sembrava felice. Postava foto di drink e spritz. Anche su instagram correggeva in viraggi improbabilmente solari happening che apparivano divertenti. E così conservava la buona nomea di una che se la gode. Ma tutto questo che è stato qui scritto sembra essere stato scritto quindici anni fa. Prima di facebook e senza instagram. La realtà, in definitiva, è molto meno social di quel che appare.
Ogni tanto andare al cinema mi sembra uno slalom tra cose vuote. Prive di peso. Che non si ancorano a nulla pur pretendendo di aderire a qualcosa. “Bling ring” a un reportage sui nuovi adolescenti americani a caccia di lusso e soldi. Un altro film a biografie sottolineate, rimarcate. Ma mi succede anche con storie di fantasia, film meno realistici. Andare al cinema diventa un percorso a ostacoli tra l’inessenziale. Una gincana tra cose che non ti interessano, cose di cui faresti o vorresti fare a meno. Pur non volendo risultare retorico mi domando a quale ostacolo andrei incontro se decidessi di non evitare gli ostacoli. Se, vinto dalla pigrizia, andassi a impattare su tutto quello che mi trovo davanti allo schermo. Gli ostacoli più evidenti e visibili. E, pur essendo io non dotato di tv, quali rischi ulteriori affronterei se questa passività mi venisse replicata in casa. Delle volte penso a me come a un esperimento di biologia. Mi chiedo cosa ha prodotto e produrrà negli anni questa selettività. Questo schivare ostacoli molto ingombranti e difficili da girarci intorno. Anche l’idea che in fondo tutto questo tempo e spazio è sostituito da altro. Leggere. Studiare. Scegliere film. Dedicare del tempo alla spiritualità. Vedere amici o amiche e in che modo. Mi chiedo ovvero se questa infinitesima deformazione rispetto ad un’altra forma di realtà che non pratico mi porterà a occupare un posto diverso in questo spettro di vita. Emarginato? Problematico? Insulare? E cosa comporterà rispetto agli altri, se avrà ricadute minime su qualcosa o qualcuno.
Ieri con una coppia di amici siamo stati a vedere "Sacro GRA" di Gianfranco Rosi. Il film sembra prendere le mosse da "Roma" di Fellini. Struttura simile linguaggi e intenti differenti. Come se il film del regista riminese puntasse dall'esterno all'interno e il film-documetario di Rosi invece perseguisse una circolarità che non smette. Limitandosi a questo abbraccio continuo e claustrofobico ma vivo. Il linguaggio è quello di tanta letteratura e reportage di città che in questi anni si sono sviluppati ed esercitati specie sulle grandi città. Molto su Roma. Gli attraversamenti Stalker, i reportage dell'inessenziale e del non monumentale della città, la periferia non più pasoliniana e gravida di sensi di colpa se non di colpa. Un lavoro che ha riguardato molti scrittori, un testo immenso e variegato che credo non si possa non dire che abbia fatto da humus a questo lavoro. Che è però personale e riuscito. Al mio amico M. non è piaciuta la struttura aperta che a me invece convince. Perché lascia spazi che mi piace occupare. Come spettatore, intendo. Anche la metafora del punteruolo rosso mi sembra significativa. Un animale nocivo che rosicchia non visto dall'interno le palme. Riproducendosi e mettendo colonia il proprio lavoro distruttivo. Un vita-morte efficace anche nelle manovre diversive. Forse qualcosa che questa grande autostrada urbana fa. Non colta, senza generare preoccupazione. Con un sistema che in fondo è funzionale anche se mortifero. Qualcosa che viene raccontato senza orrore, timore. Naturalmente. Spettacolo: 20,25 Spettatori: circa 50 Prezzo: 6 euro
Ho letto "Sofia si veste sempre di nero" (minimum fax). Forse l'elemento più notevole del libro di Paolo Cognetti è una specie di basso continuo del non detto, del percepito ma non restituito nella forma della narrazione lineare. Come se la storia di Sofia fosse raccontata per vie interne almeno quanto per vicende esterne. Una caratteristica così poco comune nel panorama letterario italiano più propenso al racconto delle vicende, dei fatti per così dire, o della esplosione dell'Io nel racconto ombelicale delle vicende personali del personaggio narratore. Da questo punto di vista capisco quella disciplina dell'amicizia che le è stata tributata nella Rete -da cui avevo saputo del libro - come il libro di Sofia più che di Cognetti. Una cosa, penso ora, positiva o, diciamolo meglio, consustanziale alla buona letteratura.
Era montata male. Era stata montata male. Senza istruzioni. Ma funzionava. Si reggeva. Aveva persino trovato il modo per giustificare giunture che scricchiolavano, parti fuori asse rispetto al resto. Quello che davvero e nel complesso non tornava aveva finito per accettarlo. Per pigrizia aveva ritardato a riavvitare le rondelle ormai allentate e lasche. Per indolenza tutto era finito per andare verso il disfacimento. Ed è difficile ricordare perché alla fine si era deciso a rismontare ogni cosa e a provare a rimontarla. Non rammentava se era successo che qualcosa era caduto e quando. Forse di notte un qualcosa era precipitato producendo un rumore sinistro che lo aveva svegliato. Poteva anche essere successo di giorno. Forse alla fine si era sfaldato tutto nel tempo. Forse dopo stava tutto lì a terra e senza un ordine, un criterio. Forse nulla aveva più retto. Così dopo giorni e giorni aveva deciso che tutta quella roba ammucchiata non poteva più stare lì in mezzo. Che andava rimessa insieme. Ma ritardava a farlo perché non ricordava più da che parte si inizia e perché. Era soprattutto “perché” il termine della questione. L’ostacolo alla risistemazione. Poi un giorno – forse doveva aver provato a rimettere qualcosa insieme alla meglio – si era deciso a riniziare tutto daccapo. Aveva provato e si era arreso: non era più possibile sistemare, riaccorpare. Andava davvero rimesso tutto insieme di sana pianta. La tentazione iniziale era stata buttare tutto. Poi, la tentazione era stata rimettere le cose insieme alla meglio. Ma una volta doveva aver deciso che doveva essere fatto e fatto come si deve. Aveva messo da parte ogni sua capacità, il suo modo di riuscire sempre a cavarsela, di mettere le cose su come venivano riuscendo a farle stare comunque e aveva preso le istruzioni. All’inizio non era stato facile. Sapere come si fa è spesso il modo peggiore per fare ma anche una certezza a cui è difficile rinunciare. Così aveva fatto finta di dimenticare quello che sapeva e aveva rifatto passo passo quello che andava fatto. Facendo anche quelle operazioni apparentemente inutili che era abituato a saltare per andare al sodo. Non diceva “ecco come si monta”. Montava e basta. Nulla di più, nulla di meno. E tutto stava lì normale, come doveva stare, senza clamori, senza idee. Tutto funzionava senza di lui. E gli sembrava una grande libertà esserci quel che bastava. Un po’ di meno rispetto al solito. Ma nel modo in cui doveva essere. Semplice.
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