Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
“American Hustle” rischia di essere il film della stagione o uno dei. Al di là del riuscito bagno vintage e della corposa e ben selezionata compilation che rendono credibile l’ambientazione e leggero il notevole minutaggio della pellicola è la sceneggiatura senza cadute a fare del film un riuscito kolossal della bugia. Una scrittura con un sistema ad anelli (e gradini) che raccorda con anticipazioni e colpi di scena le fasi della storia. Un finescena proietta nel successivo e uno dentro l’altro come in una matrioska che nasconde inganni nell’inganno. Tanto che, in ultima istanza, il tema finisce per essere “chi ha davvero ingannato chi”. E: quale inganno tiene a sé ogni inganno con una morale finale non poi così retorica. Gli attori sono superlativi. Nelle scene aleggia una sensualità trattenuta e mai banale a dispetto delle tentazioni ben esibite e scollate. Ma non è il sesso (trattenuto e dilatato) il motore dell’azione e neppure lo sono i soldi. Alla fine – e questo è già il primo non scontato elemento unificante – sembra reggersi tutto sul chi fotte chi senza non darlo poi tanto a vedere. Il continuo slittamento bene/male, polizia/crimine non è cosa nuova ma il modo in cui viene declinato finisce per esserlo o sembrarlo. Insomma tanti buoni motivi per fare un po’ di bagno di folla dopo i cinema vuoti dei mesi passati. Ma forse la ritornata attenzione non è merito delle sale rinnovate quanto piuttosto di film di qualità migliore come “I sogni segreti di Walter Mitty” (semplice e un po’ retorico ma ben fatto), “La mafia uccide solo d’estate” (tutto sommato un modesto e riuscito esperimento di autofiction in pellicola), “L’ultima ruota del carro” (della serie: il ritorno del cinema comico d’autore) e “Still life” (lento e telefonato nella scrittura della storia ma credibile in quella del personaggio principale).
Poi mia madre mi diceva “adesso andiamo” e andavamo. Mia madre mi diceva “semolino” e semolino era. Diceva “caldo” e caldo era. Poi mia madre mi diceva cose che non capivo e che ora purtroppo non ricordo più e credo siano successe. Di altre non ricordo bene se poi fossero davvero così vere. O meglio, credo che ci siano cose dette che dopo non erano vere ma non ricordo quali. Di certo le paure erano le paure. E credo che molte rimanessero tali, nonostante qualche ferma rassicurazione. Così mi ricordo di altri piaceri che non venivano detti, che venivano omessi, silenziati, glissati o, peggio, banditi. Piaceri rimanevano e magari c’era da capire cosa non collimava. Ricordo che molto che adesso non ricordo per tanto tempo è stato importante. Ricordo di averne sofferto. E adesso non so più dire se è stato necessario averlo dimenticato o se è stato inutile averlo ricordato. Per troppo tempo. E averne sofferto.
Diari di visioni. La mostra di Jan Fabre vista al Maxxi la scorsa settimana. La continua perversione di un limite. In un certo senso, lo stesso che viene continuamente spostato in “Walden” di Thoreau che rileggo in questi giorni. Che rileggo costantemente. Io, i miei confini. Noi, i nostri schemi consolidati. Qualcuno che ce li sposta. Qualcuno che lotta, invece, perché tutto sia nella carreggiata in cui ogni cosa rimane com’è/era. Una frontiera del vivere comune con buona pace di tutti, nella mediocrità. Lasciare le cose come sono. O riportare le cose al “come dovrebbero essere”. Tutta una strada in salita. Una via su cui arrancare. E scegliere di vivere a strappi. Essere lo strappo che porta tutto nel posto in cui tutto dovrebbe essere, dando all’umanità una nuova possibilità. Contro chi lascerebbe le cose nel modo in cui sono, per dare clima alle proprie bassezze. Ho visto “Il capitale umano” e, a parte una soluzione di sceneggiatura un po’ sciatta (utile a sciogliere la vicenda) e un personaggio (quello interpretato da Lo Cascio) forse scritto con troppa imbastitura, mi è sembrato un bel film. Il vaffa di Servillo ha un pessimo sonoro: avrebbe meritato un suono migliore. Andrebbe campionato per capire quanto il nostro giornalismo sia diventato manieroso, villoso. Capirei che ci sentissimo tutti di meno se quando ci sentiamo dobbiamo dirci cose così inutili. Non è meglio vedere persone con cui abbiamo da dirci cose più urgenti? Dopo siamo stati in montagna. Ma non per andare in montagna. Andavamo in un posto in cui, per un po’ almeno, non saremmo stati protetti da due schemi che finora ci sono stati utili per non arrivare alla nostra verità su noi stessi (torno ancora a Thoreau). La visione che vorrei propagandare è quella che non lascia le cose uguali. Ed è la visione da raccontare. La propaganda è del tutto inutile. Commercialmente è una visione molto poco vantaggiosa. Lo svantaggio porterà un futuro vantaggio. Il vantaggio porterà una sicura crisi.
Il padre di Antonio. Di tutte le cose che potevano accadere alla vita di quest’uomo che è la mia, la peggio che poteva succedere è che ti nasce un figlio con l’handicap. Non lo so cosa ti può succedere che è peggio. Che non hai studiato che i professori parlano con quei paroloni, che non ci sta niente e capisci una cosa per l’altra, che dici proprio a me, che ti monta una rabbia che spaccheresti ogni cosa che questa cosa proprio non la capisci: che ti è nato un figlio anormale. A certi, certe cose non hanno da succedere. Una famiglia ricca, può essere. Ma uno che sgobba per due soldi no. Che devi fare? Lo tieni a casa e cerchi di lavorare più che puoi perché pensi “io muoio e a quello chi ci pensa? La sorella?” e lo sai che la sorella non ci penserà. Così lavori e ti spacchi la schiena ore. Ti svegli e lavori. In mezzo c’è solo il materazzo. E dopo? La cassa come per tutti. Di legno come tutti. Le immaginette, le preghiere, i fiori e basta. Questa è.
Zingaro. Io zingaro io cassonetti tu butta e io raccoglie, io zingaro tu odia ma io serve: tu televisore plasma io tuo vecchio synudine, tu aspirapolvere nuova io tuo vecchio folletto; io zingaro tu butta e io raccoglie e domenica vende mercato; tu dice io inutile ma io serve, se tu lascia nessuno prende strada sporca gente lamenta e invece io prende e vende; tu butta mobiletto vecchio io vende tu lascia monitor computer io carica su furgone e vende; tastiera radio giradischi macchina moka tu butta io non butta; io prende e dopo strada pulita. Tu dice io mangia alle tue spalle no tu butta pane e io pulisce e mangia. Tu butta e io raccoglie.
Serena. Ehi sono Serena, studio da infermiera, tiro cocaina, sono sagittario. Mi tamburellano in mente queste tre frasi. Le dico che quasi non mi sembrano mie. Cerco di pensare alle persone a cui le ho sentite pronunciare. O era una sola? A quanto ne so potrebbero essere tre persone o una. Un ricordo sbagliato.
Studio da infermiera - tiro cocaina - sono sagittario.
Da come suonano potrebbero essere un rap. Forse solo un rapper può inanellare tre sequenze così dissonanti. Ma a questo punto sarebbe una rapper donna. Conosco rapper donne?
Che vuoto! Da quando è così? Da quando cerco di mettere insieme ricordi confusi? Provo a cantare a mente i miei tre versi.
Studio da infermiera - tiro cocaina - sono sagittario.
Mi suonano. Li ripeto. Più e più volte. Ripasso nella mia agenda mentale la successione delle uscite serali per vedere se c’è un concerto, un gruppo rap. Vado in un negozio di dischi specializzato e chiedo. Esistono rapper donne ma nessuno sa rintracciare le mie tre frasi in un pezzo hip hop.
Per giorni continuo a rappare.
Studio da infermiera - tiro cocaina - sono sagittario.
Se solo ricordassi un particolare, qualcosa che mi aiuti a dare un nome e un giorno a tutto questo.
Ehi sono Serena, studio da infermiera tiro cocaina sono sagittario. Sì potrei essere io. Se ci metto il nome davanti pare che sta parlando di me. Non è che sono una rapper e non lo so? Ehi sono Serena.
Testo parzialmente letto per l'officina di BombaCarta sul legno.
Per dire queste parole sono stati abbattuti degli alberi. Magari anni fa, per scrivere su questi fogli, altri fogli di altri alberi si sono sacrificati. Magari in un ciclo di morte-vita ripetuto, il destino della letteratura ha eternato ed eterna il legno. In qualche epoca contingentando penuria, in altre scialacquando irresponsabilmente un surplus. Come scrive Josif Brodskij (“Lettere della dinastia Ming”): “E’ strano, in giro c’è/ sempre più carta, sempre meno riso”. E’ strano a maggior ragione oggi: molto riso, molta carta, molti mobili truciolari componibili. Meno alberi. Qualcuno consapevole o inconsapevole ha saputo disobbligarsi per questo sacrificio della carta. Lo ha fatto, ad esempio, Mario Rigoni Stern che ha dedicato al suo bosco trapiantato un arboreto, una tassonomia di voci e ritratti botanico-estetico-letterari. Partendo dal colpo d'occhio davanti alla sua casa ha creato, in dimora e in verbo, un'arca salvata. E che salva, come allude il titolo di eco rinascimentale. Negli anni lo scrittore pianta alberi che vede crescere e che racconta. In qualche caso, con lo sguardo lungo di chi sa che la vita degli alberi ha più respiro, immagina il futuro in crescita di quegli arbusti oltre lui. E il tempo ha già dato ragione alla sua profezia. Scrive nella nota che accompagna il libro nel 1996: “Anche gli gnomi dentro il buio della Grande Montagna cantano: ‘Sette volte bosco, sette volte prato,/ poi tutto ritornerà com’era stato’. Ma intanto i nostri alberi sono qui, dal Paleozoico; quando gli uomini comparvero sulla terra loro c’erano da milioni di anni per prepararci alla coabitazione”. In verità, tutta l'opera dello scrittore di Asiago, passata al setaccio delle nuvole delle occorrenze lessicali evidenzierebbe la parola bosco in corpo 72. A tutta la sua produzione passa di lato il bosco che salva e nasconde. In “Arboreto salvatico” i profili che descrive diventano non più sfondi ma primi piani, ritratti a futura memoria. Il pantheon arboreo abbandona lo sfondo e chiede l’intera scena per sé. La merita per longevità, per capacità di incarnare la sua cedevolezza circolare ai cicli di nascita e morte, vera perpetuazione della caducità finita e infinita. Linea di collegamento tra profondità nascosta e vertici irraggiungibili: asse del mondo. Come un dito che traccia una linea dal basso ctonio all’alto dell’aspirazione. E lì, sotto quelle fronde, per qualcuno il luogo della saggezza illuminata, sito dove si trova la Via. Ma nel bosco si perde e ci si perde anche. E questa è già letteratura. E vita. O morte. In Giappone c'è una zona in cui gli adolescenti si suicidano per via di bosco. Succede per la precisione ad Aokigahara, ai piedi del maestoso monte Fuji. 123 volte l'anno secondo le statistiche. Un suicidio ritualizzato che contempla persino l'allestimento di una camera mortuaria all'aperto con gli oggetti cari di un'infanzia già dolorosa e definitiva. Un amico fotografo andò a impressionare questo mistero doloroso. Il bosco è topos di smarrimenti da sempre. Nella sua traduzione da racconto popolare il bosco è il primo dedalo in cui perdere la via. Un labirinto affollato di uguaglianze. Ma gli alberi singolarmente sono stati cantati e resi epici. Unitariamente l'albero ha una buona carica vitale, bisogna riconoscerglielo. Per riconoscenza e spirito di salvezza si ripianta. Jean Jono e Rigoni Stern danno l'esempio. In autofiction. Uno raccontando del sogno inflessibile del pastore-contadino Elzéard Bouffier che modificando il paesaggio realizza una speranza rivoluzionaria per quanto umana. La prova che un piccolo gesto, serializzato compie una grandiosità più che umana. Rigoni Stern, lo abbiamo detto, effettuando lo stesso trapianto e scrivendone un atlante. Ma il bosco è persino un supermercato pervio o impervio. Amplifica le sensazioni e conduce riflessioni vitalistiche o mortali. Da una parte Thoreau, dall'altra Cassola. Aspirazione in un caso, non poter fare altrimenti nell'altro. Per una via si va nel cuore del mondo, per l'altra nel gorgo dell'infelicità. Lo sapeva Cassola che il duro lavoro del disboscamento non ha molte parole. Che, mentre la scure si abbatte sul legno, la mente può vagare. Nelle pause della dissipazione sfatta dei tagliatori un ricordo trasformarsi in una pena. Non così a Thoreau di Thoreau: il libero pensatore rappresenta se stesso nella pace inebriante della comunione con i boschi di Walden a Concord. Le sue righe più famose: “Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici: se si fosse rivelata meschina, volevo trarne tutta la genuina meschinità, e mostrarne al mondo la bassezza; se invece fosse apparsa sublime, volevo conoscerla con l’esperienza, e poterne dare un vero ragguaglio nella mia prossima digressione”. Di nuovo il basso. Di nuovo l’alto. L'uno e l'altro, Cassola e Thoreau, prima di cominciare la loro esperienza nel bosco, fanno costruire al loro personaggio o costruiscono nel legno la loro dimora. Legno prima del legno. Per entrambi sono ricoveri a tempo. Per i tagliatori dello scrittore toscano anche di fortuna. Per il filosofo americano la ricerca di un alloggio primitivo ed essenziale. Cassola ci fa conoscere l'intero ciclo della produzione: dalla scelta del taglio alla carbonaia. Thoreau ci fa ragionare sulla differenza tra la capanna di prima accoglienza autoprodotta e le case inutilmente ben edificate dei suoi contemporanei (parla, in definitiva, di quella che potremmo chiamare un’alienazione architettonica e urbanistica). Sul personaggio di Cassola lavora, invece, una nostalgia domestica scatenata da una medesima capanna (“Il bosco era buio e inospitale, magari tirava vento e scrosciava la pioggia, ma lui aveva il conforto di pensare che nella cucina la luce illuminava nitidamente l’acquaio pulito e la tavola apparecchiata”). Gli alberi del taglio acquistato dal protagonista dell'italiano sono lì davanti e formano la parola "lavoro" e ispirano, persino, tormenti suicidi (come per gli adolescenti giapponesi) da che erano stati una sfida febbrile (“Guglielmo fu il primo levarsi in piedi. Cominciava a provare ora quello che le tenebre prima, la fatica poi avevano tenuto in sordina: il desiderio di raggiungere il taglio, di prenderne possesso, di iniziare il lavoro” e poi “Non gli era mai accaduto di sentirsi così disperato, nemmeno nei giorni della disgrazia. Per qualche momento farneticò addirittura: pensava di sedersi lì in terra e lasciarsi morire. ‘Rosa,’ mormorò. ‘Rosa,’ disse ad alta voce. ‘Rosa, aiutami tu, mandami un po’ di rassegnazione!’ Un rumore di passi lo fece voltare. Distinse la brace ardente di un sigaro e una figura confusa, che veniva su per la strada. ‘Vuoi una mano, Guglielmo?’ disse l’uomo passandogli accanto. ‘No, grazie,’ rispose Guglielmo. ‘Faccio da me.’ Aspettò che l’uomo si fosse allontanato, rimise il sacco in spalla e riprese il cammino. Pensava che Rosa avrebbe dovuto aiutarlo. Non era possibile continuare così. Lassù dal cielo doveva dargli la forza di vivere. E guardò in alto. Ma era tutto buio, non c’era una stella”.). Gli alberi in Walden aiutano a scrivere la parola "vita" in caratteri maestosi consigliando una rivoluzione delle abitudini che è anche rivoluzione del sentire. L’uomo che arriva nella scena boscosa viene avvertito come uomo e accolto nella sua partecipazione solidale. Ancora Thoreau: “Gli uomini difficilmente abbandonano qualcuno, dovunque egli si trovi. Mentre vivevo nei boschi, ebbi più visitatori di quanti ne abbia avuti mai in qualsiasi altro periodo della mia vita; voglio dire che ne ebbi alcuni”. Due scene simili, due reazioni diverse. Ancora il basso. Ancora l’alto. Una volta ancora alberi che salvano o indicano una via e boschi che fanno smarrirla. I giorni dei tagliatori di Cassola non passano. Uno dei suoi protagonisti s’industria per trovare una soluzione di logica semplice: “Passa la vita, vuoi che non passi un giorno?”. La logica di Thoreau chiama a raccolta l’universo e ci mette in mezzo l’uomo nella sua solenne semplice grandiosità. E, invitando a realizzare il pieno compito della sua condizione, scrive: “Possiamo non arrivare in porto nel tempo stabilito, ma seguiremo il vero cammino”. Parole che non sono arrivate al poeta Brodskij che nella poesia che abbiamo citato in apertura scrive: “Un viaggio di mille li incomincia da un passo’/ dice il proverbio. Peccato che da esso/ non dipenda anche il viaggio di ritorno, più lungo assai/ di mille li, a dire il vero. Specialmente contando da zero./ Mille, duemila li. Mille vuol dire ‘mai/ lì’, vuol dire lontano da i tuoi cari,/ e il morbo dell’insensatezza passa ormai dalle parole ai numeri; specialmente agli zeri”. Come al solito l’importante non è partire ma continuare ad andare. Non è saper contare ma continuare, fino a trovare il risultato che scioglie l’arcano della condizione umana. Dentro e fuori dal bosco.
PS: Gli alberi da cui sono venute queste parole sono stati impiegati per stampare “Il taglio del bosco” di Carlo Cassola e “Walden o vita nei boschi” di Ralph W. Thoreau. Sono due edizioni molto vecchie che rileggo da anni e ora hanno preso un odore dolciastro che mi fa pensare alle loro origini d'albero e al suo taglio odoroso (anche se in realtà viene dalla degradazione di alcuni agenti che si danno per allisciare la carta e degli inchiostri ma mi piace pensare che sia originato dal legno antico). E’ un profumo che non ha l’edizione in volume di Rigoni Stern. Carta molto sottile e quasi inodore che non sembra rimandare ai suoi precedenti frondosi. Così pure Jean Jono “L'uomo che piantava gli alberi” che ho letto prima in una casa-Comune in mezzo ai boschi umbri e acquistato solo successivamente. Non ha ancora il sentore di legno dei primi due. Profumano anche i versi di Brodskij (“Poesie”). Per sapere del bosco dei suicidi giapponesi e per tutto il resto non è stato tagliato un albero.
Luisa. Vieni qui se io ti dico, poi, amore. Amore. Vieni qui se un dubbio ti rimane, se questi anni venti vissuti insieme, in fondo. Se se se.
Se vieni qui tutto andrà bene, che del coraggio che ci rimane di dire ok così non va e di ritentare. Di altri anni venti, io e te, amore. Mentre il sale scioglie, i figli via, un'altra pila d'acqua sui fornelli. Una domenica alla tivvù. Vieni qui, ti dico, amore. Pare uno scherzo pare. Uno finito male. Se può servire a cambiare. Se può servire, vieni qui, amore.
Mirko. Bella pe te. 102punto5, 98e7, 101e3, e so tutte e frequenze. Vattelapijander tutti li semafori li so io. Tutte e vorte che me vojono pulì er vetro ma vattenaffa. I spicci? Ma de che. Tutto er giorno n furgone. I spicci. I spicci me chiede. Ma vattenaffa. Bella pe te. Ndo stai? No sto cor furgone. Me cambio e te passo a pija. Daje. Bella pe noi. Chi sei? Ma da che nummero me chiami? Ah, da paura. Sto a staccà. Domani nun lavoro. Bella pe te.
Di Carvelli (del 31/01/2014 @ 08:45:24, in diario, linkato 1133 volte)
Ho letto “In trappola” di Herta Müller (Sellerio), tre saggi ben annotati e curati da Federica Venier. Il tratto che tiene tutto insieme è l’esistenza in tempi di dittatura e di controllo. La difficile esistenza umana in catene. Fin troppo facile pensare alla condizione di uno Stato autoritario (e non si può mancare di sottolineare che è il filo che tiene i tre saggi). Più tortuoso ma non ambiguo – secondo me – pensare alla condizione dell’essere in un qualsiasi regime di controllo. Certe frasi mi hanno fatto pensare al mondo del lavoro, altre ai sentimenti, altre ancora alla pubblicità e al marketing. Cito: “Vite umane vengono apertamente sepolte oppure fatte crollare su se stesse, segretamente, attraverso il logoramento. La semplice ragione viene dichiarata nemica. Il tentativo di dare un senso alla propria vita viene sventato e punito”. Non per essere riduttivo e mancare il senso del libro che si esprime, ad esempio, in forme di resistenza preziosa e confortante come questa sulla poesia atto di riparo. Segreto, anch’esso. Cito: “In Romania molta gente si è aggrappata a poesie. Ha pensato grazie ad esse, per essere un momento sola con se stessa: brevi versi in testa, breve respiro in bocca, brevi gesti in corpo. Le poesie si addicono all’insicurezza, grazie alle loro parole ci si tiene in pugno. Sono un sostegno che si può portare in mente. Le si può recitare interamente, parola per parola e in silenzio”. Nella lingua del Nobel Müller c’è qualcosa di aspro e abissale almeno quanto i suoi temi. La “responsabilità inaccettabile per l’infanzia” a cui sono costretti i bambini traguarda i campi di sterminio e le dittature e fa emergere altre precarietà. C’è poco da sperare? C’è poco da sperare. Persino la libertà ha un suo lato scomodo o ingestibile per i più come fa dire a Ruth Klüger in citazione: “Chi è libero è imprevedibile, e non ci si può fidare di lui. Chi è libero diventa pericoloso per gli altri”. Il costo sociale della libertà – speranza contro la vita in catene, soluzione al dramma del controllo – paga l’isolamento. Uno scambio parimenti doloroso. Ma esistenzialmente etico.
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