Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Mi crea da sempre un certo imbarazzo l’ambientalismo, la filosofia del “chilometri zero”, il pensiero verde. La cosa non accade per contrarietà, qualche partito preso industrialista o convinzione inflessibile nell’urbanesimo. Tutt’altro. A fermarmi è l’impaccio offerto dalla paura che la limpidezza della coscienza, quella che pretende un allineamento tra pensiero e azione senza che l’uno faccia ombra all’altro, non sia tale da sostenere un tema così alto e pure così semplice. Nel caso del libro di Henry David Thoreau, “Walden ovvero Vita nei boschi” (che leggo in un’edizione tascabile della BUR e nella versione di Piero Sanavio), e forse mai come in questo caso, non accade e ciò a tutto vantaggio del pensiero che è la materia del libro. L’esperienza si allinea all’idea e fanno una stessa luce. Walden è, da questo punto di vista, un libro della riconciliazione tra prassi e atto. Il filosofo non fa buio al praticante. Lo scrittore non scatta il flash sulla materia del suo racconto. Perché questo è un libro che nasce dall’esperienza e dal pensiero della sua necessità. Lo potreste leggere come un manifesto o come l’autofiction (prima che “autofiction” diventasse un genere) di un esperimento: andare a vivere in campagna per conoscere la comunione con la Natura. E anche questo ha poco a che vedere con le mode quanto piuttosto con un’urgenza che, a seguire, ci spinge a domandarci quanto e per quale strada possiamo essere/diventare migliori. Insomma, un libro che ha la funzione di dire e nel dire sfidarci a essere. Con un lato educativo non trascurabile ma senza pedanteria. L’esperienza di vita nei boschi di Thoreau è inebriamento determinato dalla contiguità con lo spirito della terra e immersione nella sua manifestazione in un continuo scambio osmotico tra ragionamento e sensibilità ma sempre a partire dal dato reale del fare. L’autore lo scrive nel 1845 anche se il libro esce, dopo sette revisioni, solo nel 1854. Lo precede una determinatezza di cui sono testimonianza i diari dell’autore (che io possiedo in una edizione cartonata e con sovraccoperta del 1963 di Neri Pozza: “Vita di uno scrittore”). Il nascere dell’esperienza è salutata il giorno dopo il suo inizio con oggettività icastica: 5 luglio 1845. “Ieri sono venuto a vivere qui”. Solo questo. L’autore ha 27 anni. Non è la prima volta che pensa di vivere/scrivere di questo lago che dà il nome al suo libro. Ci ragiona dal 4 settembre 1841 (anni 23), ad esempio, quando nel diario annota: “Penso che potrei scrivere un poema che dovrebbe intitolarsi ‘Concord’. Per argomento avrei il Fiume, i Boschi, i Laghi, le Colline, i Campi, le Marcite e i Prati, le Strade e le Case, ed i Paesani. E poi Mattino, Meriggio e Sera, Primavera, Estate, Autunno e Inverno, Notte, Estate di San Martino e le Montagne all’Orizzonte”. In “Walden” è scritto: “Verso la fine del marzo 1845 mi feci prestare una scure e andai nei boschi presso il lago di Walden, il più vicino possibile a dove avevo intenzione di costruirmi la casa, e cominciai ad abbattere pini bianchi, alti e appuntiti e ancora giovani, per farne legname da costruzione”. Quello che si dice “pensiero insistente”. Per dire della continua oggettività del libro, poche pagine dopo questa citazione c’è una specie di scontrino fiscale dell’occorrente per la costruzione della sua capanna. E in questa meticolosità da tributarista il riflesso di un discorso, fatto poco prima, sull’eccessivo e ingiustificato costo delle case, in affitto o acquisto che siano. Stesso registro di spese entra dopo per gli alimenti e puntualizzerà l’intero libro. E questa disposizione al calcolo è così moderna fatta la tara al dollaro e agli spread. Persino la successiva ricetta del pane sembra da rotocalco. La verità è che Thoreau sta scrivendo non un manuale della sopravvivenza né uno stiloso articolo sul fai da te in tempi di recessione bensì un invito al selvatico che sarà pane e testo sacro per i pensatori e i movimenti bioregionalisti, i teorici wilderness come Gary Snyder. Il suo scopo è riscoprire “l’uomo ospite nella natura”. La radicalità di questo pensiero non si ferma alla sola e bellissima poesia di questa immersione nel divino naturale. C’è una critica dello Stato e delle ragioni dello Stato, le sue tasse, la sua pretestuosa ed elefantiaca determinazione del destino degli uomini, l’economia e la sua pretesa forza totalizzante. Walden è un libro costruito a partire da sé ma, attraverso una conoscenza del Sé, ricava una lezione che vale per ognuno di noi. Il libro contiene l’invito a “seguire la propria strada, non quella di suo padre, sua madre, o un suo vicino”, alla “spartana semplicità di vita, e uno scopo elevato”. A questo libero pensatore sta a cuore la felicità individuale nella comunità degli uomini, in comunione con la Natura e le sue leggi compassionevoli anche nella durezza (bipolarità che nasce dal pensiero orientale di cui è infarcito il libro in una sintesi sincretica con il cristianesimo trascendentalista). Da Thoreau impariamo che “un uomo è ricco in proporzione al numero di cose di cui può fare a meno”. Con lui veniamo invitati “a condurre la vita con la medesima semplicità e posso dire con la medesima innocenza della Natura”. A contemplare la vita “nelle sue opere più belle e più critiche” e a vivere dentro essa. Una delle frasi più famose e ipercitate del testo dello scrittore americano non ha perso nulla della sua poeticamente straziante e luminosamente assoluta determinazione ispirata a quell’allineamento di pensiero e azione di cui dicevo all’inizio e che sta al libro come la sua sinossi. “Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici; se si fosse rivelata meschina, volevo trarne tutta la genuina meschinità, e mostrarne al mondo la bassezza; se invece fosse apparsa sublime, volevo conoscerla con l’esperienza, e poterne dare un vero ragguaglio nella mia prossima digressione”. Walden è un libro per grandi, per la complessità di certe sue radicali argomentazioni politico-economiche, per meno grandi, per l’invito continuo alla scoperta e al racconto della bellezza naturale di cui tutti abbiamo bisogno per compiere un allineamento sempre più raro e necessario tra pensiero e azione, io e Natura.
Mi è sempre piaciuto pensare che l’Italia abbia avuto – e abbia tuttora – una sua buona generazione di voci in letteratura capaci di parlare dal piccolo della provincia al largo bacino dei lettori che – almeno si pensa – vivono nelle grandi città. Con forza, con esattezza. In un certo senso, il mio è un pensiero al netto di ogni facile propensione, con una sua forza ma anche una sua giusta dimensionalità. Voglio dirlo altrimenti. Credo che a molti intellettuali sia piaciuto e piaccia pensare – dal centro – che il racconto della provincia possa in qualche modo avere la forza di una catarsi. E questo fa propendere, in certo qual modo almeno, per una debolezza verso la letteratura della provincia. Una sorta di complesso di inferiorità. Talvolta – anche se non consapevolmente – con la sordida (non dichiarata) maglia della salute di un “notizie da una provincia dell’Impero”. Allargando l’orizzonte, tecnicamente, la lettura rischia di essere una potente forma allucinogena. Più consueta per luoghi che hanno lunghezza e difficoltà di attraversamenti? Più facile per chi ha meno costi-tempo correlati alla maggiore dimensione? Raccontare la provincia, per noi che stentiamo in urbe, può avere l’urgente temperie di un alleggerimento. Il mondo ci grava addosso la sua pena fisica e noi la traduciamo in metafisica per mezzo della letteratura. Scrivo un po’ di provincia e di letteratura dopo aver letto questo significativo bestiario umano della provincia di Marco Drago “La vita moderna è rumenta” (uscito per la Zoom della Feltrinelli ovvero solo in ebook). La provincia (Canelli, nell’astigiano e dintorni) di Drago – uno dei narratori della grande provincia anni Novanta (meritoriamente monitorata anche con la bellissima rivista di cui è stato uno dei fondatori e animatori, Maltese Narrazioni) e successivi che mi piace qui nominare insieme con la ingiustamente dimenticata anconetana Silvia Magi (che esordì per la Rizzoli con la prodigiosa scarna e scabra raccolta di racconti di “Tutto quello che mi sta a cuore”) e con Sandro Campani (che raccolse storie di un appennino tosco-emiliano in “È dolcissimo non appartenerti più” per la Playground). Ovviamente è una selezione strettissima che non inquadra tutto un fenomeno complesso e ricco d’Italie e di stili diversi. Più attenti a sfumature o a generazioni. Un fenomeno a cui si aggiunge il nuovo di Alessio Torino e la sua Urbino. Insomma una foto metafisica più che un gruppo di famiglia. In realtà quello che volevo scrivere qui è una contenuta felicità per questa speciale dotazione di scrittrici e scrittori che aggiungono sapore a una letteratura spesso troppo metropolitana senza per questo assegnar loro il vantaggio dell’esotismo. Piuttosto il beneficio del saper inquadrare, con assolutezza di osservazione, una linea-tempo che nelle letteratura metropolitana viene spesso troppo suggestionata dal fluire delle mode e della transitorietà dell’esperienza del consuma e crepa.
Tardi rispetto al clamore da orecchio a orecchio che lo ha portato a essere uno dei libri più amati, oltre che apprezzati, nel 2013 leggo “Stoner” di John Williams. Una sorta di repechage che ha ridato lustro a un autore americano dimenticato. Inizio da questa scena bellissima: Eccoli, lei e lui: “‘Non sono ammalata’, disse lei. E poi aggiunse con voce calma, riflessiva e quasi distaccata: ‘Sono disperatamente… disperatamente infelice’. Lui ancora non capiva”. Poi capisce e: “Alla fine, con voce lenta e grave, disse: ‘Sotto molti aspetti, sono un uomo ignorante. Sono io che sono stupido, non lei. Non sono venuto a trovarla perché pensavo… sentivo che cominciavo a essere un fastidio. Forse non era vero’”. E non era vero: “‘No’, disse lei. ‘No, non era vero’. Sempre senza guardarla, Stoner continuò: ‘E non volevo causarle il disturbo di doversi confrontare con… con i mie sentimenti per lei… che prima o poi, se avessi continuato a vederla, si sarebbero palesati’. Lei restò immobile. Due lacrime le inumidirono le ciglia e le corsero giù per le guance. Non le asciugò. ‘Forse sono stato egoista. Pensavo che questa cosa non avrebbe fatto altro che mettere in imbarazzo lei e rendere infelice me. Conosce le mie… circostanze. Mi sembrava impossibile che lei potesse… provare qualcosa per me… se non…’”. Le circostanze di Stoner, il lui, sono che è sposato e ha scoperto di provare qualcosa per lei, la sua allieva, Miss Driscoll, e la cosa non deve piacergli particolarmente. O, almeno, per un uomo come lui un po’ integerrimo e cauto è una piccola ombra di imbarazzo a cui si abbandonerà solo vincendo una grande resistenza. Le cose stanno così. Ho ripensato a questa scena vedendo finalmente il bellissimo “Her” di Spike Jonze (di cui forse qualche tempo fa ho recensito il corto “I’m her”). Un film gravido di suggestioni al di là della gamification e del plot futuristico o futuribile. Se ci si può innamorare con trasporto emozionale di una voce sintetizzata, quale è la natura ultima, il grado zero del sentimento? Se le convenzioni (quelle dell’America degli anni di cui scrive Williams) possono essere piegate e persino la scienza sottomessa, quale è la cifra minima dell’amore? Giorni fa un mio amico mi faceva un discorso che qui sintetizzo: “Vedi, nell’amore contano tante cose, la confidenza, l’attrazione, la condivisione, il dialogo, la somiglianza di punti di vista sulle cose e di passioni eppure oggi, dopo tanto tempo, penso che può esserci anche uno solo di questi elementi – e gli altri sono venuti meno o non ci sono mai stati – e il rapporto può funzionare benissimo lo stesso”. Voleva dire – ha poi detto – che basta un solo ingrediente per la felicità. Il discorso si complicherebbe a voler allungare questa disamina. Per esempio si potrebbe chiedere: “Forse basta solo una decisione?” o “Forse basta solo un bisogno o la disponibilità all’accontentarsi?”. Ma mancherebbe la profondità dello spunto del mio amico che lascio all’osso: basta uno solo di questi elementi portato al suo livello più comprensivo e con la forza totalizzante di coprire con la sua forza gli altri, i mancanti. In “Her” manca la fisicità. Ma manca davvero? Non è vero forse che la costruzione di una confidenza la sostituisce con qualcosa di analogamente coinvolgente anche se indotta, stimolata, suggerita? Per tornare a Stoner e alla Driscoll, che si ameranno e si separeranno, il loro mondo – la loro storia – si chiude e trionfa nella dedica del primo libro di lei: “A J.W.”. Il mondo spesso finisce in tre lettere e un imbarazzo trionfante. A tre lettere diamo tutta la forza totalizzante che una voce sintetizzata da un sistema operativo o dei ricordi sbeccati finiscono per avere o non avere più. E va bene così.
Di ventitré anni e di tutti questi giorni che li hanno costruiti non so che dire. Neppure dico come sono. Neppure so con esattezza i miei mille difetti. Questa lunga incostanza. Questo non tradirsi. Quell'esserci sempre. Quel poter dire "io c'ero". Dire: "se servirà ci sarò". E così passano ventitré anni. Una questione un po' imbarazzante per chi, incostante, non ha finito cose che ha iniziato, concluso persone che ha cominciato, portato a termine lavori avviati. E oggi per la ventitreesima volta qui. A stupirsi di come sia potuta accadere tutta questa fedeltà a un'idea, una persona, un gruppo di persone. Una scelta quasi invisibile. Per raccontarla in un giorno. E rimando a domani. Sapendo che questa fedeltà l'ho costruita così: dicendo "anche domani". In parte, un piccolo inganno per la noia, la paura, il tempo.
Dire i numeri. Dire la sesta parte. Dire questo e quello e non così colà. Chiamare le cose con il nome. Chiamare le persone con il patronimico e diminutivi quanto basta. E poi fare come quelli che si dicono felici o infelici e sanno dire perché. Dopo andare a letto. Alla stessa ora. Ogni sera.
Vorrei avere fissa una persona a fianco per fare le cose che non so fare. Che sono molte. Per esempio, il saper resistere a telefonate un po' troppo lunghe. Per questo mi basterebbe una persona con cui dividerle a metà. Un'altra cosa che non so fare è scrivere mail ed è singolare che invece io abbia scritto persino dei libri. E ho messo, in questa piazza spazzata dal vento che è la mia vita, due atti comunicativi e anche questo è peculiare per la fama di conversatore di cui godo. Mi rendo conto che litigo meglio se c'è una persona con cui farlo. A quel punto anche fare pace assume un rilievo maggiore. Anche se sono riuscito a litigare da solo e da solo riappacificarmi. Fare pace con un altro è una giustificazione necessaria, se posso dire così. Anche quando cucino lo faccio meglio se è per qualcuno. Quando si va al mare e c'è vento, stendere il telo da soli non è agevole. Ho provato a giocare a tennis contro il muro ma ho sempre pensato che è un avversario troppo regolare. Farsi le foto da soli, anche se di moda, lo trovo un po' disagevole e anche ridere da soli è divertente ma in due viene meglio e dura di più. In genere ci sono buoni motivi per essere in due e credo che elencarli possa essere un utile esercizio per fare attenzione la prossima volta che mi capiterà a non avventurarmi, con ingiustificato slancio, in solitarie partite di subbuteo o discussioni in cui sarei capace, con sapiente dialettica, di sostenere due ragioni opposte con speculare convinzione.
Dice che le è sembrato bello quel tramonto. Che se ora deve raccontarmelo deve usare colori che non sa chiamare. Che quindi preferisce darmi appuntamento in quello stesso posto in cui lo ha visto. Come se fosse un luogo privilegiato, un punto di osservazione speciale. Come se un giorno fosse uguale all’altro. Come se io fossi lei o un altro.
Da via Merulana a piazza Vittorio. La porta magica e Gadda. Via Merulana. C’è un verso o è una via “senza verso”, parafrasando il memoir di Emanuele Trevi che prende le mosse da questa bellissima via alberata romana per raccontare la sua amicizia con un poeta scomparso? C’è in questo salire e scendere ombroso di platani un percorso privilegiato? Un “da dove a dove”?
Il 9 marzo, camminando e leggendo, proveremo a sceglierne uno. Quello che dalla cima di San Giovanni, abbandonando ospedali, chiese, università e previdenza sociale ci conduce per marciapiedi filtrati di luce nello spiazzo largo di piazza Vittorio. Prima della magia, prima della multietnia che figlia attorno a una rara piazza porticata romana scopriremo che Roma ha dei suoi circuiti speciali. Contribuisce la natura, aiuta l’architettura, sono necessarie pagine di libri che l’hanno raccontata. Da Gadda e il suo Pasticciaccio ad Amara Lakhous (“Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio”), senza dimenticare una ondata di scrittori che qui intorno ha trovato lo scenario ideale per raccontare come Roma abbia trovato uno dei suoi primi esperimenti di melting pot. Un Buddha e una via di gastronomia indiana, l’antichità romana, una delle poche attestazioni parigine nella Capitale, una caserma che diventa mercato e un teatro che trasmigra l’avanspettacolo ai giorni d’oggi.
Dunque è questa che chiamiamo velocità un dire senza fare in tempo a dire, l'ultima strada presa, l'attesa delusa, il vino sulla tovaglia, un nome breve, la parola "aspetta".
Mi chiamavi impiastro e non accadrà più che qualcuno lo faccia al posto tuo. Ci vogliono anni pochi per essere impiastro di qualcosa o qualcuno. Ci vuole un’imperizia che purtroppo perdiamo. Con la vita si impara a non sbagliare. Con la vita si impara a fare tutto male senza che qualcuno se ne accorga. A fare bene non servono rimozioni o buone maniere. Ci vuole un tanto di cuore così. Quello che avevi tu. E io, che ero e sono un impiastro, quel cuore non ce l’ho più. Anche se ho imparato a muovere meglio le mani. A nascondere gli errori, a mistificare i difetti. E quasi sempre bene. Nessuno mi dirà più sei un impiastro. E questo, adesso mi sembra, è un male.
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