Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Carvelli (del 31/10/2006 @ 12:12:35, in diario, linkato 1589 volte)
Gentile ... grazie della tua mail intanto. Per quel che mi riguarda io ho pubblicato tanto su riviste per anni e poi mi è capitata l'occasione di esordire. E poi ancora di esordire. Insomma, mi sembra di aver sempre esordito ogni libro e di dover esordire ancora. Sempre. Mi sembra che un libro alla fine sia un esordio e per quanto mi è dato di vedere lo stesso vale per tutti. Quasi tutti (a meno di vendite clamorose o critica incessante). Ieri sera un cantante (?) mi raccontava: "hai venduto 1000 CD...allora ti dicono che se sei fico ne devi vendere 4mila. Ne vendi 4mila e ti dicono che se sei fico ne devi vendere 8mila e poi 20mila e poi..." Insomma si deve essere sempre più fichi: è la vita. Dicono che sia la vita. Non credo di essere un buon tramite per la scrittura altrui. Mi è già capitato sai, di credere in un libro e... E niente. Cionondimeno continuo a credere a quello che leggo e se vuoi ti leggo. E se mi piace ne parlo ma scrivendo a me miri basso. Scusa l'understatement ma sono abbastanza fico anch'io per rendermi conto di quello che sono (un non fico) e te lo dico da subito. Continua a scrivere sempre sapendo come mi ricorda sempre la mia cara D che le cose più belle stanno tutte nei cassetti e ancora non hanno visto la luce. Esordire alle volte vuol dire far vedere la luce a quel grande patrimonio ma più spesso no...però r
Che scrive: "Scopo ultimo dell'azione spirituale è non può non essere una realtà materiale, qualcosa di palpabile e apprezzabile da tutti, un oggetto insomma nella sua accezione più modesta e concreta, o un ordine forzato di fenomeni". E prosegue Tommaso Landolfi ed è tutto da leggere. Sequenza 30 della prima serie dei numeri di questo diario, pagina 72 nella mia edizione (un rizzoli 1984 dalla copertina giallina molto music-hall che, come accade ai libri un po' datati sa di zucchero a velo). Dicevo, Landolfi rincara e arriva persino a svelare la necessità di una relazione forte, un matrimonio più certo tra scienza e spirito e lo trova nell'alchimia, la scienza più spirituale che si ricordi. ma al presente o ripensato al Tao di Capra o a certi nessi della neurobiologia. Provoca (ma bonariamente, filosoficamente) e arriva a dire (o lo interpreto io) che persino i miracoli altro non sarebbero che il nesso realizzato di realtà e spirito, scienza e spirito. E il volerli attribuire all'esterno (esaltandone i facitori o magnificando un sistema di trasmissione di quella spiritualità) non fa altro che svilirne il peso, la forza. E rincaro io: come a dire che i miracoli funzionano solo se c'è chi li sa fare e non se uno impara come farli, crede nel poterli fare. Ecco ma chi è che scrive e chi è che legge? E' ancora Landolfi che dice o sono io che penso? Tragica transustanziazione della lettura.
Ci arrivo tramite Vibrisse. Questi versi sono qui e sono di Maria Grazia Calandrone (dal poemetto Processo della sposa). Dal sito www.lattenzione.com
(...)
facciamo il gioco che siamo amanti e siamo fuori dalla terra
allo stato di cose
e chiamiamo a gran voce – o primizia di marzo
che rovescia catene, oro – così servi
poi abbassiamo la testa fino al suolo
riconosci dal torcimento nero della juta in una semplice pecca
muschiosa la mia voce, il corpo
in un astuccio di metallo, le chele
in disarmo sui fianchi come una flessa dotazione di ali
sottomarine, il leggero del corpo sostenuto per forme di vela
dall'acqua
mobilissima dell'ossatura: quello
che esistendo sporge dal suo esistere – la melagrana
seminata dalla manciata nana di gennaio – la stasi del mio
cuore
che si lascia esplorare dalla pietà del tuo dito sotto la canfora
delle vesti
(...)
Nessun essere umano ha bisogno di un troppo alto coefficiente di fantasia sulla realtà. Questa dovrebbe essere la premessa per farsi spazio nelle ossessioni, nel parallelismo di una vita diversa da quella che viviamo. Un tempo fotoromanzo e cinematografo erano due parole che evocavano questi mondi dell'ulteriore e del diverso. Dell'oltre. Ed è strano pensare che grandi film che abbiamo amato e studiato come quadri siano stati il pretesto di fantasie ad occhi aperti. Così pure i libri. Ma fin dove questa fruizione è corretta? Quando un libro può essere un medicinale o un alteratore di coscienza? Questo naturalmente gli scrittori lo ignorano. E i registi anche. Forse ne dovrebbero avere coscienza? Forse tra le domande-premessa della scrittura ci dovrebbe essere questo vaticinio (questa immaginazione) delle implicazioni dell'opera?
Ieri alla mostra di Henri Cartier-Bresson. Da solo. In una giornata di uno straordinario grigio. In una luce immobile (chissà se in un giorno così avrebbe scattato e come CB). E' un pubblico della domenica mattina quindi quieto, comandato alla visita accurata, alla ricerca di informazioni, eventi più che equilibri. C'è una frase che vedo citata (è di Cartier-Bresson) e che mi piace. Dice "La macchina fotografica è per me (...) il detentore dell'attimo che, in termini visivi, interroga e decide nello stesso tempo". Interroga e decide. E tutto in un attimo. E' lo stesso che si potrebbe dire della parola dei libri? Mi sono sopreso a pensare (specie nel vedere il film delle/dalle sue immagini che va in loup in una sala attigua) a come spesso compaiano foto (in qualche modo è frequente) di due (talvolta più) persone dove il fotografo è il terzo: un esterno, uno spettatore. O foto di soggetti e come in questo caso Cartier-Bresson si ponga come il secondo elemento di questo (possibile/probabile?) dialogo. Mi sono chiesto se sia tutto un film mio pensare che forse un fotografo altro non è che un doppio sguardo sulle cose. Che non solo interroga e decide ma che forse anche c'è (per raccontare da dentro) o si assenta per vedere da fuori. In definitiva è un dentro e un fuori la foto. L'incorniciatore dell'immagine e il collezionista degli attimi a cui ha presenziato. In definitiva ho fatto pensieri sulla complicità tra l'artista e i suoi personaggi.
Io sono stato dunque spiritoso? Io, proprio io sono stato dunque anche questo che neppure mi ricordo? E tu allora che mi hai mandati due tuoi stati dell'animo/a che non so qual è il migliore? Chissà se siamo come vini...E se sì qual è la tua annata migliore? E la mia? Ero meglio rosso o novello. Ero meglio imbottigliato barriccato o vendemmiato di fresco. In un boccione da cinque litri o centellinato come un liquore? Io non lo so e neppure tu. Andiamo avanti così sperando di non diventare mai aceto ché se poi ci accadesse alla fine...ma che male faremmo a parte a noi stessi e in fondo non siamo altro che uva pigiata. Meglio o peggio che sia.
Di Carvelli (del 07/11/2006 @ 09:07:26, in diario, linkato 1633 volte)
Ieri medfilmfestival. Visto un film molto bello. Docce fredde. Qui la scheda.
Un film che spero di poter consigliare (spero che trovi una distribuzione). E' un film che racconta sapientemente e senza cadute stilistiche la difficile linea d'ombra di uno dei passaggi d'età più ardui. Quello dell'adolescenza verso la maturità. Il numero tre è il numero. Come si evince anche dal cartellone. Ma non c'è un tre senza un uno e il film parla di quello che siamo da uno. Da soli. Con noi. Il film in definitiva parla di uno e ad uno. Non si permette di parlare ad una generazione (non sorridete: c'è chi lo fa). Nè da una generazione all'altra. Insomma, non c'è distanza tra regista e spettatori o attori. L'inizio e la chiusa del film - davvero ben scritto e interpretato e diretto - è questa. Vado a memoria. Non c'è il bianco e il nero. Non c'è un bene e un male. Le persone non sono cattive o buone. Le persone cambiano. Solo questo. Le perosne non sbagliano mai (mai?) per cattiveria. Le persone non sono mai le stesse. E tra le persone c'è chi cambia più spesso e chi non cambia mai (cambia verso il cambiare: cioè sceglie di cambiare rimanendo sempre lo stesso, risceglie di nuovo se stesso anche se tutto intorno parrebbe dirgli/le cambia, non vedi che così non va). Insomma: si cambia e il miscelarsi di questi cambiamenti ci avvicina o ci allontana.
Douches froides non è un film compiaciuto né compiacente. Ma neanche di esibita schiettezza o trasgressività. E' un film onesto e onesto è chi lo ha diretto (Antony Cordier) credo al suo primo lungometraggio. Un film a cui non è sbagliato offrire un futuro anche qui in Italia e fuori da un festival per malati (malato, pazzo...sono aggettivi non casualmente molto usati nel film). Cosa è da pazzi? Cambiare? Rimanere uguali o attraversare il cambiamento da fermi? Rimanere puntati sul presente mentre il futuro è da anni o mesi o momenti che ci indica un'altra direzione? Verso dove stiamo andando mentre siamo immobili?
Poi c'è questo genere di ragazza/donna (mettete voi l'età) che non disdegna/rifiuta (mettete voi la gradualità di questa accettazione) e alle volte ricerca espressamente i complimenti (i facili complimenti) del barista (del banchista), del ragazzo del negozio, del garzone (esiste ancora la garzoneria?), dell'operaio. Esiste questo genere e vive ricercando lo stesso bar e lo stesso banchista (non l'altro, il collega, ma sempre quello che già ha professato il suo diretto ammicco). Al limite un breve disappunto. Mai un disdegno o subito sconfessato nella ripetizione. Esiste ed è un genere per cui mai tirare conclusioni. Altrove e altrimenti c'è irreprensibilità. Mai generalizzare ma c'è un genere ed è un genere che mutua questi apprezzamenti con la galanteria (esiste ancora una galanteria? E si risponde sì, anche se per così poco).
E' un libro molto prezioso sulla scrittura quello di Flannery O'Connor Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere curato da Ottavio Fatica e uscito già per Theoria (ora - invero è un po' - in minimum fax, stessa curatela e introduzione di Christian Raimo). Mi sono imbattuto in una frase che fa il paio con quella riflessione di lunedì sul vedere (a commento della mostra fotografica di Cartier Bresson). Scrive la O'Connor: "Con questo non voglio dire che scrivendo un racconto uno sia tenuto a trascurare o rinunciare alla sua posizione morale. Le vostre convinzioni sarannno la luce alla quale vedere, ma non potranno essere quello che vedete né sostituiranno l'atto del vedere. Per lo scrittore di narrativa, tutto trova verifica nell'occhio, organo che, alla fin fine, riassume l'intera personalità, e quanto più mondo riesca a contenere. Riassume il giudizio. Il giudizio è una cosa che ha origine nell'atto della visione, e quando non parte da quella, o ne è scisso, allora nella mente esiste una confusione che si trasferirà al racconto." E' un sos importante quello che arriva da queste righe ma direi dalla lettura del libro tutto dove predomina un senso di schiettezza che ho già conosciuto nelle prose della O'Connor. Persino il suo essere una scrittrice "cattolica" diventa qualcosa di severamente onesto mai una bandiera da sventolare o un arma (per quanto segreta) da puntare sulla vita. Tornando alla visione, allo sguardo penso che persino quando questa visione, questo sguardo, è di dentro, sono rivolti all'interno il giudizio debba soggiacere a questo sguardo e ne debba essere ispirato (ed è probabile che l'essere cattolica della O'Connor rifletta questa stessa luce, a riprova si legga l'osservazione diffusa di La saggezza nel sangue). Senza un a priori ma con un ricavo. Ma è un tema su cui tornare.
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