Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.

Bellissimo il “Diario 1941-1943. Edizione integrale” (Adelphi) di Etty Hillesum. Se nella letteratura come nella vita si può classificare tutto per utile, inutile o dannoso (con l’estensione purtroppo nel caso dei libri in: divertente, emozionante, spaventoso e via a sfumare) il libro della Hillesum che già molti di noi conobbero in versione antologizzata rientra nel caso primo. Utile. E potremmo qui concederci una sfumatura verso l’alto. Scrive Etty: “Non devi pensare, ma ascoltare quello che c’è dentro di te: se lo fai ogni mattina per un po’, prima di metterti al lavoro, acquisirai una sorta di calma che illumina l’intera giornata”. E ora mettetevi al lavoro! Poi annota: “Se un individuo ha un centro, tutte le impressioni provenienti dall’esterno trovano in quel centro un punto certo (devono fermarsi lì). Chi non ha centro ed è insicuro, a ogni nuova impressione perde l’equilibrio e diventa sempre più insicuro, mentre ogni nuova impressione rende sempre più stabile il centro del primo”. Cosa fare ora se non quello che sta scritto qui? E il modo, poi, di ascoltare i maestri (o gli “aiutanti”) e ripetere i loro pensieri: “E ora capisco anche le parole di S. dopo la mia prima visita da lui. ‘Quel che c’è qui’ (e indicava la testa) ‘deve finire qui’ (e indicava il cuore)”. Anche la percezione della bellezza, quella falsata, quella vera: “Mi ricordo benissimo di come ‘sentivo’ una volta. Trovavo tutto talmente bello che mi faceva male al cuore. Allora la bellezza mi faceva soffrire e non sapevo che farmene di quel dolore. Sentivo il bisogno di scrivere o di far poesie, ma le parole non mi volevano mai venire. E mi sentivo terribilmente infelice. In fondo io mi ubriacavo di un paesaggio simile, e poi mi ritrovavo del tutto esaurita. Mi costava un’enorme quantità di energie. Ora chiamerei questo comportamento ‘onanismo’”.
Mi chiamavi impiastro e non accadrà più che qualcuno lo faccia al posto tuo. Ci vogliono anni pochi per essere impiastro di qualcosa o qualcuno. Ci vuole un’imperizia che purtroppo perdiamo. Con la vita si impara a non sbagliare. Con la vita si impara a fare tutto male senza che qualcuno se ne accorga. A fare bene non servono rimozioni o buone maniere. Ci vuole un tanto di cuore così. Quello che avevi tu. E io, che ero e sono un impiastro, quel cuore non ce l’ho più. Anche se ho imparato a muovere meglio le mani. A nascondere gli errori, a mistificare i difetti. E quasi sempre bene. Nessuno mi dirà più sei un impiastro. E questo, adesso mi sembra, è un male.
Dunque è questa che chiamiamo velocità un dire senza fare in tempo a dire, l'ultima strada presa, l'attesa delusa, il vino sulla tovaglia, un nome breve, la parola "aspetta".
Da via Merulana a piazza Vittorio. La porta magica e Gadda. Via Merulana. C’è un verso o è una via “senza verso”, parafrasando il memoir di Emanuele Trevi che prende le mosse da questa bellissima via alberata romana per raccontare la sua amicizia con un poeta scomparso? C’è in questo salire e scendere ombroso di platani un percorso privilegiato? Un “da dove a dove”?
Il 9 marzo, camminando e leggendo, proveremo a sceglierne uno. Quello che dalla cima di San Giovanni, abbandonando ospedali, chiese, università e previdenza sociale ci conduce per marciapiedi filtrati di luce nello spiazzo largo di piazza Vittorio. Prima della magia, prima della multietnia che figlia attorno a una rara piazza porticata romana scopriremo che Roma ha dei suoi circuiti speciali. Contribuisce la natura, aiuta l’architettura, sono necessarie pagine di libri che l’hanno raccontata. Da Gadda e il suo Pasticciaccio ad Amara Lakhous (“Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio”), senza dimenticare una ondata di scrittori che qui intorno ha trovato lo scenario ideale per raccontare come Roma abbia trovato uno dei suoi primi esperimenti di melting pot. Un Buddha e una via di gastronomia indiana, l’antichità romana, una delle poche attestazioni parigine nella Capitale, una caserma che diventa mercato e un teatro che trasmigra l’avanspettacolo ai giorni d’oggi.
Dice che le è sembrato bello quel tramonto. Che se ora deve raccontarmelo deve usare colori che non sa chiamare. Che quindi preferisce darmi appuntamento in quello stesso posto in cui lo ha visto. Come se fosse un luogo privilegiato, un punto di osservazione speciale. Come se un giorno fosse uguale all’altro. Come se io fossi lei o un altro.
Vorrei avere fissa una persona a fianco per fare le cose che non so fare. Che sono molte. Per esempio, il saper resistere a telefonate un po' troppo lunghe. Per questo mi basterebbe una persona con cui dividerle a metà. Un'altra cosa che non so fare è scrivere mail ed è singolare che invece io abbia scritto persino dei libri. E ho messo, in questa piazza spazzata dal vento che è la mia vita, due atti comunicativi e anche questo è peculiare per la fama di conversatore di cui godo. Mi rendo conto che litigo meglio se c'è una persona con cui farlo. A quel punto anche fare pace assume un rilievo maggiore. Anche se sono riuscito a litigare da solo e da solo riappacificarmi. Fare pace con un altro è una giustificazione necessaria, se posso dire così. Anche quando cucino lo faccio meglio se è per qualcuno. Quando si va al mare e c'è vento, stendere il telo da soli non è agevole. Ho provato a giocare a tennis contro il muro ma ho sempre pensato che è un avversario troppo regolare. Farsi le foto da soli, anche se di moda, lo trovo un po' disagevole e anche ridere da soli è divertente ma in due viene meglio e dura di più. In genere ci sono buoni motivi per essere in due e credo che elencarli possa essere un utile esercizio per fare attenzione la prossima volta che mi capiterà a non avventurarmi, con ingiustificato slancio, in solitarie partite di subbuteo o discussioni in cui sarei capace, con sapiente dialettica, di sostenere due ragioni opposte con speculare convinzione.
Dire i numeri. Dire la sesta parte. Dire questo e quello e non così colà. Chiamare le cose con il nome. Chiamare le persone con il patronimico e diminutivi quanto basta. E poi fare come quelli che si dicono felici o infelici e sanno dire perché. Dopo andare a letto. Alla stessa ora. Ogni sera.
Di ventitré anni e di tutti questi giorni che li hanno costruiti non so che dire. Neppure dico come sono. Neppure so con esattezza i miei mille difetti. Questa lunga incostanza. Questo non tradirsi. Quell'esserci sempre. Quel poter dire "io c'ero". Dire: "se servirà ci sarò". E così passano ventitré anni. Una questione un po' imbarazzante per chi, incostante, non ha finito cose che ha iniziato, concluso persone che ha cominciato, portato a termine lavori avviati. E oggi per la ventitreesima volta qui. A stupirsi di come sia potuta accadere tutta questa fedeltà a un'idea, una persona, un gruppo di persone. Una scelta quasi invisibile. Per raccontarla in un giorno. E rimando a domani. Sapendo che questa fedeltà l'ho costruita così: dicendo "anche domani". In parte, un piccolo inganno per la noia, la paura, il tempo.

Tardi rispetto al clamore da orecchio a orecchio che lo ha portato a essere uno dei libri più amati, oltre che apprezzati, nel 2013 leggo “Stoner” di John Williams. Una sorta di repechage che ha ridato lustro a un autore americano dimenticato. Inizio da questa scena bellissima: Eccoli, lei e lui: “‘Non sono ammalata’, disse lei. E poi aggiunse con voce calma, riflessiva e quasi distaccata: ‘Sono disperatamente… disperatamente infelice’. Lui ancora non capiva”. Poi capisce e: “Alla fine, con voce lenta e grave, disse: ‘Sotto molti aspetti, sono un uomo ignorante. Sono io che sono stupido, non lei. Non sono venuto a trovarla perché pensavo… sentivo che cominciavo a essere un fastidio. Forse non era vero’”. E non era vero: “‘No’, disse lei. ‘No, non era vero’. Sempre senza guardarla, Stoner continuò: ‘E non volevo causarle il disturbo di doversi confrontare con… con i mie sentimenti per lei… che prima o poi, se avessi continuato a vederla, si sarebbero palesati’. Lei restò immobile. Due lacrime le inumidirono le ciglia e le corsero giù per le guance. Non le asciugò. ‘Forse sono stato egoista. Pensavo che questa cosa non avrebbe fatto altro che mettere in imbarazzo lei e rendere infelice me. Conosce le mie… circostanze. Mi sembrava impossibile che lei potesse… provare qualcosa per me… se non…’”. Le circostanze di Stoner, il lui, sono che è sposato e ha scoperto di provare qualcosa per lei, la sua allieva, Miss Driscoll, e la cosa non deve piacergli particolarmente. O, almeno, per un uomo come lui un po’ integerrimo e cauto è una piccola ombra di imbarazzo a cui si abbandonerà solo vincendo una grande resistenza. Le cose stanno così. Ho ripensato a questa scena vedendo finalmente il bellissimo “Her” di Spike Jonze (di cui forse qualche tempo fa ho recensito il corto “I’m her”). Un film gravido di suggestioni al di là della gamification e del plot futuristico o futuribile. Se ci si può innamorare con trasporto emozionale di una voce sintetizzata, quale è la natura ultima, il grado zero del sentimento? Se le convenzioni (quelle dell’America degli anni di cui scrive Williams) possono essere piegate e persino la scienza sottomessa, quale è la cifra minima dell’amore? Giorni fa un mio amico mi faceva un discorso che qui sintetizzo: “Vedi, nell’amore contano tante cose, la confidenza, l’attrazione, la condivisione, il dialogo, la somiglianza di punti di vista sulle cose e di passioni eppure oggi, dopo tanto tempo, penso che può esserci anche uno solo di questi elementi – e gli altri sono venuti meno o non ci sono mai stati – e il rapporto può funzionare benissimo lo stesso”. Voleva dire – ha poi detto – che basta un solo ingrediente per la felicità. Il discorso si complicherebbe a voler allungare questa disamina. Per esempio si potrebbe chiedere: “Forse basta solo una decisione?” o “Forse basta solo un bisogno o la disponibilità all’accontentarsi?”. Ma mancherebbe la profondità dello spunto del mio amico che lascio all’osso: basta uno solo di questi elementi portato al suo livello più comprensivo e con la forza totalizzante di coprire con la sua forza gli altri, i mancanti. In “Her” manca la fisicità. Ma manca davvero? Non è vero forse che la costruzione di una confidenza la sostituisce con qualcosa di analogamente coinvolgente anche se indotta, stimolata, suggerita? Per tornare a Stoner e alla Driscoll, che si ameranno e si separeranno, il loro mondo – la loro storia – si chiude e trionfa nella dedica del primo libro di lei: “A J.W.”. Il mondo spesso finisce in tre lettere e un imbarazzo trionfante. A tre lettere diamo tutta la forza totalizzante che una voce sintetizzata da un sistema operativo o dei ricordi sbeccati finiscono per avere o non avere più. E va bene così.

Mi è sempre piaciuto pensare che l’Italia abbia avuto – e abbia tuttora – una sua buona generazione di voci in letteratura capaci di parlare dal piccolo della provincia al largo bacino dei lettori che – almeno si pensa – vivono nelle grandi città. Con forza, con esattezza. In un certo senso, il mio è un pensiero al netto di ogni facile propensione, con una sua forza ma anche una sua giusta dimensionalità. Voglio dirlo altrimenti. Credo che a molti intellettuali sia piaciuto e piaccia pensare – dal centro – che il racconto della provincia possa in qualche modo avere la forza di una catarsi. E questo fa propendere, in certo qual modo almeno, per una debolezza verso la letteratura della provincia. Una sorta di complesso di inferiorità. Talvolta – anche se non consapevolmente – con la sordida (non dichiarata) maglia della salute di un “notizie da una provincia dell’Impero”. Allargando l’orizzonte, tecnicamente, la lettura rischia di essere una potente forma allucinogena. Più consueta per luoghi che hanno lunghezza e difficoltà di attraversamenti? Più facile per chi ha meno costi-tempo correlati alla maggiore dimensione? Raccontare la provincia, per noi che stentiamo in urbe, può avere l’urgente temperie di un alleggerimento. Il mondo ci grava addosso la sua pena fisica e noi la traduciamo in metafisica per mezzo della letteratura. Scrivo un po’ di provincia e di letteratura dopo aver letto questo significativo bestiario umano della provincia di Marco Drago “La vita moderna è rumenta” (uscito per la Zoom della Feltrinelli ovvero solo in ebook). La provincia (Canelli, nell’astigiano e dintorni) di Drago – uno dei narratori della grande provincia anni Novanta (meritoriamente monitorata anche con la bellissima rivista di cui è stato uno dei fondatori e animatori, Maltese Narrazioni) e successivi che mi piace qui nominare insieme con la ingiustamente dimenticata anconetana Silvia Magi (che esordì per la Rizzoli con la prodigiosa scarna e scabra raccolta di racconti di “Tutto quello che mi sta a cuore”) e con Sandro Campani (che raccolse storie di un appennino tosco-emiliano in “È dolcissimo non appartenerti più” per la Playground). Ovviamente è una selezione strettissima che non inquadra tutto un fenomeno complesso e ricco d’Italie e di stili diversi. Più attenti a sfumature o a generazioni. Un fenomeno a cui si aggiunge il nuovo di Alessio Torino e la sua Urbino. Insomma una foto metafisica più che un gruppo di famiglia. In realtà quello che volevo scrivere qui è una contenuta felicità per questa speciale dotazione di scrittrici e scrittori che aggiungono sapore a una letteratura spesso troppo metropolitana senza per questo assegnar loro il vantaggio dell’esotismo. Piuttosto il beneficio del saper inquadrare, con assolutezza di osservazione, una linea-tempo che nelle letteratura metropolitana viene spesso troppo suggestionata dal fluire delle mode e della transitorietà dell’esperienza del consuma e crepa.

|
|
Ci sono 722 persone collegate
<
|
aprile 2025
|
>
|
L |
M |
M |
G |
V |
S |
D |
| 1 |
2 |
3 |
4 |
5 |
6 |
7 |
8 |
9 |
10 |
11 |
12 |
13 |
14 |
15 |
16 |
17 |
18 |
19 |
20 |
21 |
22 |
23 |
24 |
25 |
26 |
27 |
28 |
29 |
30 |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|